Di cosa sono fatti i ricordi
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Di cosa sono fatti i ricordi

Segreti e tecniche per potenziare la memoria

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Di cosa sono fatti i ricordi

Segreti e tecniche per potenziare la memoria

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Il cervello degli esseri umani è un prodigio della natura. Ogni giorno compie una serie di miracoli: «vede, ascolta, gusta, odora, percepisce le sensazioni tattili. Avverte il dolore, il piacere, la tempera­tura, lo stress, e la gamma completa delle emozioni. Pianifica e risolve».

Eppure, tra tutti i miracoli di cui è capace, la possibilità di ricordare è la cosa più straordinaria di tutte. Senza la memoria, ogni informazione appresa, ogni esperienza attraversata svanirebbe nel nulla: le nostre vite si trasformerebbero in un unico, immutabile istante senza fine, e ognuno di noi si aggirerebbe tra gli altri come una monade senza affetti e legami durevoli.

«Ma per quanto miracolosa» ci avverte la neuroscienziata Lisa Genova in questo splendido saggio di divulgazione scritto con il talento della narratrice, «la memoria non è perfetta. I nostri cervelli non sono progettati per registrare i nomi delle persone, ricordare un'azione da compiere più tardi, o catalogare tutto ciò che ci troviamo davanti. Abbiamo queste "lacune" perché siamo tarati così. Anche nelle menti più brillanti la memoria è fallibile.»
Per questo, comprendere le dinamiche e la struttura della memoria, le sue vulnerabilità e i suoi incredibili poteri ci può aiutare - sempre nelle parole di Lisa Genova - a «incrementare in modo incalcolabile la nostra capacità di ricordare e affrontare con più consapevolezza le situazioni in cui - inevitabilmente - dimentichiamo. Avremo esorcizzato la paura. E questo può davvero cambiarci la vita.»

