Sale esaurite, entusiasmo sincero, un fenomeno che scuote l’ingessato mondo della musica classica: il caso Bosso approda in televisione (in attesa di dirigere all’Arena).
Parlare di Ezio Bosso in un mensile di musica classica ortodosso come il nostro potrà sembrare strano ad alcuni lettori, eppure è un fatto non solo ovvio, ma anche doveroso: non solo perché il musicista torinese ha una formazione classica, accademica (contrabbasso, direzione d’orchestra, pianoforte, composizione) inappuntabile e di tutto rispetto, ma anche perché gran parte della sua vita musicale si è incrociata con il mondo sinfonico, e le sue più recenti esibizioni lo hanno visto come direttore d’orchestra in programmi interamente e squisitamente «classici» (e uso le virgolette per enfatizzare il concetto). Sbaglia completamente quella parte della critica italiana che, con uno snobismo che rischia di condurre all’autodistruzione tutto l’ambiente, lega i clamorosi successi di Bosso a una sorta di fenomeno emozionale, dovuto alla grave malattia che lo ha colpito alcuni anni fa: proprio come accadeva con quel grande musicista che fu Jeffrey Tate, anch’egli fisicamente menomato, Bosso ha il diritto di essere valutato senza pregiudizi come direttore d’orchestra. Ottimo, buono, pessimo, ognuno ha il diritto di pensarla come vuole, sulla base di un’analisi seria: ma un direttore vero. Questa intervista si è svolta pochi giorni dopo il concerto con la STRADIVARIfestival Chamber Orchestra in Sala Verdi, al Conservatorio di Milano, sotto l’egida della Società dei Concerti: un programma interamente beethoveniano (Leonora n. 3, Triplo concerto con Enrico Dindo, Anna Tifu e Antonio Chen Guang e Quinta sinfonia) che ha visto non solo una sala del tutto sold out (a cui vanno aggiunte le centinaia di persone che il giorno prima hanno pagato per assistere alle prove), ma anche un entusiasmo, una concentrazione, una passione sincera da parte di un pubblico che era parzialmente quello storico della Società, e in parte nuovo. Linfa vitale che andrebbe coccolata e incoraggiata, e che invece molti soloni nostrani amano schernire o disprezzare.
Ho anche assistito, in parte, alle prove del concerto: e ho avuto la conferma di come Bosso sia un direttore vero e scrupoloso, attento a ogni aspetto del fare musica, dal timbro all’articolazione, dalle dinamiche alle intenzioni sonore. Il risultato è stato, in concerto, vario: a una Leonora n. 3 corretta ma poco più, è seguito un Triplo di gioiosa lucentezza sonora (grazie anche ai solisti, soprattutto la smagliante Anna Tifu al violino) e una Quinta davvero travolgente, curata nei dettagli e provvista di quel senso teleologico che è conditio sine qua non.
Ezio Bosso tornerà in tv a giugno, su Rai3, con un programma dal titolo Che Storia è la Musica, e l’11 agosto sarà sul podio dell’Orchestra dell’Arena per i Carmina Burana di Orff. Ma la conversazione parte inevitabilmente dalle impressioni del concerto milanese del 31 marzo.
Perché un programma tutto beethoveniano?
Come al solito, è frutto di una mediazione con chi ci ospitava e con l’orchestra, con l’intenzione di proporre partiture collegate tra loro, benché non lo sembrino: Leonora, Triplo e Quinta vengono pubblicate nel 1809. Nel 1805 ha finito il Triplo, inizia a lavorare alla Leonora e ha principio il processo creativo che darà origine alla Quinta: è un anno chiave nella biografia beethoveniana, prende coscienza della possibilità di non seguire il destino in senso plutarchiano. A volte la catalogazione dei brani – mi rendo conto – va contro il percorso umano, che per me è parte della ricerca storica e filologica che un musicista e un critico deve fare: questo, purtroppo, succede sempre meno, per favorire le mode che Beethoven stesso detestava. Tornando al programma milanese, se ci pensa, si tratta di tre sinfonie in declinazioni diverse: la Leonora n. 3, che passa da 530 a 639 battute, con mutamento formale, il Triplo, che è una sinfonia concertante (Beethoven la chiamava «la mia piccola sinfonia») che guarda all’indietro, al concerto grosso, e poi la Quinta, che è la conclusione, la riuscita di un processo di ricerca.
Un rapporto, il suo con Beethoven, che immagino risalga a molti anni fa.
Da quando ero bambino, si può dire: è stato il motore principale verso un lavoro in cui non ci si risparmia e non ci si accontenta mai. Studiando Beethoven, ho imparato a cercare tutti i materiali esistenti, a fare confronti, a non accontentarmi di una sola edizione – anche se è la più rinomata: non ci si deve fidare di un revisore solo, anche se si chiama Breitkopf o Bärenreiter [N.d.C. Storiche case editrici musicali]. Devo sapere anche se c’è qualche macchia sul manoscritto, che può fornire informazioni particolari. Oggi, per fortuna, gli archivi sono stati digitalizzati e il lavoro è più facile, ma io mi sono sempre comportato in questo modo, e per qualsiasi compositore suonato. Nella musica, nella partitura bisogna prima di tutto credere: è un percorso fatto di studio, approfondimento continuo, di dubbio. Una forma di sacralità laica.
Anche l’ascolto di incisioni storiche fa parte dell’approfondimento?
Certamente, un direttore deve ascoltare interpreti che ama e che non ama, versioni antiche e moderne: anche in questo campo la tecnologia odierna è un grande aiuto, benché talvolta poco utilizzata se non per fare stupidi paragoni. Una volta giravo il mondo per ascoltare i grandi interpreti e inoltre, avendo studiato a Vienna, avevo la fortuna di vederne molti dal vivo: non serve fare centinaia di chilometri a piedi, come fece Bach per Buxtehude! Ascoltare, oggi, Furtwängler e Mravinskij vuol dire immergersi in una tradizione interpretativa, capirne le ragioni.
Non c’è il rischio, anzi, di una indigestione di informazioni?
Non credo: perché all’abbondanza di stimoli non corrisponde un adeguato approfondimento. È come aprire una scatola e guardarne solo la carta.
L’avere studiato contrabbasso le è risultato poi utile per dirigere?
Non tanto, molto di più è stata decisiva la conoscenza della composizione; il contrabbasso mi ha dato il punto di vista complessivo sull’orchestra. Io, poi, ero un contrabbassista anomalo, che non accettava il limite del suo strumento.
In che senso?
A quindici anni i miei insegnanti mi dicevano che io volevo suonare tutto: facevo col contrabbasso le Sonate per violoncello di Beethoven, il Concerto di Dvořák. Per questo mi hanno spinto alla direzione e alla composizione. Però il contrabbasso mi ha insegnato l’umiltà – concetto oggi forse fuori moda – di stare dietro e imparare ascoltando gli altri: volevo stare davanti, sul podio, ma non potevo permettermelo. E, secondo il mondo musicale, sembra che neppure oggi possa permettermelo.
Perché succede questo? Perché c’è questa diffidenza verso la sua figura di musicista e direttore negli ambienti classici, nonostante un curriculum e un cursus honorum inappuntabile?
Il perché non lo so, ma tutto ciò è paradossale e certi ambienti fanno una figura sempre peggiore. Questo pensiero classista è lo stesso che risalta nelle parole di quella scrittrice [Elena Stancanelli, N.d.C.] che ha criticato l’italiano del ragazzino di Roma che si è opposto al pensiero fascista, sbugiardata poi dagli stessi insegnanti del ragazzo che le hanno spiegato che l’uso gergale era volontario. Un certo mondo classico si sta denigrando da solo, va contro le regole dell’etica: dire che non mi interesso della partitura è offensivo, lei mi ha visto lavorare, ha notato quanta ricerca filologica e musicale metto in campo. Le standing ovation le ottenevo anche prima di essere su una carrozzina: certi suoi colleghi dovrebbero valutarmi per quello che faccio, e non pensare solo alle mie ruote, sottolineandole ma fingendo di non farlo.
Inoltre, lei coinvolge un pubblico numeroso e appassionato, spesso più di quello consueto della musica classica.
Inizio ad arrabbiarmi quando leggo che quelli che mi seguono sono persone che non assistono mai a concerti classici durante l’anno e si presentano in sala solo per me (cosa che succede anche con grandi direttori, come Muti): il concerto di Milano aveva in sala tanti abbonati (600!) della Società dei Concerti. E poi, pensiamoci bene: il mio pubblico ha reagito bene alla Leonora, abbastanza bene, ma non con la stessa tensione, al Triplo e poi è esploso con la Quinta. Un percorso assolutamente normale, logico, con persone che godono della musica come è, senza presentarla in altri modi, al limite con un sorriso in più. E poi leggiamo articoli in cui si scusa un pubblico adeguato che dormicchia o che va via al primo applauso! Tutto ciò è insultante verso persone che, in questi anni, hanno ascoltato da Bach a Cage, da Buxtehude a Čajkovskij, e che stanno riempiendo anche le altre sale. Fingere analisi senza sapere nulla, senza avere seguito il mio percorso, farà morire definitivamente il mondo della musica classica. La mia unica intenzione è di fare musica al meglio, di abbandonare quella routine diffusa in cui tutti rimangono piatti, musicisti e ascoltatori: chi mi ha insegnato la musica mi ha fatto capire che se non ci prendiamo dei rischi, è meglio cambiare mestiere. Indosso sempre un bracciale in cui è scritta una frase di Beethoven: «Una nota sbagliata è insignificante, suonare senza passione è imperdonabile». Poi, io sono il primo critico di me stesso: la musica è fatta di scelte, che si possono non condividere.
Le esperienze finite male con le orchestre di Bologna e Trieste da cosa sono derivate, secondo lei?
Sempre da una forma di prevenzione nei miei confronti, che però non veniva dai musicisti stessi. Vorrei, intanto, puntualizzare che la lettera contro di me, a Bologna, non esiste, perché era solo una lettera in cui si chiedevano spiegazioni su un luogo di riunione, manipolata poi da tre persone; a Trieste, poi, ben novanta musicisti hanno chiesto che io restassi. Poi, è vero: io non sono adatto a fare musica in un modo abitudinario, ho bisogno di tempo per fare maturare tutti. Ed è uno stile di lavoro che i musicisti amano, ma i teatri forse meno: con tutte le orchestre con cui ho lavorato, ho avuto esperienze estremamente positive.
Cosa si aspetta, allora, dal prossimo debutto all’Arena per i Carmina Burana, in agosto?
Sono felice che la signora Gasdia e la direzione artistica abbiano pensato a me per l’unico concerto sinfonico della stagione: si tratta di una partitura particolare, a suo modo estremamente didattica, e che ho amato sin da bambino, che permette di immaginare il suono di un canto, di una musica antica (solo in una fase successiva sono state compiute ricerche filologiche).
Orff fu uno dei grandi divulgatori della musica, e salire con questa musica su quel podio è per me commovente (preferisco parlare di commozione, non di emozione): anche se non amo fare classifiche di importanza fra i vari teatri, l’Arena va oltre. E devo dire che io sono particolarmente legato alla città di Verona anche per questioni personali, legate alle vicende di mia madre.
Se non ci fosse Verona, non ci sarei io, e questo direi che non è poco.
Un pubblico molto grande la attende in televisione, con il programma su Rai3: cosa si propone con Che Storia è la Musica?
Fare capire a tutti che la musica cosiddetta classica non deve spaventare, e anzi è una di quelle cose a cui aggrapparsi per stare meglio; che la musica è una cosa seria, ma non seriosa; che è patrimonio dell’umanità e non patrimonio di qualcuno. Un patrimonio che non è semplicemente storico, ma eterno: e che non basta mai, almeno dal mio punto di vista. Sarà una trasmissione anomala, una prima serata in cui racconto, con la meta-narrazione, cosa c’è intorno a noi, attraverso confronti, parole ed esempi musicali (due Sinfonie di Beethoven). Giocheremo molto, e l’unica cosa presa sul serio sarà proprio l’esecuzione musicale.
Lei è testimone dell’Associazione Mozart14, che porta avanti la memoria e i progetti di Claudio Abbado: in cosa, secondo lei, la sua lezione è più efficace oggi?
Tanti aspetti, ma anzitutto l’idea che la musica sia di tutti: pensiamo, per esempio, a quando portò l’orchestra della Scala nel refettorio della Necchi. E poi che la musica sia una terapia, capace davvero di insegnarci ad ascoltare il prossimo: è un esercizio davvero difficile. L’ascolto presuppone, certamente, il proprio bagaglio di paragoni, ma non di pregiudizi. Io davvero credo, in senso beethoveniano, che la musica si faccia assieme, è un Zusammenmusizieren: un momento in cui c’è chi mette le mani (i musicisti) e chi mette l’ascolto (il pubblico): responsabilità diverse, che creano però la tensione finale. Nella mia visione, la musica esiste a prescindere: nel momento in cui si è finito di scriverla e sta chiusa nella partitura, nel momento in cui viene aperta per essere letta, quando viene studiata singolarmente o in collettività, si completa poi attraverso l’ascolto dell’altro e quindi ricomincia il ciclo.
Beethoven è stato un po’ il fil rouge di questa conversazione; spesso si nota come, al venire meno in lui delle possibilità fisiche, sia corrisposto un potenziamento delle facoltà creatrici. Vale lo stesso per lei?
Non posso affermare una cosa simile, anche perché neppure Beethoven afferma mai questo: anzi, ne parla sempre con tristezza, e c’è solo una frase in merito: «Solo un grande dolore può portare a una grande creatività». Beethoven non ha avuto una vita facile, e neppure la mia lo è: ugualmente, sia lui che io non abbiamo mai fatto parte di un contesto ufficiale, di un sistema riconosciuto. Quello che fa superare i limiti fisici è la disciplina, la dedizione, non il contrario: sarei presuntuoso a dire che stando male si è musicisti migliori.