Uroboro
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Uroboro

Viaggio eterno nelle crepe dell'anima

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Uroboro

Viaggio eterno nelle crepe dell'anima

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Informazioni sul libro

I nostri demoni possono solo essere domati, mai uccisi. In Non mi sono mai piaciuta, Valentina Dallari ha raccontato come era arrivata a pesare 37 chili, a non voler più sentire, né vedere, né vivere, e il modo in cui è riuscita a smettere di autodistruggersi. Ma fragilità, rabbia e paura trovano sempre nuove forme, rinascono ogni volta che rinasciamo. Come l'uroboro, il serpente che addenta la propria coda, simbolo antico dell'eterno ritorno: l'inizio e la fine non sono poi così diversi.
In queste pagine coraggiose e taglienti Valentina ci accompagna in una discesa agli inferi di se stessa. Un viaggio nell'abisso interiore, per rischiarare l'anima e le sue crepe alla luce della consapevolezza. Una luce potente, in grado di riverberare anche su chi legge, per mettere a fuoco la storia di ognuno di noi.
Se non possiamo ignorare i nostri demoni, tanto vale andare a conoscerli e osservarli da vicino, dialogare con loro, per fare i conti fino in fondo. Affrontando nell'introspezione solitudine, senso di inadeguatezza, autolesionismo, il rapporto contrastato con il piacere, l'amore, la bellezza e il giudizio degli altri, in Uroboro Valentina riesce a cogliere nel profondo un'intima e ineliminabile fragilità che può trasformarsi in forza consapevole, in un viatico per vivere restando sempre se stesse.