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858527917
SECONDA PARTE

Perché dimentichiamo

7

Il vostro ricordo degli eventi accaduti è falso

I ricordi episodici sono un groviglio di distorsioni, aggiunte, omissioni, elaborazioni, aggiustamenti e altri errori. In sostanza ciò che ricordiamo degli eventi è completamente sbagliato. Sì, lo so: ho dedicato tutta la prima parte del libro a convincervi che i nostri cervelli sono macchine prodigiose quando si tratta di ricordare le esperienze coinvolgenti, sorprendenti, significative e rivissute spesso nella memoria. E adesso vengo a dirvi che tutto questo archivio mnestico è falso. Ebbene, sono vere entrambe le cose.
Fatemi spiegare. Premetto che, per quanto strano, capire come e perché i nostri ricordi episodici sono fallibili ha qualcosa di rassicurante. Nel corso dell’intero processo di elaborazione di un ricordo – codifica, consolidamento, immagazzinamento e recupero – la nostra memoria è esposta a modifiche ed errori. Per cominciare, possiamo introdurre nel processo di creazione del ricordo solo gli eventi che abbiamo notato e a cui abbiamo prestato attenzione. Dato che è impossibile notare tutto ciò che accade ogni momento intorno a noi, potremo codificarne e ricordare in seguito soltanto alcuni segmenti. E di quei segmenti conterranno soltanto i dettagli che assecondano le nostre inclinazioni e hanno risvegliato il nostro interesse. Perciò il mio ricordo del Natale scorso sarà diverso da quello di mio figlio, ed entrambi saranno solo parziali, cioè non saranno in grado di ricostruire il quadro completo. In parole povere: i nostri ricordi episodici sono incompleti già in partenza.
D’accordo, direte voi, ma se anche contengono soltanto ciò che abbiamo notato e che ha catturato la nostra attenzione, almeno quei dettagli saranno accurati, giusto? Sbagliato. I nostri ricordi episodici sono come bambini dell’asilo, pronti a credere a ogni principessa, sirenetta e gigantesco topo bipede visti a Disney World. Sono ingenui, facili all’entusiasmo, e altamente suscettibili ai condizionamenti e ai ritocchi creativi, soprattutto nel periodo – ore, giorni e oltre – in cui vengono consolidati, prima di venire affidati alla memoria a lungo termine.
Durante il processo di consolidamento di un ricordo episodico il nostro cervello è come uno chef impulsivo e pasticcione. Mentre mescola gli ingredienti di un evento che avete notato, varia di continuo la ricetta, con aggiunte e sottrazioni spesso radicali, fornite dall’immaginazione, dalle nostre opinioni e dai nostri pregiudizi. La ricetta sarà condizionata anche dalle nostre aspettative, da ciò che abbiamo sentito in giro, letto sul giornale, visto in un film o in una foto, dall’associazione di idee, dal nostro stato emotivo in quel particolare momento, dai ricordi di qualcun altro, o dalla pura e semplice suggestione.
E nemmeno l’archivio della memoria a lungo termine è al sicuro dalle alterazioni. Lasciati a loro stessi troppo a lungo, i ricordi possono deteriorarsi. Le connessioni neurali che li custodiscono si indeboliscono e scompaiono, cancellandoli in parte o per intero.
Come se non bastasse, noi stessi tendiamo a modificare il ricordo di un evento ogni volta che lo richiamiamo alla mente. Come abbiamo già detto, l’azione di rievocare qualcosa non è come guardarne la videoregistrazione: somiglia piuttosto a raccontarne la storia. La memoria non è una stenografa da tribunale, che rilegge dal verbale ogni singola parola pronunciata in aula. Quando ricordiamo un evento, in genere ripeschiamo solo alcuni dei dettagli archiviati. Altri li omettiamo, li interpretiamo o li distorciamo alla luce di nuove informazioni, del contesto e della prospettiva acquisiti nel tempo trascorso dall’evento. Ogni ricordo è lacunoso per natura, ma a noi piacciono i racconti completi e coerenti; perciò, senza neanche accorgercene, nel rievocare un’esperienza colmeremo i vuoti inserendo nuove informazioni (perlopiù non accurate). Infine c’è il condizionamento di come ci sentiamo nel presente: le opinioni e lo stato emotivo di oggi influiscono sul ricordo di quanto è accaduto un anno fa. Insomma, nel rievocare un evento tendiamo a riplasmarlo.
A quel punto accade un fenomeno interessante. Il nostro cervello consolida e immagazzina non il ricordo originario, ma la sua versione 2.0. Un po’ come se avessimo cliccato il pulsante salva di un documento Word: ogni modifica apportata resta registrata nei circuiti neurali che custodiscono il ricordo. La sua prima versione, quella appena ripescata dalla memoria, non esiste più: ogni volta che lo richiamiamo alla mente, sovrascriviamo il ricordo di un evento, e la volta successiva sarà questa versione riveduta e corretta a essere rievocata.
Dunque, come potete immaginare, un ricordo episodico rivisitato con una certa frequenza devierà in modo significativo dall’originale. È un po’ come nel gioco del telefono senza fili: passando da un giocatore all’altro, la frase arriva a destinazione ben diversa da com’era all’inizio. Perciò i ricordi condivisi innumerevoli volte con amici e familiari non sono affatto un resoconto affidabile di quanto è accaduto nella realtà.
Ma quanto è inaffidabile la nostra memoria episodica? Tantissimo. Per cominciare, è facilissimo indurre il nostro cervello a “ricordare” esperienze che in realtà non abbiamo vissuto. È un fatto dimostrato che, fornendo informazioni fittizie, è possibile creare ricordi falsi o contaminati. Nel corso di svariati esperimenti, i ricercatori spiegavano agli ignari partecipanti ai test di aver saputo dai loro parenti specifici episodi del loro passato. Peccato che... quelle storie fossero inventate di sana pianta!
