La felicità è una scelta
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La felicità è una scelta

Un viaggio per trovare il coraggio di ascoltare la propria voce

  1. 304 pagine
  2. Italian
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La felicità è una scelta

Un viaggio per trovare il coraggio di ascoltare la propria voce

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Perché non ci sentiamo mai abbastanza? Perché, a volte, ci sembra di vivere la vita di qualcun altro? Quanto siamo disposti a rischiare davvero per inseguire i nostri sogni? Sara Melotti aveva tutto: un lavoro come fotografa di moda, viveva a New York, guadagnava benissimo. Eppure, un giorno, decide di mollare tutto perché capisce che il suo lavoro contribuisce ad alimentare standard di bellezza irreali. Così inizia a usare la sua macchina fotografica in maniera diversa, a viaggiare in solitaria in giro per il mondo in cerca del vero significato della parola bellezza. Viaggiando e scrivendo i suoi pensieri sul suo blog la sua vita prende una piega completamente inaspettata, una scelta anomala ma che per Sara è l'unica strada giusta: quella che permette di rimanere fedeli a se stessi, ai propri sogni e alla propria visione del mondo, senza il peso dei giudizi altrui.
La felicità è una scelta è un reportage avventuroso sui cambiamenti che avvengono nel corso della propria vita e allo stesso tempo un ritratto generazionale potente e autentico, un manifesto per sognatori e cinici, una riflessione sul senso della vita oggi e sulle questioni sottaciute nel nostro rapporto con i social. Una guida illuminante su come difendersi dalle trappole dell'effimero e trovare significato nella propria esistenza.

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Informazioni

AFTER

(Note dalla strada)

PARTS UNKNOWN

Marrakech, Marocco, October 2015

Allaaaaaaaah Akbaaaaaarrrr.
Il canto dei muezzin echeggia dagli altoparlanti dei minareti rimbalzando tra le mura della medina. Cantilenante, trapanante, mistica e inquietante, la chiamata alla preghiera ha un qualcosa di magico la prima volta che la senti; ti trafigge, ti emoziona, ti ricorda che hai varcato le soglie di un mondo molto, molto lontano dal tuo.
Che cazzo ci faccio qui?
Guardo Marrakech dal tetto del riad invasa dai dubbi e dall’ansia. Sono arrivata un paio d’ore fa, sola, con la mia macchina fotografica in borsa, con una missione in testa e nessun piano preciso in mano.
Quando ho detto ad amici, parenti e coinquilini della partenza imminente e della mia nuova impresa, la reazione era sempre la stessa: «Oddio, ma vai da sola? È un paese musulmano, è pericoloso per una ragazza – bianca, bionda, giovane – come te». Le parole “rapimento”, “stupro” e “terroristi” comparivano frequentemente; nessuno di loro era stato in Marocco, ma ciò non li fermava dal buttarmi addosso paure e pregiudizi.
Ho scelto di non ascoltarli e sono partita comunque.
Oltre a prenotare qualche notte in questo riad, ho deciso di affidare il resto del viaggio al caso, di farmi guidare dall’istinto – perché l’istinto va ben oltre i limiti della razionalità – e di buttarmi nell’ignoto – perché rimanendo nel conosciuto ci si preclude sia la scoperta sia la novità –, l’ignoto è possibilità, è crescita, è vita.
Certo forse non è stata la scelta più responsabile per il mio primo viaggio in solitaria un paese completamente diverso dal mio – e di cui fondamentalmente non so niente. Mi sembrava una strategia geniale quando questa avventura era ancora un concetto idealizzato nella mia fantasia, ma adesso che sono qui – sola, completamente sola – e il Marocco mi aspetta fuori dalla porta di questo riad, mi rendo conto che varcare quella soglia richiede molte più palle di quel che pensavo.
Osservo i vicoli vivaci della medina dall’alto, incerta sul da farsi. Una parte di me è estatica e non vede l’ora di ficcarcisi dentro, l’altra se la sta facendo sotto.
Dopo essermi fatta un discorsetto automotivazionale, con un gran “sticazzi”, prendo la macchina fotografica ed esco.
Appena metto piede fuori dal riad vengo risucchiata in un labirinto di muri rosso-terra e strade strette traboccanti di asini, motorini, carretti trainati a mano, donne velate e uomini con tuniche dai cappucci a punta. A seconda di dove cade l’occhio mi sento trasportata avanti o indietro nel tempo: botteghe e bancarelle costeggiano la folla, vendono souvenir, lanterne, vasi, tappeti, tessuti, pantofole appuntite, frutta secca, dolci, carne cruda e intestini penzolanti appesi a un chiodo. L’aria profuma di spezie e puzza di benzina, di animali, di pelle; i venditori urlano per attirare clienti. Cammino dentro una storia delle Mille e una notte, stordita, incantata, travolta dagli odori, dai rumori, dai colori, colori ovunque: un’esplosione totale dei sensi.
In cortocircuito mi fermo a guardare dei quaderni con la copertina di pelle.
«Sono tutti fatti a mano» mi fa notare il proprietario della bottega – un signore anziano con una barba lunga e bianca – in un inglese quasi perfetto.
«Sono bellissimi» gli sorrido.
Mi invita a bere il tè nel retrobottega. Sono troppo inesperta per sapere che questo tipo d’invito è un’usanza più che comune – qui e in molte altre parti del mondo – e una spia rossa si accende nel mio cervello: è il buonsenso che mi ricorda che sono una ragazza sola in un paese che non conosco e che avventurarsi in uno spazio chiuso e isolato con uno sconosciuto non è una scelta saggia. L’istinto la pensa diversamente però, dice di andare. Ignoro la spia rossa e seguo il signore barbuto nel retro, dove mi offre un tè con delle foglie di menta schiacciate dentro, dolcissimo ma buonissimo. Lo bevo con gusto mentre ho una delle conversazioni più mistiche e illuminanti della mia vita; parliamo di poesie sufi – di cui sapevo qualcosina grazie alle conversazioni con Samir –, cita Rumi, e mentre mi parla di luce e oscurità mi rendo conto di quanto una situazione del genere non si presenti spesso a NYC – è già tanto se i tuoi vicini di casa ti salutano, là.
Finita la chiacchierata compro un quaderno con la copertina dorata, il vecchietto mi regala un libro di poesie – è in arabo, non potrò mai leggerlo ma è un bel ricordo –, lo saluto sorpresa ringraziandolo per la bella conversazione e mi ributto nel calderone del suk di Marrakech con i miei nuovi averi in mano. È ora di dare il via a Quest for Beauty!
Tiro fuori la macchina fotografica, un po’ nervosa perché il Marocco è il primo vero capitolo del mio progetto-slash-nuova-missione-di-vita e per completarlo con successo devo portare a casa almeno cinque ritratti e un paio di interviste; se torno a casa a mani vuote questo viaggio sarà stato uno spreco di tempo e denaro.
Dopo anni dietro l’obiettivo so che la ricetta per una bella foto è composta da tre elementi: soggetto, composizione e luce. Sono abituata ai set della moda, dove sono io a impostare e controllare quegli elementi; qui invece non ho nessun controllo: a Marrakech la luce è arrogante, le strade affollate rendono difficile comporre un’immagine “pulita” e per i miei ritratti devo trovare delle donne che siano disposte a farsi fotografare. Una sfida completamente al di fuori della mia comfort zone… che Dio me la mandi buona!
Trovo un bel portone azzurro, all’ombra, perfetto da usare come sfondo. Aspetto pazientemente che passi una donna da fotografare – non sono abituata ad aspettare il momento giusto, di solito sono io a crearlo – dopo dieci minuti arriva una ragazza vestita di rosa dal velo alle ciabatte; la fermo con un po’ d’insicurezza, le chiedo se parla inglese, dice di no timidamente; provo a spiegarle a gesti, parole scandite lentamente e sorrisi, che sono una fotografa e le chiedo se posso farle una foto puntando prima alla macchina fotografica e poi a lei; capisce, scuote velocemente la mano coprendosi il volto, fa cenno di no con la testa e si dilegua.
Ottimo inizio!
Non demordo e fermo un’altra donna che passa, una signora a occhio e croce sulla sessantina. La scena si ripete, solo che stavolta oltre al no secco la signora mi urla qualcosa che fortunatamente non capisco ma che sono abbastanza sicura sia un insulto.
Decido di cambiare posto, magari avrò più fortuna altrove. Mentre vago scorgo una donna che indossa una lunga tunica turchese, è bellissima, voglio assolutamente fotografarla. La seguo in un vicolo stretto e cosparso di archi alla Aladin, cammino veloce per raggiungerla, quando sono a un metro da lei sento uno strattone fortissimo alla spalla, dove poggia la cinghia della macchina fotografica – che tengo sempre stretta con una mano per evitare che cada –, mi giro, ci sono due ragazzini in motorino accanto a me, uno ha la mano sulla mia cinghia e la sta tirando.
Ommioddio mi stanno scippando!
Di riflesso, con la mano libera – che impugna ancora il libro regalatomi dal vecchietto – mollo una librata in faccia al baby scippatore che – per mia fortuna – invece di reagire dice al socio alla guida di andare; accelerano e spariscono nel caos della medina; io rimango lì imbambolata e incredula, col cuore a mille e l’adrenalina che mi pompa in ogni vena.
In momenti come questo hai due opzioni: ti puoi far prendere dal panico, convincendoti che il mondo è un posto oscuro e pieno di pericoli, e tornare a casa; oppure puoi prendere atto della tua forza nel superare un ostacolo, convincendoti di avere un ruolo sul corso degli eventi – ricordandoti che le mele marce esistono ovunque – e continuare il tuo viaggio.
Ci penso un attimo. Mi tocco la spalla dolorante, controllo che la macchina fotografica sia tutta intera e tiro un sospiro di sollievo.
«Hei, stai bene?» chiede una voce alle mie spalle con un forte accento francese.
Mi giro, è una ragazza giovanissima, vestita all’occidentale – jeans rossi e maglietta a righe – e con un hijab – il velo – nero portato molto morbido, da cui escono i capelli.
«Sì, sì, mi sembra tutto ok.»
«Tienila in borsa quando non la usi,» indica la macchina fotografica «Marrakech è una città sicura ma un paio di ladruncoli che cercano di approfittarsi dei turisti li trovi anche qui.»
«Sì, hai ragione, grazie» le sorrido ancora un po’ scossa e mi accorgo che mi tremano le ginocchia.
«Forse è meglio se ti siedi un attimo.»
«Già!»
«C’è un posto carino alla fine della via, vicino alla piazza delle spezie; posso offrirti un caffè?»
«Forse meglio una camomilla» rido imbarazzata.
«Sì, decisamente!» Sorride e mi porge la mano: «Mi chiamo Leila».
«Sara, piacere.»
Quella stretta di mano mi restituisce la fede nell’umanità che per un secondo aveva vacillato.
Scelgo di continuare il mio viaggio.
Davanti a due bicchieri di tè alla menta Leila mi racconta un po’ di sé: è francese marocchina di seconda generazione, vive a Parigi dove studia scienze politiche e un paio di volte all’anno viene a trovare i nonni a Marrakech. Io le racconto del mio progetto e le confido che ho avuto difficoltà a fotografare le donne che ho fermato per strada.
«La gente in Marocco odia farsi fotografare, le donne soprattutto, sono riservate, è una questione culturale» e mi spiega che il Marocco è un paese ancora molto tradizionalista e patriarcale, soprattutto fuori dalle grandi città. Le donne possono scegliere di indossare o meno il velo, ma devono coprirsi le gambe e le spalle, considerate parti intime.
Per fortuna avevo fatto qualche ricerca sull’abbigliamento più appropriato e avevo messo in valigia solo jeans e magliette.
«A Parigi mi vesto come voglio e non indosso mai il velo, ma qui preferisco metterlo e coprirmi il più possibile, non solo per una questione di rispetto della mia cultura ma soprattutto per evitare che mi importunino, gli uomini marocchini a volte sono estenuanti.»
Parlando con Leila capisco quanto poco ne so di questo paese e delle sue tradizioni e quanto ho da imparare dal mondo; la bombardo di domande e imparo tantissime cose che da sola, da turista, non avrei mai potuto capire.
Finita la chiacchierata – preziosissima – la fotografo per Quest for Beauty e la intervisto.
«Cos’è la bellezza?»
«L’imperfezione.»
Poi ci scambiamo i contatti Facebook e ci salutiamo nel suk. Leila sarebbe tornata a Parigi il giorno dopo.
«Se ci fossimo incontrate prima avrei potuto darti una mano; con me a fianco sicuramente sarebbe stato più facile convincere qualche donna a farsi fotografare» mi dice prima di andarsene. «È stato un piacere incontrarti, Sara, buona fortuna con il progetto, sono fiera di farne parte, il mondo ha bisogno di ricordarsi che la bellezza ha mille sfumature diverse.»
E sparisce tra la folla.
Dopo una cena a base di tagine in uno dei baracchini nella piazza principale si è fatto buio, meglio tornare a casa. Per non perdermi nel labirinto del suk metto l’indirizzo del riad su Google maps. Cammino, sola, tutta sola, i vicoli ormai vuoti hanno un qualcosa di spettrale; il ricordo dell’“incidente” del pomeriggio mi attraversa lasciandomi un brivido di inquietudine che non riesco a scrollarmi di dosso: perché il buio amplifica le paure, le ombre diventano mostri.
Aumento il passo combattendo l’angoscia che mi sta prendendo il corpo – “rapimento”, “stupro”, “terroristi” – quando arrivo davanti al portone, sana e salva, mi accorgo di quanto sia facile lasciare che l’immaginazione abbia la meglio sulla realtà, e che le paure degli altri diventino le tue.
Dentro i muri confortanti del riad, salgo sul tetto per scrivere il diario della giornata e su quelle pagine mi faccio una promessa: che farò sempre vincere la curiosità sulla paura – quella cagna illusionista – e che non lascerò mai che mi fermi dallo scoprire il mondo.
Alzo gli occhi al cielo per sigillare la promessa con le stelle e loro luccicano, sempre e solo, nel buio.
Il giorno dopo mi alzo prima dell’alba per approfittare della luce morbida, ma la città dorme ancora, le strade sono vuote, nessuna donna in vista. Quando la medina si sveglia accumulo un rifiuto dietro l’altro e la sera torno a casa sconfitta e a mani vuote.
Il giorno dopo stessa storia, nessun ritratto, solo una manciata di scatti rubati. Uno è molto bello però. Mi ero appostata in un vicoletto tranquillo armata di pazienza, a un certo punto passa una mendicante e trova una mo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA FELICITÀ È UNA SCELTA
  4. BEFORE. (Viaggio nel passato)
  5. AFTER. (Note dalla strada)
  6. NOW. (Un viaggio nell’anima)
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright