I Grandi Miti del Coraggio
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I Grandi Miti del Coraggio

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I Grandi Miti del Coraggio

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Grandi gesta, prove da superare, mostri da sconfiggere: così identifichiamo la narrazione degli atti di coraggio nel mito greco. Ma per i Greci il coraggio si cela dietro il volto divino di Phobos, il dio della Paura, a cui gli eroi rivolgono le loro preghiere perché in battaglia risparmi i cuori. Anche loro, i grandi eroi come Teseo, Perseo, Bellerofonte, coraggiosi per definizione, hanno paura. A seconda della situazione, accettano lo scontro o decidono per la fuga.
Il coraggio, infatti, non è la negazione della paura, ma l'altra faccia della medaglia. Soprattutto quando la paura assume le fattezze di un mostro, che sia il Minotauro, Medusa, la Sfinge, la prova di coraggio sta nel riconoscere che spaventoso è anche il terrore dentro di noi. Solo addomesticando i nostri mostri e accettando la nostra fragilità possiamo diventare coraggiosi e coraggiose. Perché non ci sono solo gli uomini, molte sono le eroine: Antigone e la sua opposizione a leggi ingiuste; Nausicaa e il coraggio di fronte al diverso; Atalanta, l'impavida e indipendente donna guerriera. Debolezze, incertezze, ma anche forza e valore. Dei umani... troppo umani.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858527832

GLI ARGONAUTI E IL VELLO D’ORO

Mission: impossible

Visto che ormai Bellerofonte ha trovato il suo regno, ci concederà in prestito il suo alato Pegaso, con cui potremo volare in un attimo dalla Licia fino in Tessaglia, per ascoltare il racconto di un altro viaggio avventuroso.
In Tessaglia, nella città di Iolco, regnava un tempo un re usurpatore. Si chiamava Pelia e si era indebitamente impossessato del trono che spettava di diritto a suo fratello Esone. Ma è risaputo che gli usurpatori prima o poi vengono sempre puniti, e quel re viveva nella paura quotidiana: un oracolo infatti gli aveva predetto che il potere gli sarebbe stato strappato da un misterioso uomo che sarebbe entrato nella sua città camminando con un solo sandalo ai piedi. Strana profezia.
Quel forestiero arrivò davvero: un giorno Giasone, figlio del legittimo re Esone, ormai cresciuto abbastanza per aiutare suo padre a recuperare il regno che gli apparteneva, fece il suo ingresso a Iolco camminando in modo strano, perché aveva perso un sandalo guadando il fiume. Pelia, che pure non lo conosceva, riconobbe subito il “monosandalo” della profezia: cominciò a tremare e si mise in fretta a pensare come avrebbe potuto cacciarlo via per sempre.
Giasone chiese udienza al re, si presentò al suo cospetto e reclamò il trono di suo padre. Ma Pelia aveva già escogitato la sua perfida trama: «Avrai ciò che chiedi, giovane con un solo sandalo ai piedi, ma a una condizione: dovrai riportarmi qui il Vello d’oro, che si trova lontano, custodito da un drago nella sperduta Colchide. L’impresa è rischiosa, ma degna del figlio d’un re. Ti sfido a dimostrare, con questo viaggio, il tuo valore e il tuo coraggio».
Quella del Vello d’oro era una lunga storia, che si perdeva nella notte dei tempi.
In Beozia un re di nome Atamante aveva sposato Nefele, la dea Nuvola. Dall’unione erano nati un maschio e una femmina, Frisso ed Elle. Ma mentre i due erano ancora piccoli, Atamante, infedele, ripudiò la sua sposa divina e le preferì Ino (che più tardi sarebbe diventata anch’essa una dea), scacciando Nefele dal palazzo.
La matrigna detestava i due bambini, e covava pensieri omicidi. Nefele se ne accorse, e disperata chiese aiuto a Zeus. Il dio inviò ai due piccoli un montone magico, che sapeva volare: loro gli saltarono in groppa e via per il cielo, sopra il mare, lontano dalle crudeltà della loro matrigna. Volarono a lungo, tra le nuvole: la destinazione era la lontanissima Colchide, dove sarebbero stati finalmente in salvo. La povera Elle però cadde in mare nei pressi di uno stretto, che da lei prese il nome: Ellesponto. Frisso invece riuscì ad arrivare incolume a destinazione, alla reggia di Eeta, dove il montone fu sacrificato a Zeus, protettore degli esuli, e il suo vello d’oro appeso tra i rami di una folta quercia di proprietà del re, da lui gelosamente custodito e sorvegliato da un feroce drago, insonne e immortale. Si diceva che fosse un vello magico, che avesse il potere di guarire le ferite.
Eeta fu costretto da Zeus ad accogliere Frisso nella sua dimora e gli diede in moglie sua figlia Calciope. Ma il Vello d’oro era ancora là, nel bosco sacro e inviolabile, difeso da quel re prepotente e intrattabile, e da un drago che nessuno poteva sfidare.
Non era quindi un’impresa da poco, quella che Pelia chiedeva a Giasone. Forse, a dirla tutta, era un’impresa impossibile: ma Giasone accettò.
Con la collaborazione di Atena fu costruita una nave grande e leggera, poderosa e velocissima, di lungo corso, con cinquanta coppie di remi: una meraviglia a vedersi. Fu ricavata tutta da un solo tronco del monte Pelio, e Atena inserì fra le travi della prua un pezzetto del legno parlante della quercia del santuario di Dodona: così la nave poteva parlare coi suoi rematori, con voce umana e saggezza divina e profetica. Era la prima nave di questo tipo che si accingeva a un viaggio così lungo, solcando vie marine tanto audaci. Fu battezzata Argo. Giasone radunò i cinquanta eroi più valorosi (ma tra loro c’era anche un’eroina coraggiosa, Atalanta, di cui faremo presto la conoscenza) e l’equipaggio degli Argonauti fu pronto.

Il coraggio della solidarietà

Il giorno della partenza si avvicinava. Le madri piangevano, i padri anziani erano in preda all’angoscia. Giasone cercava di addolcire il dolore di tutti, di infondere coraggio. Anche a sua madre, che non si dava pace: le diceva che non doveva esagerare, che le lacrime non servivano, anzi aggiungevano altra inutile pena. Doveva invece farsi coraggio, confidare nell’amicizia di Atena e nelle profezie favorevoli di Apollo, e poi come compagni di viaggio aveva scelto il fior fiore degli eroi, non c’era proprio nulla da temere!
Sembrava non avesse alcuna preoccupazione e rassicurava tutti, ma le apparenze non esauriscono la realtà. L’eroismo di Giasone non era tracotanza, e dietro la maschera del coraggio c’era anche quella della paura. C’era un uomo a tutto tondo, con le sue fragilità e la coscienza del proprio limite.
Intanto non aveva dimenticato di pregare Apollo, che desse loro aiuto e li accompagnasse passo per passo in questa avventura piena di incognite: sapeva bene che nulla poteva il coraggio, nemmeno quello di cinquanta eroi, senza il favore divino.
La sera prima della partenza, i compagni avevano preparato un giaciglio di foglie sulla spiaggia e banchettavano insieme facendo baldoria e intrattenendosi in amichevole e schietta compagnia: presi dall’allegria della convivialità, non si erano accorti che il loro comandante si era messo in disparte, con un volto cupo che tradiva segrete preoccupazioni. Gli si avvicinò Ida, il suo compagno più impulsivo, per carattere dotato di un coraggio marziale e spregiudicato, che sconfinava nell’arroganza e nella blasfemia; fattosi accanto a lui, gli disse in tono canzonatorio: «Giasone, di grazia, si può sapere a che cosa stai pensando? Via, dai, non startene lì da solo, vieni tra noi e dillo a tutti quello che pensi! Non è che ti abbia preso la tremarella, vero, come alle vili donnicciole? Ma se ci sono io al tuo fianco! Che hai da temere? Sai quanto ci so fare con la mia lancia, no? Non ho bisogno neanche di Zeus, io! Basta il mio valore. Dai retta a me: finché ci sono io, nemmeno se un dio si mettesse contro di te, ci sarà mai impresa in cui tu non riuscirai vittorioso!». E dicendo così levò con baldanza la coppa di vino e ne bevve fino all’ultima goccia.
Ma lo sentì Idmone, l’indovino dell’equipaggio, uno con la testa ben piantata sulle spalle, e lo rimproverò. Gli disse che era uno sfrontato, e non avrebbe mai più dovuto esprimersi con simile presunzione verso gli dèi, se non voleva attirarsi sventure. Perché il suo non era coraggio, ma soltanto superbia e stoltezza. C’erano altri modi per infondere conforto ai compagni: per chi osava sfidare un dio, credendosi superiore e dimenticando la sua statura umana, non sarebbero bastati forza o eroismo a salvarlo. L’umiltà è la virtù dei forti.
Ida non si lasciò certo fare la predica: sprezzante, in tutta risposta scoppiò in una fragorosa risata, e provocò Idmone con sarcasmo; ma a quel punto Giasone pose fine alla lite, e Orfeo, uno degli Argonauti, prese in mano la cetra. Nelle note melodiose del suo canto sulla storia del mondo, tutte le angosce e le paure si spensero, e anche il coraggio e i bollenti spiriti si placarono; l’incanto di quella musica mise pace nei cuori agitati e lasciò spazio al silenzio di una notte stellata. Si sentiva ormai solo la risacca che lambiva la battigia in attesa di un’alba diversa, che avrebbe illuminato un giorno a cui, prima d’allora, né la volta del cielo né le acque salmastre del mare avevano mai assistito.
L’indomani, di buon’ora, gli Argonauti si imbarcarono e la magica nave parlante salpò; col vento in poppa prese subito il largo: dall’alto gli dèi guardavano giù, assistendo come spettatori all’evento inaudito dei cinquanta semidèi che con gran coraggio varcavano l’infinita distesa del mare.
Il viaggio fu lungo e tormentato, e i marinai dovettero affrontare pericoli, imprevisti e attimi di autentico terrore. Come quel giorno in cui, con la loro imbarcazione che appariva in quel momento così piccola e indifesa, si trovarono di fronte alla imponente mole delle rupi Simplegadi. Un sottile stretto di mare passava tra l’una e l’altra: non c’era altra via. Chiunque avesse tentato in passato quel passaggio era rimasto schiacciato tra le spalle rocciose che si richiudevano e si riaprivano senza sosta, sbattendo tra loro con un fragore assordante.
Gli eroi tremavano tutti. Un attimo e poteva essere la fine. Con loro, per consiglio del saggio indovino Fineo, avevano portato una colomba, anch’essa tremante di paura: dovevano lasciarla volare tra le rupi, che si sarebbero richiuse, e poi riaperte; allora, con scatto fulmineo, gli Argonauti avrebbero dovuto remare a tutta velocità, con tutta la forza che avevano nel cuore, per tentare l’attraversamento, prima che le Simplegadi tornassero a chiudersi su di loro. Era una gara contro il tempo.
La colomba volò tra le rocce, quelle si schiantarono tra loro, le grotte risuonarono sotto lo scroscio delle ondate schiumanti... Ce l’aveva fatta. La videro ormai al di là, mentre le pareti si riaprivano: volava libera e salva, se l’era cavata con qualche piuma della coda tagliata. Ora toccava a loro. A denti stretti remarono più veloci che mai, con un coraggio che poteva arrivare solo dagli dèi. Atena infatti era con loro, era arrivata dall’alto su una nuvoletta, rapida come il pensiero, e stava là, ad assisterli. Il riflusso delle onde fu sul punto di trascinare la nave tra le rupi, e tutti furono presi dal panico più sconvolgente che avessero mai provato: forse era finita, forse per loro non c’era più speranza.
Tra ondate furibonde che li risospingevano indietro e disperati tentativi di contrastare le correnti avverse, i remi si piegavano sotto lo sforzo disumano dei rematori. Ma Atena, sulla sua nuvola, si avvicinò leggera e con la mano destra diede una spintarella alla nave attraverso il passaggio: tutto è semplice, un gioco da nulla, per chi nasce immortale.
Ormai erano in salvo. La dea sorridendo se ne tornò sull’Olimpo, mentre l’equipaggio tirava un sospiro di sollievo dopo il gelido terrore che l’aveva sconquassato, in quei minuti durati un’eternità. Guardarono tutti il cielo, la sconfinata distesa del mare, e sentirono di essere scampati all’oscuro regno dei morti.
Tifi, il timoniere, rassicurò Giasone: «Non c’è più nulla da temere: se Atena ci ha concesso di sfuggire alle rupi, anche le altre prove che ci attendono andranno a buon fine. La profezia si sta avverando».
Ma Giasone era ancora sconvolto, quanto accaduto gli aveva ridestato fantasmi sopiti, non riusciva a darsi pace: si sentiva in colpa, era certo di aver sbagliato tutto. Non avrebbe mai dovuto accettare di intraprendere il viaggio prescritto da Pelia: ora odiava il mare, tutto lo spaventava, sentiva ostile il mondo. Non dormiva nemmeno più di notte, tormentato dalle angosce. Lui era la guida, era responsabile della incolumità dei compagni, facevano presto a parlare loro che si dovevano dar pensiero solo della propria vita: le sue paure erano moltiplicate per ognuno di loro, e che cosa sarebbe accaduto, se non fosse riuscito a riportarli tutti sani e salvi a casa?
Tuttavia non era solo. Quando aprì il suo cuore ai compagni, il loro calore lo commosse: tutti lo confortarono con parole piene di ardore, un gran vociare di solidarietà, buona volontà e amicizia fraterna lo avvolse. Giasone capì allora che erano loro la fonte prima del suo stesso coraggio: «Grazie amici, il vostro valore mi incoraggia. Anche se dovessi andare giù negli abissi di Ade, adesso non avrei più paura, perché siete con me, così saldi in mezzo alle difficoltà e ai pericoli. Proseguiamo allora, seguiamo uniti la via che ci indica il dio: tutto andrà bene, la paura è acqua passata».
E la navigazione continuò.

Prima di arrivare a destinazione, però, dovettero affrontare un’altra esperienza terribile. A volte, non è la paura a frenare il coraggio, ma la tristezza. A volte avvengono fatti che spengono ogni energia vitale, ogni speranza. Il coraggio è una molla che si alimenta di speranze: quando si perde il senso, la voglia e la motivazione, si perde anch’esso.
E se la fonte prima del loro coraggio era l’amicizia fraterna e collaborativa che li legava, la morte di due compagni fece perdere a tutti il senso e la voglia di proseguire l’impresa. Nella tappa nella terra di Lico, l’indovino Idmone fu ucciso da un cinghiale e il timoniere Tifi morì di malattia: due sepolcri e troppe lacrime. Gli Argonauti non mangiavano e non bevevano più: se ne stavano raggomitolati nei loro mantelli a guardare il mare, senza più sperare nemmeno nel ritorno.
Lo scoraggiamento che provavano, il vuoto che li abbatteva sarebbero durati giorni e giorni, se un’altra dea non fosse scesa dal cielo in loro aiuto. Era calò sulla nave e infuse forza in Anceo, che esortò Peleo, il futuro padre di Achille, a indire un’assemblea per incitare i compagni. Avevano una missione e dovevano proseguire: Anceo era un esperto pilota, avrebbe preso lui il timone.
Peleo si sentì rinascere, chiamò a raccolta gli amici e ravvivò gli animi, scrollando via l’inerzia e la desolazione che li avevano imprigionati. Il destino arriva per ognuno, c’è un momento per tutti: a volte bisogna mettere da parte il dolore e ricominciare. Avevano tra loro uomini esperti, e potevano contare su di loro. E così, riannodando le fila della memoria e rinnovando gli obiettivi per cui il viaggio era iniziato, il coraggio rinacque dopo giorni di disperazione. Con Anceo come nuovo timoniere la nave ripartì, spinta dai soffi di Zefiro e da speranze nuove.

Un aiuto dal cielo

Ormai il viaggio si avvicinava alla meta, e gli Argonauti avevano vissuto le mille umane sfumature del coraggio: la sua perdita, la sua rinascita, la paura dei pericoli, delle responsabilità, il conforto dell’amicizia e della solidarietà. Prima che eroi erano uomini, e in questo risiedeva la loro forza.
Sull’Isola di Ares, sentirono più che mai la Colchide vicina: incontrarono qui infatti nientemeno che i figli di Frisso, il giovinetto che anni e anni prima, con la sorellina Elle, aveva intrapreso il mirabolante viaggio in groppa al montone dal vello d’oro, ragione stessa della loro partenza. Frisso ormai era morto, dopo una lunga vita felice, e aveva lasciato quei suoi quattro figli, che ora si erano messi in viaggio come gli Argonauti, incrociando i loro destini.
Giasone chiese ai figli di Frisso di scortarli in Colchide e aiutarli nella loro missione: impossessarsi del Vello d’oro e riportarlo in Grecia. Appena udirono tali intenzioni, i quattro baldi giovani inorridirono. Il re non sarebbe mai stato favorevole, che non pensassero fosse così semplice: «Noi vi aiuteremo, amici, per quanto possiamo. Ma badate, Eeta è un re crudele, violento, terribile!», disse Argo, uno dei quattro eredi di Frisso: «Ho molta paura per le sorti del vostro viaggio! È figlio del Sole, pari ad Ares nel grido e nella forza. E poi, anche senza contare il re, il Vello che cercate è custodito da un drago feroce, insonne, immortale, nato dalla Terra e dal sangue del gigante Tifone».
A sentirlo parlare così, tutti gli Argonauti riprovarono il terrore delle Simplegadi. Ma Peleo si affrettò a raddrizzare subito gli animi: non mancava certo loro il coraggio, la prova delle armi non li avrebbe visti soccombere. Erano semidèi, in fondo. Se non fossero bastate le buone, e il re non avesse consegnato di buon grado e in amicizia il Vello d’oro, l’avrebbero convinto con la forza.
L’indomani mattina ripartirono tutti insieme, pronti ad affrontare la prova decisiva. Era e Atena, intanto, sull’Olimpo, meditavano un piano per aiutare i loro protetti: perché certo quel burbero re non si sarebbe lasciato persuadere. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. ILLUSTRAZIONI
  4. C’è un tempo anche per scappare. di Giuseppe Zanetto
  5. I VOLTI DEL CORAGGIO
  6. PERSEO E MEDUSA
  7. EDIPO E LA SFINGE
  8. TESEO E IL MINOTAURO
  9. BELLEROFONTE E LA CHIMERA
  10. GLI ARGONAUTI E IL VELLO D’ORO
  11. TELEMACO E MENTORE
  12. DONNE CORAGGIOSE
  13. ANTIGONE E LA LEGGE
  14. ATALANTA E L’UGUAGLIANZA
  15. NAUSICAA E I PREGIUDIZI
  16. Nella stessa collana
  17. Copyright