Ricordi quella volta che hai fatto un giro in mongolfiera? Ricordi quando a sei anni ti eri perso al centro commerciale? Ricordi quando, alle nozze di tua cugina, le hai rovesciato un bicchiere di vino rosso sull’abito bianco? Dopodiché i ricercatori mostravano ai soggetti foto fasulle, realizzate con Photoshop, arricchendole di una quantità di dettagli minuziosi. Sapete come reagivano i soggetti? Nel 25-50 per cento dei casi, come d’incanto quelle persone rievocavano particolari di un’esperienza che non avevano mai vissuto.
Certo che lo ricordo! La mongolfiera era rossa, e con me c’erano anche mia madre e il mio fratellino. Davanti a una domanda tendenziosa, i nostri ricordi episodici ridiventano come quei bambini dell’asilo a Disney World: pronti a credere qualsiasi cosa.
Un altro studio aveva per fulcro il video dell’aereo dirottato e precipitato in Pennsylvania l’11 settembre 2001. Prima in un colloquio e poi con un questionario, i ricercatori chiesero ai soggetti che cosa ricordassero di quel video. Il 13 per cento fornì ricordi dettagliatissimi del filmato nel corso del colloquio, e il 33 per cento nel questionario. Ma il 100 per cento di quei ricordi era falso. Noi disponiamo di filmati degli aerei che l’11 settembre si schiantarono sulle Torri Gemelle a New York e sulla sede del Pentagono a Washington, ma non esiste alcuna ripresa di quello precipitato in un campo in Pennsylvania. Quelle persone erano convinte di ricordare dettagli di un video inesistente.
Poiché nel rievocare un’esperienza la esponiamo ai condizionamenti esterni, anche le false informazioni possono insinuarsi nella narrazione del ricordo, deformandolo in modo radicale. L’intruso che più spesso e con più efficacia riesce a infiltrare falsità all’interno della nostra memoria episodica è il linguaggio: le parole usate da noi e dagli altri. In uno studio classico e tra i miei preferiti su questo fenomeno, due ricercatori mostrarono ai partecipanti lo stesso filmato di un incidente stradale, per accertarsi che tutti loro ne codificassero un ricordo identico.
Dopodiché posero una di queste domande:
  • Secondo te, a quale velocità viaggiavano le due auto al momento dello schianto?
  • Secondo te, a quale velocità viaggiavano le due auto al momento della collisione?
  • Secondo te, a quale velocità viaggiavano le due auto quando si sono scontrate?
  • Secondo te, a quale velocità viaggiavano le due auto quando sono entrate in contatto?
  • Secondo te, a quale velocità viaggiavano le due auto quando si sono toccate?
Il ricordo della velocità delle auto nel video risultò variare in modo significativo a seconda del verbo usato dai ricercatori: era bastato cambiare un’unica parola. I soggetti cui era stato chiesto dello schianto ricordavano una velocità superiore di sedici chilometri orari rispetto a quelli cui era stato detto che le auto si erano toccate. Avevano ricostruito il proprio ricordo dell’evento per adeguarlo all’intensità del verbo, incorporando la rettifica nel momento di rievocarlo.
In uno studio analogo, i ricercatori mostrarono a tre gruppi di soggetti il video di un incidente in cui erano coinvolte parecchie macchine.
  • Al primo gruppo chiesero: a quale velocità viaggiavano le auto quando si sono schiantate l’una contro l’altra?
  • Al secondo gruppo chiesero: a quale velocità viaggiavano le auto quando sono entrate in contatto?
  • Al terzo gruppo non fecero alcuna domanda sulla velocità delle auto.
Una settimana dopo, posero questa domanda ai soggetti di tutti e tre i gruppi:
  • Avevi visto vetri rotti, nel video?
La risposta fu sì per il 32 per cento dei soggetti cui era stato chiesto: «A quale velocità viaggiavano le auto quando si sono schiantate l’una contro l’altra?». E solo nel 14 per cento di quelli cui i ricercatori avevano chiesto: «A quale velocità viaggiavano le auto quando sono entrate in contatto?». La stessa percentuale dei soggetti cui i ricercatori non avevano fatto domande sulla velocità. E come immagino avrete indovinato, nel video non si vedevano affatto vetri rotti. Quindi tutte le persone che avevano risposto sì ricordavano di aver visto un dettaglio inesistente.
Considerata la facilità con cui è possibile manipolare i ricordi episodici attraverso il linguaggio e le domande tendenziose, non sembra proprio una buona idea affidarci alla memoria per faccende importanti come il verdetto e la sentenza di un processo, giusto? Quasi la metà degli americani ritiene che un unico testimone oculare – e dunque il suo ricordo dei fatti – sia sufficiente a giustificare una condanna. Solo negli Stati Uniti, sono state 365 le persone innocenti condannate prima del settembre 2019 e scagionate in seguito grazie alla prova del dna. Circa il 75 per cento di loro era stato giudicato colpevole sulla base di una testimonianza oculare. Dunque tutti i ricordi di quei testimoni erano sbagliati.
In uno studio pubblicato nel 2008, i ricercatori mostrarono ai loro soggetti il video di un reato fittizio in un supermercato. Il ladro rubava una bottiglia di liquore. Nella ripresa erano presenti due astanti: il primo stava percorrendo la corsia dei liquori, l’altro era fermo nel reparto frutta e verdura. Dopo la visione del filmato, i ricercatori mostrarono ai soggetti le foto di alcuni uomini, nessuno dei quali era l’attore che aveva interpretato la parte del ladro. Il 23 per cento dei soggetti identificò come colpevole l’astante che camminava nella corsia dei liquori, e il 29 per cento quello nel reparto frutta e verdura. In totale, più della metà aveva additato un innocente in base al proprio ricordo dei fatti.
