ELEONORA
Questa è la storia delle mie due famiglie, i feroci duchi d’Aquitania e i famigerati capetingi, sovrani di Francia, e dell’odio reciproco che ci portò a scontrarci più e più volte fino a distruggerci, in quel turbolento XII secolo in cui l’Occidente cambiò per sempre.
Eravamo soltanto due adolescenti, Luigi, re di Francia, e io, duchessa d’Aquitania. Eppure, tra assedi e spargimenti di sangue, tradimenti e nuove unioni, delineammo le frontiere di quel territorio che sarebbe diventato l’Europa.
Sono stata un’assassina precoce. A soli otto anni mi bastarono due semplici lettere, oc – “sì”, nella mia amata lingua occitana – per porre fine alla vita dei miei aguzzini.
Devo anche aggiungere che la mia nascita fu frutto di un incesto, e che io stessa sono colpevole di aver amato mio zio, Raimondo di Poitiers, e di essermi unita in matrimonio con mio cugino, Luigi.
Il potere era nelle nostre mani, nostri i castelli e i vassalli, nostra tutta la ricchezza di quella che un giorno si sarebbe chiamata Europa.
Erano nostre l’Île-de-France, l’Aquitania, la Guascogna e Poitiers.
Sono Eleonora d’Aquitania e ho tredici anni. Alcuni demoni sotto le sembianze di araldi mi hanno comunicato che mio padre è deceduto in circostanze misteriose durante il suo pellegrinaggio a Compostela...
...e non troverete libri di storia che raccontino quello che sto per dirvi.
ELEONORA
Bordeaux, 1137
«Ti sottovaluteranno sempre. Fa’ in modo che paghino per questo.»
Quelle furono le ultime parole che mi rivolse mio padre prima di partire, ben camuffato sotto il suo mantello da pellegrino. E adesso, degli araldi con aria contrita mi stavano dicendo che era morto davanti all’altare maggiore della cattedrale di Compostela, il Venerdì santo, avvelenato dall’acqua di un pozzo abbandonato. Come se della semplice acqua potesse annientare il grande uomo che era stato. Come se mio padre non portasse sempre con sé la sua pietra di carbone per assorbire qualsiasi veleno, abituato com’era ad affrontare mille battaglie e pericoli.
Come se quei falsi araldi non fossero parte di una farsa ben congegnata.
Dicevano di essere arrivati insieme, però Rufus il Gallese aveva le calze sporche per la lunga cavalcata e, persino dal trono su cui ero seduta, riuscivo a percepire il tanfo di sudore del suo cavallo.
Ottone il Bretone, dal canto suo, dichiarava di essere un soldato ma, sebbene i capelli gli stessero crescendo, era ancora visibile una tonsura che rivelava il suo recente passato tra le mura di un monastero. Inoltre il suo aspetto fresco e la pessima vista – era inciampato due volte sui gradini d’ingresso – dimostravano che non era certo un uomo d’azione.
«Bugie...» sussurrò Rai, mio zio, mio amante.
Mi lanciò uno sguardo complice e io lo guardai a mia volta, indugiando sul suo volto.
Intuivo che, d’un tratto, era giunta la fine di un’epoca. Capii che dovevo separarmi da lui e custodire nella memoria quelle ultime ore insieme. Avrei avuto bisogno di bei ricordi per sopravvivere al futuro che mi attendeva.
Rai partì al crepuscolo per la Bassa Navarra per recuperare il corpo dell’amato fratello e cercare una spiegazione a tutte quelle bugie. Io rimasi a capo dell’immensa Aquitania. Solo in pochi sapevano che Guglielmo X, conte di Poitiers e duca d’Aquitania, non era più tra i vivi.
Non erano le prime notizie che ci erano giunte dal cammino del santo apostolo.
E tutte si contraddicevano tra loro.
Alcuni ci dissero che mio padre era morto improvvisamente dopo essersi battuto con un bambino davanti all’altare maggiore. Un piccolo Davide aveva sconfitto Golia.
Come credere a una simile menzogna?
Altri ci raccontarono che era stato sottoposto alla terribile tortura conosciuta come “aquila di sangue”: gli avevano strappato le costole dal corpo e fatto penzolare i polmoni dalla schiena, a mo’ di macabre ali.
Stando alla storia più delirante, aveva baciato un neonato sulla fronte ed entrambi erano morti sul colpo.
E questi ultimi messaggeri parlavano di un pozzo avvelenato. A quale versione credere? Tutte coincidevano, tuttavia, nel dire che il corpo di mio padre era diventato di uno strano colore azzurro scuro.
In quel fatidico giorno io, sua erede tredicenne, mi vidi costretta a ricominciare a parlare.
Mi ero autoimposta il silenzio cinque anni prima, quando quei maledetti capetingi mi violarono sotto un ponte lungo la Garonna. Da quel giorno odiai i capelli color del grano che mi sferzarono il volto. Odiai il blu e il giallo dei gigli ricamati sui mantelli che immobilizzarono il mio corpo sull’erba.
Solo Rai, il mio inseparabile Rai, notò la mia assenza durante il corteo funebre che tornava dalla cattedrale di Sant’Andrea. Arrivò tardi, non seppe mai davvero quanto tardi per salvare me e il mio corpo perduto di bambina. Negai quello che era successo: avrebbe significato consegnare l’Aquitania ai re della nebbiosa Île-de-France.
«Vuoi che li uccida?» mi chiese quando mi trovò. Per la prima volta vidi la commozione negli occhi azzurri di mio zio.
Ancora confusa, mi sistemai la tunica e nascosi il sangue che mi scorreva tra le gambe. Quello non doveva vederlo, nemmeno lui.
«Oc» risposi nella nostra lingua madre. “Sì.”
Una parola, due lettere. Due uomini, due colpi di lama ciascuno. Uno alla gola, per condannarli al silenzio eterno. L’altro a privarli della virilità, la giusta vendetta per quello che avevano portato via a me e al mio primo amore.
Rai non lasciava mai le cose a metà. Non era da lui. Cercava sempre di portare a termine quello che iniziava. Era originario di Poitiers come me, con i capelli corvini, gli occhi chiari e la pelle abbronzata dal perenne sole aquitano.
Mio nonno era il terribile Guglielmo il Trovatore, donnaiolo come pochi. Mio padre, come ho detto, era un gigante che incuteva timore e mangiava per dieci a ogni banchetto. Di suo fratello, Raimondo di Poitiers, nonché mio grande amore, dicevano che era “il più bel principe della terra, un uomo gentile e un brillante conversatore”. Confermo, e fin da piccoli era chiaro che fossimo fatti l’uno per l’altra, zio e nipote: nove anni a separarci, tutto il resto a unirci.
Tornavamo dal funerale di mia madre e del piccolo Aigret, destinato a essere duca d’Aquitania ma che non poté diventarlo a causa delle pustole che se lo portarono via. Il re di Francia, Luigi VI il Grosso, aveva inviato alle esequie alcuni membri della sua famiglia. Cercò di scusare la sua assenza adducendo diplomatiche menzogne, anche se tutti sapevamo che era la dissenteria a costringerlo a letto.
Tuttavia il sovrano aveva messo gli occhi sulla ricca Aquitania. Desiderava le nostre vigne e i nostri mulini, i campi e gli animali al pascolo. Era attratto dall’allegria dei nostri trovatori e dai colori sgargianti delle nostre vesti. Aspirava alla luminosa corte di Poitiers e al nostro splendido palazzo di Bordeaux. I cupi nordici, con non poca gelosia, chiamavano la nostra terra “il Mezzogiorno”.
Mio padre era un suo vassallo, però era più ricco e potente di lui, i suoi terreni erano cinque volte più grandi. Il suo prestigio e le sue gesta lo avevano reso santo quando era ancora in vita, e la sua aura di eroismo umiliava il re.
Che mi volle per sé.
Dal momento in cui Aigret morì, il re desiderò che fossi sua.
Mandò alcuni dei suoi fratelli a compiere l’infame missione: due di loro mi rapirono in un momento di disattenzione di Rai e cercarono di prendere l’Aquitania con la forza. Era consuetudine violentare le eredi al trono e obbligarle a sposarsi per ottenerne la dote. Mia madre me l’aveva ripetuto fin dalla culla: «Se succede, sarà colpa tua». Invece non accadde, o perlomeno non fu riportato nelle cronache. Solo io sapevo ciò che era successo davvero e decisi che no, quello non era mai successo.
«Damnatio memoriae» mi ordinò il fantasma di mio nonno. «Cancellalo dalla tua memoria.»
Dimentica i nemici del passato. Non pensarci, non parlarne, non scriverne, non tornare nel luogo in cui sei stata oltraggiata.
Quando mi violentarono, provai un dolore tanto forte che quasi mi uccise: sotto quell’oscuro ponte imparai che la carne di una bambina deve cedere, perché la determinazione di un uomo che vuole farla sua non cede mai. Fu un vero e proprio atto di guerra e il campo di battaglia, codardi, fu il corpo di una ragazzina.
Prima lezione di vita: cerca altre armi.
Rai e quelle due lettere furono le prime che trovai. I fratelli del re capetingio morirono senza potergli inviare un messaggio e dirgli che avevano invaso il mio corpo e, con esso, l’Aquitania. Io negai sempre l’accaduto a Rai ed egli finse di credermi. Fece sparire da lì i corpi dei franchi e remò fino a un punto della Garonna che pochi conoscevano. Il nonno aveva portato dalla crociata alcuni pesci mostruosi che erano stati immersi in quelle acque. Erano carnivori. In quella pozza scomparvero i capetingi. Non parlammo mai più di quel giorno, mio padre non ne seppe nulla: il dolore per la morte della moglie e dell’erede era già sufficiente. Nessuna dama, nessuna zia ne venne a conoscenza. Neanche la piccola Aelith, mia sorella, l’altra me stessa, che non aveva ancora l’età giusta per le confidenze di cui sarebbe stata depositaria in futuro.
Scelsi il silenzio, diventando muta, e tutti lo giustificarono con il lutto per la perdita di mia madre e di mio fratello.
Le mie parole uccidevano.
Decisi dunque di non pronunciarne più, anche se da sempre le avevo adorate.
Muta e invisibile: il silenzio aveva i suoi vantaggi.
Per non sentire la mancanza delle parole, mi rifugiai nella biblioteca di mio nonno e di mio padre. Imparai a memoria il Manuale di vita dei duchi d’Aquitania, una sorta di compendio di consigli che i miei familiari avevano iniziato a scrivere quando uno dei miei antenati fu nominato signore di quella terra.
«Rema nella tua barca», la massima di Euripide che Rai si ripeteva fin da bambino, si trovava a pagina nove. A pagina ventiquattro c’era invece una frase scritta da mio nonno Guglielmo: «Ricorda il vecchio adagio: “Se qualcuno sta per perdere il coraggio, dagli il timone della barca”.»
Poi però successe qualcosa.
Ignorando l’oltraggio e lo sconcerto dei suoi vassalli – l’infame Lusignano, Taillebourg e altri consiglieri –, mio padre decise che quella piccola bambina muta sarebbe stata la futura signora d’Aquitania.
Io ero precoce e avevo sviluppato molti talenti, come tutte le donne aquitane del mio lignaggio.
Conoscevo già il latino, l’inglese dei normanni, la nostra lingua d’oc e la gutturale lingua d’oïl che si parlava alla corte di Francia, a Parigi. Ero la migliore suonatrice di cetra della mia età, mi piaceva andare a caccia, non di cervi spaventati, ma di cinghiali furiosi. Le sette arti liberali non erano affatto un arcano mistero per me: grammatica, aritmetica, logica... Firmai i miei primi documenti ufficiali dopo il funerale di mia madre, a otto anni. Quell’evento sì che fu riportato dalle cronache che, per una volta, coincisero con i fatti.
Quando decisi di non parlare più successe un’altra cosa. Sviluppai una capacità che presto imparai a nascondere. A forza di tener chiusa la bocca e osservare i vassalli durante i consigli, le donne che correvano nei corridoi nel nostro pal...