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Informazioni

1
In casa

MORTE

I confini che dividono la Vita dalla Morte sono i più oscuri e vaghi.
Chi può dire dove gli uni finiscano, e dove gli altri inizino?
EDGAR ALLAN POE
Sono nata di nuovo. Non saprei definire quando, ma è successo. Se fossi una regista riprenderei questa scena dall’alto del mio orribile bagno arancione. Poi, girando la camera, come una spirale, cadendo, inquadrerei la vasca colma di acqua nera. Nessuna musica, nessun movimento. Si sente solo il rumore delle gocce che, cadendo dal rubinetto, increspano leggermente quel granitico, immobile, vuoto percepibile. E poi di colpo, eccomi. Affioro dall’acqua accompagnata da un respiro affannoso, lunghissimo. Ho gli occhi sgranati e i capelli bagnati, e il trucco sciolto mi scivola sulle guance, delineando il mio viso pallido. Continuo a respirare velocemente mentre stringo con forza il bordo della vasca, come se potessi disintegrarlo con una mano, come se, tramite quel gesto, potessi confermare la mia presenza. Wasserschlangen II di Klimt si apre imponente davanti ai miei occhi e io ci nuoto dentro. È ancora nello stesso punto in cui l’ho lasciato, sopra la vasca. Tutto, attorno a me, è rimasto intatto. Abbasso lo sguardo e, dopo un attimo di esitazione, mi do una spinta per alzarmi in piedi, spezzando quell’eccesso di nero in cui ero immersa. La mia pelle diafana, la stessa che avevo a lungo torturato, è diversa. Brillo, mentre raddrizzo la schiena bagnata, mentre alzo la testa, mentre mi mostro nuda, mentre appoggio il piede a terra. La stanza arancione inizia a tremare e con un’inquadratura semisoggettiva, dal retro della mia testa bagnata, osservo i muri crollare uno dopo l’altro.
Lo sfondo inizia a girarmi attorno, davanti, dietro, accanto. E poi ancora, e ancora. E ancora.
E poi non c’è più niente.
Sono nata di nuovo, ma questo l’ho già detto.
* * *
Iniziò così, oppure finì così. Successe comunque nel mio letto, all’alba della novità e al tramonto di tutto ciò che era successo prima. Il mio letto era diviso a metà e quelli furono gli ultimi attimi in cui riuscii a farli convivere entrambi. In realtà, galleggiavo nel limbo soleggiato tra una vita vissuta in parte e una nuova che mi stava aspettando. Sì, una vita che aveva avuto un’altra occasione per essere gestita diversamente, per essere vista con occhi diversi.
Ero rinata sconfiggendo l’anoressia e per farlo avevo dovuto uccidere una parte di me. Le avevo tagliato la gola con il gesto più difficile che io avessi mai compiuto. Ucciderla non significò solo uccidere tutto quello che si era portata dietro, ma significò anche scoperchiare quel buco che avevo tanto cercato di colmare affidandomi a lei. Avevo ucciso il sintomo e la potenza di questo gesto l’avrei capita solamente più tardi, quando mi sono accorta che, inconsciamente, avevo preso una decisione: Mors tua vita mea. Vivere costava caro ed ero ben consapevole che non sarebbe finita così, ma l’istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio e, senza pensarci troppo, con un colpo deciso, mi ero pugnalata nel punto più fragile dell’anima.
Rinascere fu per me un dono che mi ero guadagnata e sudata, un’occasione per riorganizzare la mia linea del tempo, per riesaminare con occhi totalmente differenti la strada che avevo percorso. Ricominciai a vivere con i sentimenti di una ragazzina e ripresi da dove si era fermato tutto. L’eccitazione iniziale fu indimenticabile. Il sole era diverso, la notte pure, il calore anche. Sentii l’energia, la forza, scorrermi lungo le braccia e irradiarsi verso le altre persone. Disegnavo legami invisibili ma indissolubili. Ero una portatrice sana di elettricità e ne ero consapevole. Chiunque volesse ricaricarsi poteva avvicinarsi a me, senza che io chiedessi qualcosa in cambio. Ricordo perfettamente la sensazione di felicità nel poter donare l’eccesso a chi ne aveva più bisogno. Stavo rivivendo per la prima volta tutto quello che avevo dovuto lasciare. Iniziai ad assaporare tutto quello che la vita mi poneva sul piatto, mangiando di gusto. Ero in piena adolescenza, di nuovo. Il mio corpo sano non rifletteva a pieno il mio stato emotivo, il seno nascondeva un cuore nuovamente giovane, i tatuaggi mi sembravano quelli di un’estranea. Avevo le sembianze di una donna matura, ma dentro non lo ero, non volevo più esserlo. Avevo navigato in acque torbide, per poi capire che, a fine odissea, avrei semplicemente raggiunto me stessa. Avrei teso la mano a quella bambina che aveva deciso di evolversi in ciò che non era, in ciò che non le corrispondeva. Avrei teso la mano a qualcosa che si era fermato, interrotto, che non aveva seguito il corso naturale. Mi resi conto di aver compiuto un tragitto lunghissimo, per poi ritrovarmi sulla stessa strada che avevo abbandonato molto tempo prima. Una strada che avevo definito sbagliata poiché diversa, come avrebbe detto mamma. Non mi fu difficile capire che, in fin dei conti, la fine e l’inizio non erano poi così diversi; che non erano altro che elementi agli estremi di uno stesso cerchio, che avrebbe continuato a disegnarsi all’infinito, a chiudersi sempre, come un serpente che ingoia la propria coda, come un uroboro.
Quando ho deciso di scrivere questo libro non ho scelto a caso di iniziare da questo capitolo. Volevo partire da un inizio che, in fin dei conti, non era nient’altro che un finale. Non ho esitato nemmeno un momento quando ho dovuto scegliere se chiamarlo “nascita” o “morte”. Avrei potuto scriverci la valanga di sensazioni meravigliose che avevo avuto la fortuna di provare, ma non avrebbe avuto lo stesso significato.
Sì, avrei potuto chiamarlo “nascita”, perché, in fin dei conti, di quello si trattava, regalandovi un’immagine pronta per smorzare quel lato cupo che ha sempre vissuto dentro di me. E allora vi avrei detto di chiudere gli occhi, di immaginarmi volare come una rondine, impegnata a scivolare sulle morbide note di Debussy, impegnata nella prestazione più libera della sua vita, nel momento più spensierato, un istante dopo la tempesta.
Fine. Il mostro se ne va e tutto torna come deve essere.
Sarebbe stata una bella storia, ma non sarebbe stata la mia. Leopardi considerava la felicità assoluta nient’altro che un’emozione momentanea. L’ha definita come qualcosa di passeggero, qualcosa che comprendi di avere solo nell’esatto momento in cui hai la fortuna di provarla, di assaggiarla, come un attimo lungo un istante, incastrato tra due affanni. Avrei voluto che queste sensazioni rimanessero a lungo, ma ero consapevole che sarebbero state solo transitorie. Chiamatelo pessimismo, realismo, come volete voi, ma credo che la vita sia proprio così. E nonostante la mia costante paura di vivere, la mia paura di non riuscire a adattarmi alle conseguenze di una delusione, il mio timore di soffrire, ho deciso comunque di sentire. Volavo sapendo che, prima o poi, sarei dovuta atterrare su un terreno differente, un terreno sconosciuto. Non mi aspettavo nulla e, così, nulla mi stava aspettando. È stato il momento più libero di tutta la mia vita. Uno dei rari momenti in cui ho percepito la grande libertà che risiede dentro l’incertezza.
L’immensa potenza della vita.
Quando sono atterrata dal mio lungo volo, mi sono resa conto che, lentamente, l’eccitazione era calata.
Sapevo che il mio viaggio si sarebbe concluso con la scoperta di un altro tipo di ordinarietà. Che avrei avuto una nuova prospettiva dalla quale osservarmi e osservare, tramite gli occhi di una persona solo apparentemente uguale ma internamente diversa. Il trauma di quello che era accaduto mi aveva cambiata profondamente e il tormento della morte di quella parte di me non mi ha abbandonato più.
Quando ho deciso di porre fine a quella vita non ero consapevole che mi sarei portata appresso una parte di lei. Eppure, qualcosa dentro di me era morto, e io mi sentivo cambiata. L’incapacità di mantenere quella gioia che ero riuscita finalmente a toccare continuava a deludermi, a farmi un po’ vergognare: «Cazzo, Valentina. Che cos’hai che non va? Che cazzo di problemi c’hai ancora?».
Eppure sentivo continuamente questa sensazione d’insoddisfazione. Costante, come prima, ma diversa. La verità è che uccidere ha un prezzo. E sono convinta che chiunque abbia vissuto un’esperienza del genere possa capire quello che intendo. Lo capii anch’io e sapevo che avrei dovuto riadattarmi a quella che ero diventata o a quella che, in un certo senso, ero tornata a essere. Mi ero giurata che non mi sarei spaventata, che non avrei remato nuovamente contro la mia vera natura, mi ero ripromessa di imparare a non giudicarmi più, a non torturarmi ancora.
Ho iniziato a convivere con una nuova me, che assomigliava tanto a quella che sognavo di diventare da ragazzina. Avevo rimesso la puntina su un disco che stava girando a vuoto, facendo uscire quelle note che avevo sempre tenuto nascoste per il desiderio di piacere più a me stessa, per identificarmi in quella versione semplificata che ho sempre desiderato essere. E, così, ho perso lentamente interesse per le cose materiali, per le persone superficiali. Ho perso interesse per le cose che, in realtà, non mi suscitavano niente. Persi interesse per le cose inutili. Mi sono resa conto di essermi svegliata dopo un sonno lungo un tempo indefinibile. Non è stato facile ammettere a me stessa di avere, in un certo senso, sprecato attimi di vita. Sprecato tempo nella direzione sbagliata, inseguendo quel concetto semplificato di felicità a cui avrei potuto aggrapparmi senza soffrire. Evitando, rimandando eternamente, la discesa negli angoli più bui del mio dolore.
Non sono stata poi così severa con me stessa. Dopotutto, quel concatenarsi di eventi mi aveva in qualche modo portata a comprendere una lunga serie di cose, aprendomi gli occhi e regalandomi qualcosa che non tutte le persone possono dire di riuscire a possedere: ho incominciato finalmente ad ascoltarmi. Ad ascoltare la mia parte più vera, la mia parte pulita, quella nascosta al di sotto di ogni “regola sociale”. È stato bello ma anche tanto strano.
Improvvisamente cambiai gusti. Ero tornata negli abiti che avrei sempre voluto indossare, tanto scuri quanto morbidi. Il nero è diventata la mia seconda pelle, uno scudo pronto a difendermi dalla vita. Per rimarcare la mia diversità, la mia indipendenza, la mia guerra. E credo, ancora oggi, di non essermi mai sentita così tanto me stessa. È stato come se avessi trovato la combinazione giusta dopo anni di indecisione. Mi sentivo in tutto e per tutto “nei miei panni”. Appartenevo a quello, e riuscivo finalmente a sentirlo. A esprimerlo.
Il buio bussò e io corsi ad aprire impaziente, lasciandomi fasciare dal mio colore preferito, lo stesso, l’unico, in grado di poter disegnare quella persona che avevo sempre tentato di rinchiudermi dentro. Quello che mi era successo, quello che avevo dovuto compiere per essere ancora in vita, quello che mi era stato fatto. Quello che sono. Se il nero non è altro che la morte, allora io appartengo a lui.
Si dice che quando si uccide qualcuno l’anima si sporchi di questa persona. Un tormento, un dettaglio, un’eredità. E in un certo senso così fu anche per me. Mi ero uccisa e ne portavo le prove sulle mie spalle larghe, nelle pieghe del velluto scuro, nei lunghi cappotti, nelle alte scarpe dalla punta di ferro. Era un segno, il mio segno, per ricordarmi che ero stata più forte io. La mia celebrazione della vita, della nascita della mia vera identità. L’inizio nella fine. Come una spilla da esibire orgogliosamente, che, in qualche modo, avrebbe avuto il potere nascosto di suggerire qualcosa di personale ai più attenti osservatori. Incoronando il più grande lutto emotivo che avessi mai provato. D’altro canto, nella mia breve vita, avevo aperto e richiuso una quantità indefinita di porte, tutte appartenenti allo stesso corridoio circolare del mio uroboro. A ogni porta chiusa, morivo sempre un po’. Ma quella volta… quella fu diversa. Riuscì a cambiarmi così a fondo da creare corridoi paralleli, spazi vuoti che non potevo vedere, ma che riuscivo a percepire. Grandezza, resilienza, forza.
Mi accorsi che mi piaceva stare nei miei pensieri, mi piaceva crearmi degli ambienti surreali di cui l’introspezione fosse la sola e unica grande regola di accesso. Ero così abituata ad analizzarmi che, lentamente, l’analisi è diventata parte integrante della mia vita. Fare amicizia non fu così facile: quando uscivo con persone nuove la maggior parte dei discorsi in cui si ricadeva non mi interessava e non riusciva ad attirare la mia empatia, la mia compassione. Sembrava quasi che il passaggio attraverso la morte mi avesse resa più esigente.
Iniziai a credere di essere diventata superba, distaccata. Eppure mi accorsi molto presto di aver frainteso, capii semplicemente di non essere più interessata a perdere il mio tempo, quello che avrei potuto investire comunicando realmente con quella persona, cercando di conoscerla per davvero, in un vero scambio emozionale. Ero drogata di verità, la stessa che mi permise di accorgermi della finzione che prima non ero mai riuscita a vedere. La stessa che mi permise di vedere la realtà sotto i raggi di un sole accecante. Un sole da cui avevo sempre provato a nascondermi. Non volevo sprecare neanche un minuto di più della mia vita per qualcosa che non mi avrebbe permesso di evolvermi come persona.
Adesso vi dirò una cosa che mi è difficile spiegare a parole, ma che spero possiate capire. Non so se le emozioni, come le sensazioni, possano misurarsi tramite “soglie”. Avete presente, no? La soglia del dolore, ad esempio, che varia e cambia da persona a persona, da età a età. Ecco. E se vi dicessi che mi si è alzata la soglia dell’emotività? Voi capireste quello che voglio intendere? Non ho mai capito se, in qualche modo, la soglia d’intensità delle emozioni sia direttamente proporzionale alle esperienze vissute. Eppure, mi resi conto che emozionarmi, infatuarmi, sorprendermi, impressionarmi, non fu più così facile e immediato. A volte iniziai a ricercare l’estremo. Nei film, nella musica, nell’arte. Ero in costante ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi a sentire di nuovo quello che, probabilmente, la vita aveva congelato, irrobustito, rubato. Avevo alzato la soglia del piacere, e sono sempre stata convinta che, in qualche modo, l’ampiezza e la grande profondità delle emozioni negative che avevo provato durante la malattia mi avessero, una volta guarita, fatto “rimbalzare” all’estremo opposto dello spettro emotivo. Rivivevo, continuamente, un sentimento diverso che, in realtà, avevo già provato.
Come dice una nota canzone: «Si muore sempre un po’ per poter vivere».
Ma questa altezza interiore, questa strada che mi si era aperta davanti, mi aveva in qualche modo portata a un livello elevato di conoscenza interiore, mi aveva portato alla formazione di un’intelligenza emotiva che non avevo mai avuto. Una consapevolezza così alta da farmi sentire sempre più diversa rispetto a come mi ero sentita per tutta la mia vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. UROBORO
  4. Introduzione
  5. La fine e l’inizio
  6. 1. In casa. MORTE
  7. 2. Alba sul vagone. SOLITUDINE
  8. 3. Sotto terra. IL PIACERE
  9. 4. Al fiume. GIUDIZIO
  10. 5. Nella selva oscura. BELLEZZA
  11. 6. Incendio nella stanza. INVASIONE
  12. 7. Nel tunnel. FIDUCIA
  13. 8. Cuore di Cane. IRA
  14. 9. Il Cigno Grigio. CONTROLLO
  15. 10. La notte sotto i portici. IL PASSATO
  16. 11. In classe. DOLORE
  17. 12. Eclissi. NERO
  18. 13. Gioco di carte. AMORE
  19. 14. Libertà. IL BUCO
  20. Copyright