Non sto dicendo che i ricordi episodici di tutti i testimoni oculari siano sbagliati. Ma senza dubbio alcuni sì. In un altro studio, i soggetti guardarono un video di trenta secondi di una rapina in banca. A distanza di venti minuti, la metà di loro dovette scrivere in cinque minuti un resoconto di ciò che aveva visto, mentre l’altra metà veniva tenuta impegnata in attività che non avevano nulla a che fare con il video. Alla fine i ricercatori chiesero a tutti i soggetti di identificare il rapinatore da una serie di foto. Il 61 per cento di quelli che non avevano scritto il resoconto riuscì a identificarlo, contro appena il 27 per cento degli altri. Insomma, già solo a distanza di una ventina di minuti, meno dei due terzi dei “testimoni” della rapina riusciva a ricordare in modo accurato l’aspetto del rapinatore. E l’attività del resoconto scritto aveva compromesso in modo drammatico la capacità dei soggetti di ricordare correttamente quanto avevano visto meno di mezz’ora prima.
Scrivere qualcosa ci permette di riconsiderare e dunque consolidare il ricordo dei dettagli che selezioniamo da un’esperienza, ma al tempo stesso ci impedisce di ripassare, e dunque ricordare in seguito, i dettagli che abbiamo escluso dalla narrazione scritta. Tradurre in parole un’esperienza sensoriale distorce e contrae il ricordo originario dell’esperienza stessa. Da scrittrice, trovo questo fenomeno davvero scoraggiante.
Anche solo parlare di un’esperienza vissuta ne impoverisce il ricordo. Per cominciare, la storia che raccontiamo sarà circoscritta entro i limiti del linguaggio e della sua capacità di descrivere le immagini, i suoni, gli odori, gli effetti tattili e tutte le altre percezioni di un dato evento. Nel descriverlo, noi stessi sceglieremo di privilegiare certi dettagli rispetto ad altri.
E dopo averne parlato, registreremo nella memoria questa versione impoverita dell’esperienza, perdendone per sempre il ben più ricco ricordo originario. E magari la prossima volta che lo rievochiamo, escluderemo un dettaglio: non precisiamo che quel giorno pioveva. Così, al terzo racconto dell’esperienza, la pioggia sarà sparita dalla nostra memoria. In breve, ogni ripetizione del racconto di un’esperienza conterrà meno informazioni della precedente.
Ma potrà anche contenerne di nuove: informazioni fornite dall’immaginazione o prese in prestito da altre fonti. Potrei aggiungere qualche dettaglio di sfondo, un’interpretazione, un abbellimento per rendere il mio aneddoto più interessante, o magari arricchire con le informazioni suggerite da un amico. E nel momento stesso in cui li ripeto, il mio cervello incorpora quei dettagli al mio ricordo dell’evento.
Immaginate che voi e vostro fratello stiate raccontando agli amici di quella volta in cui da piccoli avevate teso un agguato al fiorista sulla soglia di casa, sparandogli con le vostre pistole giocattolo. Quando finite di parlare, vostro fratello commenta: «Non la smetteva più di suonare il campanello». È un dettaglio che non ricordavate, ma vi fidate della memoria di vostro fratello. E la prossima volta che ripenserete all’episodio, anche voi ricorderete il fiorista attaccato al campanello. Ora quel dettaglio è diventato un vostro ricordo.
Oppure poniamo che due giorni fa sia suonato l’allarme antincendio nel vostro ufficio, costringendovi a lasciare il palazzo. Voi ricordate di essere usciti con tutta calma, di aver aspettato per circa un’ora nel parcheggio, provando una vaga irritazione, nell’incertezza se si fosse trattato di un falso allarme o di un incendio reale. Ieri, quando il vostro collega ha raccontato l’esperienza, ha precisato che c’era stato un corto circuito in mensa, e l’intera cucina aveva preso fuoco, con fumo dappertutto. Il vostro ufficio è proprio in fondo al corridoio che porta in mensa: avete rischiato di morire! Oggi, raccontando l’episodio, “ricorderete” che scendendo le scale, durante l’evacuazione, non riuscivate quasi a vedere i gradini da tanto era denso il fumo.
Ecco un caso di confabulazione: un tipo di errore della memoria molto comune. Le informazioni fornite dal vostro collega si sono infiltrate nel vostro ricordo episodico. Non state mentendo in modo consapevole. Ve l’ho detto: i ricordi episodici sono bambini dell’asilo, e i bambini dell’asilo credono a Babbo Natale. Adesso la vostra memoria dell’incendio in ufficio crede davvero che l’aria fosse densa di fumo durante l’evacuazione dell’edificio.
Insomma, ogni volta che lo rievochiamo, il ricordo di un’esperienza può restringersi, espandersi o mutare in una quantità di direzioni interessanti e spesso sbagliate, deviando in modo significativo dal ricordo iniziale e codificato in origine nel cervello.
Paradossalmente, se annotate gli eventi accaduti oggi, finirete per limitare il vostro ricordo della giornata ai soli dettagli che avete scelto di regis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. DI COSA SONO FATTI I RICORDI
  4. Introduzione
  5. Prima parte. Come ricordiamo
  6. Seconda parte. Perché dimentichiamo
  7. Terza parte. Potenziare o sabotare
  8. Appendice
  9. Bibliografia
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright