Le 10 cose che ho imparato dalla vita
eBook - ePub

Le 10 cose che ho imparato dalla vita

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Le 10 cose che ho imparato dalla vita

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

I racconti del padre, che dopo l'8 settembre fu deportato dai nazisti nel campo di concentramento di Luckenwalde. L'infanzia a Lucca e una famiglia che lo ha educato a essere felice con poco e a rispettare la dignità di ogni singola persona, dai più umili ai più altolocati. Gli anni trascorsi in seminario, l'incontro frenetico con i pensatori cristiani e il fascino del divino. Lo studio - mai interrotto - della filosofia e dell'economia, uno studio che permea ogni cosa. Il volontariato, l'assistenza ai ragazzi invalidi, e i tanti lavori: porta spese, cameriere, organizzatore culturale; poi l'incontro con Fedele Confalonieri di cui diviene assistente, l'incarico di scrivere il primo programma politico di Forza Italia, gli anni da assessore alla Sicurezza a Milano.
Oggi che è un conduttore tv tra i più amati in Italia - oltre che docente universitario di Etica ed economia -, Paolo Del Debbio si racconta per la prima volta in quella che non è un'autobiografia, ma una riflessione a cuore aperto sul mondo, sugli altri e infine su se stesso. In queste pagine Del Debbio si rivela un pensatore poliedrico e insieme un uomo semplice, attraversato - come tutti - da passioni, contraddizioni e difficoltà, ma fedele a valori saldissimi.
La sua storia personale è la storia di un lungo viaggio senza sosta, senza vie di fuga, senza scorciatoie, in cui l'amore per Dio convive con l'amore per le donne e la passione per le idee cattoliche e liberali si incontra con la passione per la gente comune. Un percorso in cui l'importante non è superare traguardi, ma imparare qualcosa ogni volta: fino a diventare se stesso.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Le 10 cose che ho imparato dalla vita di Paolo Del Debbio in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Biografie nell'ambito delle scienze sociali. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

1

Essere felici con poco. La mia famiglia

Sono nato a Lucca, in una giornata nebbiosa, il 2 febbraio del 1958; mia madre non ha mai perso occasione per ricordarmi che probabilmente un po’ di quella nebbia m’era entrata nel cervello e lì era rimasta. Sono nato in una famiglia allegra, numerosa – eravamo in sette: la mia mamma Lilia, il mio babbo Velio, la nonna materna Maria, una zia di mia mamma, Pia, mio fratello Roberto – il primogenito –, io, mia sorella Roberta. In effetti con i nomi i miei genitori non ebbero molta fantasia ma, col passare degli anni, mi è piaciuto tanto avere due fratelli con lo stesso nome perché, in un certo senso, era come se fossero una sola cosa, nella mia mente e nel mio cuore. Siamo nati a distanza di sei anni io e mio fratello, cinque anni io e mia sorella, evidentemente i miei genitori compivano l’atto a scadenza piuttosto regolare. Sono nato in una famiglia che aveva poco ma che era riconoscente e felice del poco che aveva. È stato, questo fatto, la fortuna della mia vita.
Vivevamo in una casetta piccina piccina, con delle stanze minuscole disposta su tre piani, una per i miei genitori, una per Roberta, una per Pia – la più piccola – una per nonna Maria e una per me e Roberto. L’ho rivista di recente, ora ci abita una famiglia di splendide persone che vengono dalla Romania e che con anni di duro lavoro hanno messo da parte i soldi per acquistarla. Tutte le volte che la rivedo penso a quanto la felicità non sia legata a quanto si ha, ma a come si vive, al clima nel quale i genitori ti fanno crescere. E lo penso come una fortuna immensa soprattutto pensando a quei bambini e a quelle bambine che nascono in una famiglia che, magari per appartenenza a qualche organizzazione malavitosa, vengono educati in quel clima, con quei “valori”, con quella visione violenta e ingiusta del mondo e degli altri. Tra l’altro, spesso questi bambini abbandonano presto la scuola e l’unica scuola rimane la loro famiglia. Dov’è in loro la colpa di ciò che diventeranno, e allo stesso modo dov’è il merito mio in quello che sono diventato? Nelle loro e nelle mie origini, nell’aria che abbiamo respirato, nell’amore che abbiamo o che non abbiamo avuto, nella morale – magari anche elementare, spicciola – che ci hanno trasmesso i nostri genitori, che abbiamo condiviso con i nostri fratelli. Nessuno di noi parte da zero, come se fosse una tabula rasa, tutti noi, viceversa, siamo l’intreccio che siamo, che ci costituisce. Possiamo decidere di affrancarcene, di modificarlo, di arricchirlo, di farne patrimonio, di considerarlo la più felice sorte o la peggiore – quando riusciamo a rendercene conto e non la consideriamo, invece, “normale”. Ma da lì partiamo, nessuno nella vita parte da un cominciamento assoluto. Né la propria storia è qualcosa di cui è possibile non tenere conto.
Quando scrivo che siamo stati abituati alla felicità con poco vuol dire anche che, nella mia famiglia, né mia mamma, né tantomeno mio babbo, hanno mai avuto una parola sola di invidia verso chi aveva di più, verso chi conduceva una vita più agiata. È pur vero che nella frazione di Lucca dove abitavamo, Sant’Anna, non c’erano molte di queste persone. Erano tutte famiglie che vivevano con poco, chi più e chi meno, ma questo non conta perché l’invidia e il risentimento per chi ha di più possono esserci ovunque. Era proprio un modo di pensare e di comportarsi. Mai una parola di invidia, dunque, mai una maldicenza che scaturisse da qualche diceria paesana e quando, da ragazzi, io e mio fratello – magari scherzando – ne riportavamo qualcuna a tavola venivamo subito zittiti da uno dei due genitori e, a turno, risuonava l’imperativo: «Occupatevi di voialtri che n’avete già abbastanza, prima di parla’ degli altri. Avete ‘nteso? (capito)». La risposta non era richiesta; era così e basta. Adeguarsi e camminare.
Quelle che componevano la mia famiglia erano tutte persone passate attraverso la guerra – mio padre, come vedremo più avanti, era stato anche deportato in Germania dai nazisti – e avevano provato la paura, il freddo, la fame, l’angoscia delle sirene che preannunciavano possibili bombardamenti. Mia nonna che era stata sigaraia – e aveva fatto anche una piccola carriera dentro la manifattura tabacchi di Lucca, quella che tutt’oggi produce il sigaro toscano –, aveva aiutato anche i partigiani portando i fucili in una carriola – a Lucca detta “pruetta” – coperti dalla paglia da una parte all’altra della città rischiando seriamente la vita più di una volta. Sfruttava la sua condizione di donna per dare meno nell’occhio e non insospettire i fascisti prima e i nazisti poi.
Insomma, era gente che aveva imparato a duro prezzo a guardare all’essenziale, ma quello che avevano passato, babbo in testa, non li aveva indeboliti, ma rafforzati, e non vivevano con sentimenti di rabbia verso la vita, ma con un senso di riconoscenza per averla scampata. Questo sentimento si avvertiva perché erano allegri, non passava giorno senza una battuta, uno scherzo, una presa in giro che alleviasse, magari, qualche momento meno felice. Quello che scrivo oggi, beninteso, è frutto delle mie riflessioni e dei pensieri che ho cominciato a fare da grandicello. Allora io e i miei fratelli vivevamo in quella specie di aura come i pesci vivono nell’acqua, con naturalezza, come se non ci fosse un altro modo possibile di vivere. Proprio queste radici, non mi stancherò di ripeterlo, hanno rappresentato per me una grande fortuna.
La zia di mia madre, Pia, era stata una filandaia, come diceva lei. Lucca, sin dal Medioevo, era stata una delle capitali europee della seta, sia per la produzione che per la trasformazione e il commercio. A Lucca c’era questa filanda, collocata dentro le mura della città, e dai pochi racconti che ci faceva, per la verità cavati dalla sua bocca con grande sforzo, capivamo che doveva essere stata dura, molto dura. Aveva cominciato a lavorare all’età di dodici anni, era una bambina, e lo aveva fatto per gran parte della sua vita. Tra le dieci e le dodici ore ogni giorno, spesso sabati e domeniche comprese, i locali densi dei fumi che venivano dalle grandi vasche di acqua bollente, nelle quali le sue mani stavano ore per immergervi i bozzoli e con l’aiuto di una piccola spazzola doveva trovare il filo iniziale del bozzolo che poi veniva passato ad altre operaie che inserivano tutti i fili nelle filiere e poi via via fino ad arrivare ai fili veri e propri; il tutto per venti centesimi al giorno, che arrivarono a quaranta molti anni più tardi, intorno alla quarantina. L’ambiente era afoso e la temperatura raggiungeva i quaranta gradi. Era un ambiente nauseabondo e le finestre dovevano rimanere chiuse per evitare che i fili si spostassero dal loro posto e che si mantenesse un’umidità costante atta a filare la seta. Pia era nata l’8 giugno del 1890, quindi nel 1902 iniziò a lavorare. Al governo c’era Giuseppe Zanardelli della sinistra storica. Era una donna piuttosto taciturna e riservata. L’ho vista piangere e commuoversi una sola volta. Era il giorno in cui la mia sorellina Roberta compiva i dodici anni ed era stata preparata una torta con le candeline. Le spense soffiando con tutto il fiato che aveva nei polmoni tanto che sollevò una nuvola dello zucchero vanigliato che la ricopriva. Vidi Pia con le lacrime agli occhi, cosa che mi colpì tanto e le chiesi: «Oh Pia che succede?». Non mi rispose ma si rivolse a Roberta e le disse, sottovoce com’era abituata a parlare: «Alla tua età cominciai a lavora’ alla filanda».
Quanta dignitosa sofferenza in quelle lacrime, nel ricordo di un’infanzia negata da una forma, sia pure moderna, di vera e propria schiavitù. Pia fu un angelo custode per tutti e tre, per tutta l’infanzia, come un angelo per la sua dolcezza, per le sue premure, per la sua delicatezza, per il suo rispetto per tutti. Sempre solerte, sempre operosa, sempre presente eppure quasi invisibile, proprio come gli angeli custodi. Con quella sua massa di capelli bianchi raccolti “a cipolla” che le poche volte che scioglieva le arrivavano fino in fondo alla schiena. Non era mai stata dal parrucchiere, li lavava ogni tanto perché profumavano sempre, non si sporcavano mai. A ripensarci ora mi viene in mente che, forse, avrà rivissuto una specie di infanzia felice, quella che lei non aveva avuto, regalandola a noi. Forse nella nostra felicità e spensieratezza riviveva allora ciò che agli inizi del Novecento lei non aveva potuto gustare e vivere pur avendone diritto come ogni essere umano che vede la luce in questo mondo. Era rimasta nubile tutta la vita, ma non aveva nessun tratto zitellesco. Certo non esibiva alcuna vanità ma esprimeva la sua femminilità nella semplicità con la quale si prendeva cura degli altri, a partire da noi fratelli.
Dobbiamo molto a Pia, la nostra indimenticabile Pietta. L’ho capito tardi, quando ormai se ne era andata in Paradiso da tempo. Se i nostri beni di famiglia sono consistiti essenzialmente nel bene che ci è stato donato, Pia era il centro di questo bene ricevuto. Un bene che lascia traccia in chi lo riceve, va a posarsi in un luogo segreto dell’anima, e non evapora, non marcisce, non si consuma come le cose fanno nel tempo, perché non è una cosa tra le altre cose, è una parte dell’intreccio che costituisce la nostra persona, la sua umanità, quello che i latini chiamavano l’humanum. C’è in ogni uomo, non va inventata, va scoperta e c’è anche chi la scopre da solo; altri come noi tre fratelli siamo incorsi nella felice sorte di avere qualcuno che ci ha aiutato a scoprirlo e a trarlo fuori di noi riconoscendolo in loro, e anche in Pia. Educare viene dal latino e-ducere, portare fuori, trarre fuori. Pia, se ricordo bene, aveva fatto la seconda elementare, sapeva scrivere la sua firma con la grafia di una bambina, eppure cercando probabilmente in noi quella tenerezza che a lei era mancata, in quella filanda dove aveva subito ogni tipo di sopruso, compresi anche richiami rozzi e violenti e qualche ceffone quando, piccola com’era, non faceva qualcosa come avrebbe dovuto o nei tempi richiesti, in realtà aveva finito per donarcela. Ci ha donato quello che non aveva avuto dagli altri ma che in lei c’era e non si era mai spento: il desiderio di essere custodita, avvolta nell’amore, circondata dall’affetto che ogni bambino ha il sacrosanto diritto di ricevere.
Anche in questo caso non so se sono riuscito, nella mia vita, a ridare indietro alla vita ciò che ho ricevuto, ci ho provato e continuerò a provarci.
La mia mamma, Lilia Da Torre, che si era sposata giovanissima, dopo aver aspettato il mio babbo nei due lunghi anni di prigionia a Luckenwalde, aveva conosciuto un solo uomo, prima e dopo la sua morte. Diceva sempre: «Al mondo un altro uomo come Velio ‘un c’è». L’amore di una vita. Si vedeva, era evidente, palpabile. Aveva fatto la quinta elementare e dopo la fine della scuola mia nonna Maria l’aveva iscritta a una scuola per sarte diretta dalla inflessibile – lo so dai suoi racconti – signora Giuseppina Sargentini. Le lezioni avvenivano in una grande stanza, in un appartamento nel centro della città, che era disposta in modo tradizionale: la cattedra della Sargentini, proprietaria, direttrice e istruttrice della scuola, e le alunne, tutte rigorosamente in divisa disposte su dei banchi, poco più grandi di quelli della scuola, fornite di stoffa, aghi, ditali salva dita per il cucito a mano, forbici grandi per tagliare la stoffa e forme di carta velina per tagliarla in modo preciso e accurato. Poche lezioni teoriche e tanta pratica. La Sargentini passava di frequente tra i banchi e quella era la vera scuola: verificare cosa stessero facendo, molti richiami, qualche (raro) complimento per il lavoro ben eseguito. A metà delle lezioni qualche biscotto e un po’ di tè per tutte.
Le sorelle Sargentini erano tre e gestivano un atelier a Viareggio rivolto alla clientela “bene” della società viareggina. Mamma Lilia frequentò la scuola per due anni ma poi la guerra, la necessità di aiutare in casa, la crisi economica che seguì al conflitto mondiale e l’arrivo del primo figlio, nel 1952, la assorbirono completamente e, con rammarico ma spinta dalla necessità, rinunciò a quel lavoro per dedicarsi interamente, finché poté, alla sua famiglia. Ma, nonostante ciò, in casa, a un certo punto arrivò una macchina da cucire della Singer e me la ricordo felice mentre rammendava, cuciva, aggiustava.
C’era l’abitudine, per questioni di risparmio, di comprarci i vestiti, come si diceva allora, “a crescenza”, nel senso che venivano acquistati di una taglia un po’ più grande in modo che, crescendo, si sarebbero potuti indossare per più anni, finché non sarebbero diventati troppo piccoli. Ma anche in questo caso la storia non finiva perché, una volta diventati stretti, si procedeva con gli allunghi, soprattutto alle maniche. Per fortuna mia mamma aveva un gran gusto, nonostante le sue umili origini, e quelle specie di manicotti che cuciva sulle maniche li sceglieva di una stoffa adeguata, tanto da farli sembrare degli abbellimenti, anziché degli allungamenti, resi necessari dalla crescita, soprattutto di me e mio fratello che crescevamo tanto e in fretta.
Ricordo un fatto che mi capitò e che riguarda le virtù sartoriali della mia mamma. Mi aveva comprato – per l’appunto “a crescenza” – un bel cappotto del quale andavo fiero, color cammello, un po’ più scuro “altrimenti l’avrei sporcato subito” e sullo scuro le macchie si vedono meno. Ne andavo fiero. Me lo mettevo per le “feste comandate” come si usava dire per riferirsi, secondo il precetto della Chiesa cattolica, ai giorni nei quali si doveva “partecipare alla messa”. Allora, soprattutto nei paesi avveniva il contrario di quello che succede oggi: ci si vestiva bene la domenica col “vestito bono” e normalmente negli altri giorni, spesso con gli abiti da lavoro. Oggi si fa il contrario e nel fine settimana ci si veste in modo informale o casual; e chissà quanto avrebbero riso i miei genitori e gli altri membri della famiglia sentendo questa espressione. Ma torniamo al famoso cappotto e alla peripezia che mi trovai ad affrontare. Un giorno, andando a trovare il mio amico Michele Bianchi, non so perché ma da idiota puro, invece di entrare dal cancello, forse per fargli uno scherzo e mettergli paura, decisi di scavalcare la cancellata che in cima aveva delle punte piuttosto aguzze, col cappotto addosso che raggiungeva la fine del polpaccio (in questo caso la mia mamma aveva, in effetti, un po’ esagerato). Sembrava che tutto procedesse per il meglio quando, ormai quasi dall’altra parte, la parte posteriore del cappotto, poco sotto le chiappe, mi si incastrò in una di queste punte, scivolai in avanti e nel cappotto – acquistato certamente con sacrificio – si aprì un bello sbrego fino in fondo. Lo scherzo non funzionò perché il mio amico assistette alla scena nascosto dietro alla finestra posta al primo piano e rise a crepapelle vedendo come questo scemo avesse irrimediabilmente conciato il cappotto praticamente nuovo di zecca. Era domenica e prima o poi ci sarebbe stato da tornare a casa. Dopo un breve consulto con Michele, che continuava a ridere di fronte alla tragedia consumata, decisi che non avrei potuto far altro che tornarmene a casa e affrontare il prima possibile quello che mi avrebbe aspettato. Era quasi l’ora di cena e a casa c’erano tutti. Alla fine fu meno traumatico di quanto pensassi. «Ma cos’hai combinato?», raccontai la verità e qui intervenne uno dei detti lucchesi di mamma Lilia: «Se i bischeri volassero a te bisognerebbe datti [darti] da mangia’ [mangiare] colla fionda». Questo mi veniva ripetuto spesso, molto spesso. Era uno dei tanti detti coi quali mamma esprimeva la sua spicciola e sapiente filosofia di vita.
Ritorniamo al cappotto. La cosa fu risolta in un attimo e con tanta praticità. Prese le misure dello sbrego, fece due conti e sentenziò: «Per qualche anno il cappotto te lo scordi, con quel che rimane ti ci faccio un giubbottino, tanto ti para [ripara] dal freddo uguale». Punto e a capo. Di lì a pochi giorni avevo pronto il mio bel giubbottino e naturalmente in un batter d’occhio ciò che mi era accaduto fu risaputo in tutto il borgo e oggetto di notevoli prese per i fondelli, per almeno due anni. Pagai così l’errore commesso. Dai, tutto sommato, mi andò bene.
Quando uno è bimbo o anche ragazzo mangia prima con gli occhi che con la bocca e spesso accade che riempia il piatto senza poi finire quello che ha preso. In casa mia questo non era possibile. Se non lo finivi a pranzo te lo mangiavi a cena e se non lo finivi a cena te lo mangiavi a pranzo il giorno dopo. Non c’era via di fuga né alcuna forma di pietà da parte della mia mamma. «La roba da mangià ‘un [non] si butta via. Chi ha patito la fame per la guera [con un “r” sola] queste ‘ose [cose] vi [qui] un le pole [può] vedé.» E il discorso era chiuso, il piagnisteo non era contemplato, il rifiuto bandito. Era così e basta. E se qualcosa di cucinato avanzava perché se ne era mangiato di meno, te lo ritrovavi presto di nuovo nel piatto magari ripassato in padella con un po’ di pomodoro o in qualsiasi altro modo. Non era concepibile buttare via niente e il pane era praticamente considerato sacro. Se era troppo duro c’erano tanti modi per utilizzarlo, bastava bagnarlo e inumidirlo un po’ e farci, solo ad esempio, la panzanella, un classico piatto toscano di origine contadina com’era la mia famiglia, da parte del mio babbo. La panzanella è fatta con il pane secco debitamente ammollato, non possono mancare sale, olio bono, pomodori e cipolle. Il resto a seconda dei gusti. Da noi non ci si poteva mettere il cetriolo perché mio fratello ha da sempre sostenuto che gli faceva venire un cerchio alla testa. Senza farsi tante domande fu eliminato dalla tavola perché cercare una spiegazione ci avrebbe probabilmente portato troppo lontano. Naturalmente ogni tanto me ne procuravo uno e glielo piazzavo nel piatto. Lì per lì non succedeva niente ma poi, a letto, eran guancialate finché non arrivava l’urlo di babbo e lì il tormento finiva.
Insomma in casa nostra – come si dice oggi – di umido se ne produceva poco. Ho visto raramente, anzi, forse mai buttare via qualcosa da mangiare. Del resto con un babbo che era stato deportato per due anni in un campo di prigionia nazista e una famiglia che aveva patito la fame durante la guerra, era difficile pensare il contrario. Dopo i primi sbagli imparammo anche noi a rispettarlo e a capirne l’importanza.
La mia mamma cucinava secondo le stagioni delle diverse verdure perché, così facendo, risparmiava. Ad esempio a un certo punto arrivava il periodo dei carciofi, da febbraio/marzo fino a giugno. E lì erano dolori. Lessi, ripassati, con lo spezzatino, crudi, fritti. E chi più ne ha più ne metta. E di fronte a qualche «Ancora carciofi, ci risiamo?» pronunciato regolarmente da me che ero un po’ più sfacciatello di mio fratello, la risposta non si faceva attendere: «Se ‘un li voi [vuoi] poi [puoi] sta’ anche senza mangia’ tanto di fame ‘un mori». Altre volte invece la risposta era: «Se voi ti posso da’ un po’ di nulla senza pane, che ti fa bene all’occhi». Capite bene che di fronte a questo tipo di risposte uno sta zitto e mangia i carciofi. E magari gli cominciano anche a piacere. Via senza uscita.
A un certo punto, era il 1968, avevo dieci anni, arrivarono a Lucca dei parenti americani, che erano figli o nipoti a loro volta di un parente della mia nonna materna. Uno era andato in America agli inizi del Novecento e dopo aver fatto tanti lavori mise su una barberia e fece una piccola fortuna. Si chiamava Joseph Soresi. Arrivarono in sei, alloggiavano in un albergo di Lucca e per il mese che rimasero fu una festa continua.
Ora considerate che eravamo nel 1968, nel pieno della contestazione studentesca e gli americani erano più o meno il simbolo di un capitalismo e di un imperialismo da rigettare e contro il quale portare avanti gli ideali rivoluzionari anche in Italia, che da sempre era un loro alleato fedele. Per me erano tutt’altro: erano quelli che ogni Natale mi facevano arrivare dieci dollari in una busta listata a lato di striscioline blu e rosse, che mio padre mi portava a cambiare in banca, al Credito Italiano: così mi ritrovavo in tasca quella che per me rappresentava una piccola fortuna. Insomma, erano gli zii ricchi e buoni d’America.
Quella volta nel ’68 portarono a tutti dei regali. Ricordo che a me toccò un modellino piuttosto grande di una Mustang azzurra, ma la scoperta più sensazionale fu che, in realtà, dentro c’era una radio che aveva un’antenna, la stessa dell’auto in miniatura, e che premendo una piccola levetta il tetto si sollevava e si trovavano le piccole manopole per regolare il volume e per cercare le varie stazioni radio. Non saprei descrivere i sentimenti che mi attraversarono. Avevo qualcosa di mio, totalmente mio, che se non ci fossero stati loro non avrei mai avuto. Lo tenevo come in chiesa si tengono le reliquie dei santi (almeno una volta). Guai a chi la toccava.
Sin da piccolo provavo fastidio – magari succedeva a scuola – per coloro che mettevano in bella mostra la ricchezza della loro famiglia, e non tanto per me che, come vi ho raccontato, ero abituato a non considerarlo così importante, felice di quello che avevo, ma poiché vedevo le facce di molti miei compagni di scuola che si intristivano di fronte a quelle inutili e vanitose ostentazioni. Ne rimanevano feriti e tristi perché pensavano alla loro condizione e alla impossibilità, per esempio, di avere qualche giocattolo in più o di non potersi permettere una bella bicicletta o le vacanze al mare. Questo fatto mi procurava un indescrivibile fastidio tanto che una volta feci anche a botte con uno che aveva offeso un compagno di scuola che si era messo a piangere pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LE 10 COSE CHE HO IMPARATO DALLA VITA
  4. Gli occhi di Soldino. La vita non è un recipiente, è un intreccio
  5. 1. Essere felici con poco. La mia famiglia
  6. 2. La dolcezza e la dignità di un deportato piagato ma non piegato. Babbo Velio
  7. 3. La prima scuola di vita. Il bar Cavallino bianco
  8. 4. Il fascino di Dio. Gli anni del seminario
  9. 5. In ogni uomo c’è una miniera. Gli anni con i ragazzi invalidi
  10. 6. Insegnando si impara. I miei anni di insegnamento alla università Iulm
  11. 7. Ogni lavoro ha la sua dignità. Porta spese, cameriere, assistente di un amministratore delegato, collaboratore alla fondazione di un partito, assessore comunale
  12. 8. Essere e rimanere sempre con i piedi ben piantati in terra. Gli anni della televisione
  13. 9. L’assurdo che c’è nella vita va conosciuto, non rimosso. Gli incontri con Beckett, Sartre e Camus
  14. 10. La ricerca del senso della vita. Gli studi di filosofia, teologia ed economia
  15. 11. L’amore non so cos’è, ma so quando c’è
  16. Copyright