Senza paura
eBook - ePub

Senza paura

La nostra battaglia contro l'odio

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Senza paura

La nostra battaglia contro l'odio

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Alessandro Zan è diventato uno dei politici più noti di questa legislatura. È, infatti, il relatore del disegno di legge che porta il suo nome, una proposta che sta agitando come poche volte nella storia repubblicana recente, un dibattito e una partecipazione forte sia dentro che fuori il Parlamento.
Questo libro è molte cose insieme: un racconto autobiografico intimo e privato in cui l'autore condivide con il lettore il suo percorso faticoso ma consapevole di militante Lgbt, dagli inizi nella piccola provincia padovana fino ai banchi della Camera dei deputati. Ma non solo: Alessandro Zan spiega le necessità di una legge che combatta l'odio, l'omotransfobia, la misoginia, l'abilismo. Denuncia l'approccio eteronormativo del diritto, il patriarcato nelle sue molteplici e inconsce forme di dominio. Infine racconta quelli che sono i sostenitori del Ddl e gli oppositori più accaniti e mascherati. Partendo, però, da un presupposto chiaro: questa è una legge a tutela di tutti. Per amare chi si vuole, senza paura. Per essere se stessi, senza nascondersi. Senza paura è il grido gioioso e determinato di un Paese che vuole cambiare davvero, per uscire dal bigottismo e somigliare sempre di più ai Paesi più avanzati in tema di diritti civili.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Senza paura di Alessandro Zan in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politica e relazioni internazionali e Diritti civili in politica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

1

Il paese civile che ancora non c’è

«Ho 27 anni e non faccio nulla di male, sono stata condannata solo perché amo una ragazza ed è un amore che la mia famiglia non ritiene normale.» La storia di Chiara è la storia di tante e tanti, sarebbe potuta essere anche la mia, quella di Alessandro, un ragazzo gay cresciuto a Mestrino, Padova, negli anni ‘80 del secolo scorso. Racconto quella di Chiara perché Chiara l’ha raccontata a me e prima di farlo aveva usato Instagram per chiedere aiuto, con gli occhi gonfi di pianto e paura. È la storia dell’essere omosessuali in Italia negli anni ‘20, una storia che ci chiede di scegliere cosa vogliamo essere, se vogliamo essere la Polonia delle Lgbt free zone, dove i gay sono al bando con l’incoraggiamento pubblico, o la Francia, la Spagna, la Svezia, i paesi che hanno scelto da tempo la via dei diritti.
Chiara è scappata di casa dopo una lunga serie di violenze psicologiche, minacce, abusi. La madre aveva promesso di «squartare» la fidanzata di Chiara, ha chiamato la figlia «malata», «castigo di Dio», ha minacciato di uccidere anche lei, ha provato a investire con l’auto il padre di Chiara, che provava invano a mettere pace. Chiara ha lasciato quella casa, la sua casa, durante uno dei lockdown dell’Italia pandemica, con quattro vestiti in una borsa e pochi spiccioli in tasca, ha preso un autobus, è arrivata a Milano. Non aveva un lavoro, un posto dove dormire; è passata da una casa di fortuna all’altra, la sua comunità, la nostra comunità, l’ha accolta e aiutata, c’è chi le ha dato un divano, chi dei vestiti. Suo padre le ha detto: «Puoi tornare in qualsiasi momento». Certo, Chiara può tornare a casa, l’unica condizione è rinunciare alla sua relazione, all’amore, all’identità, a se stessa. Il patto che le veniva proposto, che è stato proposto a tante ragazze e ragazzi come lei, è sopprimere la vitalità dei suoi desideri e della sua giovinezza in cambio della pace. È questa la scelta che questo paese impone alle persone come Chiara. Mentre ci raccontiamo nei talk show e sui giornali di essere liberi, tolleranti, aperti e senza un problema di omofobia o di transfobia, ci sono giovani che devono scappare perché minacciati di essere squartati. In famiglia.
Mentre si trovava a Milano, e cercava di rimettere insieme i pezzi della sua vita, Chiara ha partecipato a una manifestazione a sostegno del Ddl Zan. Non lo racconto perché quella legge porta il mio nome: la “legge Zan” si chiama così per semplificazione istituzionale, perché le cose hanno bisogno di un nome. Quella legge appartiene a Chiara e al suo destino da ricostruire, perché attraverso il Ddl Zan il Parlamento ha chiesto all’Italia di scegliere, se stare dal lato dei diritti o da quello delle minacce, perché non è libero un paese che prova a essere su entrambi i fronti di questa barricata, tra chi vuole squartare e chi scappa all’alba, anche se questa barricata è nello spazio chiuso di una famiglia. Conoscevo, in parte, la storia di Chiara, poi l’ho incontrata personalmente durante una visita alla Casa Arcobaleno di Milano, nel maggio del 2021. È una casa rifugio per le persone Lgbt+ che si ritrovano in strada, senza un posto dove andare, a causa di minacce, di un outing forzato, di violenza, di solito tutte queste cose insieme. Nella vita, quando scappi, hai bisogno prima di tutto di un posto dove atterrare. Esperienze come la Casa Arcobaleno di Milano esistono da tempo, almeno in alcune grandi città italiane. Ce ne sono anche a Roma, Napoli, Torino. Un pezzo della legge Zan, per la quale tanto abbiamo combattuto, è stato pensato per trasformare queste iniziative locali in un sistema, una rete nazionale di centri antidiscriminazione e case rifugio, con criteri certi e finanziamenti pubblici.
Quei centri e quelle case rifugio nascono per proteggere concretamente le persone gay, lesbiche e trans dal precipizio che si apre nelle loro vite quando devono scappare dalla violenza. Era così urgente che abbiamo deciso di inserirli nel cosiddetto Decreto agosto, perché avevamo fiutato il rischio di un lungo pantano parlamentare sul Ddl Zan, e nel frattempo persone come Chiara avrebbero continuato a scappare e avere bisogno di un posto, in ogni angolo d’Italia, con le uniche case rifugio a centinaia di chilometri di distanza. Così, nell’agosto 2020, la parte sui centri anti-discriminazione e sulle case rifugio è diventata legge dello Stato. È una legislazione che risponde a un’emergenza perché, a dispetto di quello che vi racconteranno, l’emergenza sociale legata all’omotransfobia esiste. La violenza esistenziale subita da Chiara non sarebbe entrata in nessuna statistica, era invisibile eppure era anche reale, concreta, imminente e stava facendo a pezzi la sua vita.
Con quel decreto sono stati stanziati quattro milioni di euro all’anno per creare una doppia rete di risposta a queste situazioni. La prima rete è costituita dai centri antidiscriminazione, in cui ricevere assistenza legale e psicologica, mediazione familiare, supporto umano, accoglienza, affetto. La seconda rete è il tessuto delle case rifugio, destinate a chi è rimasto privo di qualsiasi tipo di rete sociale, senza un cuscinetto tra l’omotransfobia e la strada. In queste case rifugio, come quella Arcobaleno dove ho conosciuto Chiara, si può trovare calore e protezione ma anche formatori che accompagnano in un percorso di superamento del trauma e di reinserimento sociale.
Dopo il Decreto agosto, c’è stato un primo bando nazionale nel 2020, sono arrivate 94 domande, spesso da associazioni che collaborano con le amministrazioni comunali, in luoghi dove questo tipo di assistenza era spesso del tutto assente. Ogni centro antidiscriminazione riceve 100.000 euro all’anno, ogni casa rifugio 180.000 euro.
Ho un bellissimo ricordo della conversazione con Chiara, abbiamo poi continuato a scriverci, dopo l’incontro con gli ospiti della Casa Arcobaleno abbiamo parlato a lungo, la chiacchierata è diventata un aperitivo, lei era un fiume in piena, stava meglio, vedeva il futuro. La politica è soprattutto questo, dare strumenti alle persone per affrontare la propria vita.
Nel corso dei miei oltre vent’anni da attivista – perché sono stato un attivista molto prima che un politico – ho incontrato tante persone in difficoltà. Io stesso sono stato un omosessuale in difficoltà, perduto e spaventato, ho raccontato per anni bugie e ho visto per ancora più anni l’Italia raccontare bugie a se stessa. Menzogne a ogni livello, dalla politica alle famiglie: negare il maschilismo, il sessismo, la discriminazione di genere, l’omotransfobia. Nelle statistiche della Rainbow Map elaborata da ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) il colore dell’Italia è quasi rosso, e in questo tipo di mappe non è il colore di chi sta bene, né quello che dovremmo avere. Siamo al 35° posto su 47 per inclusione sociale e accettazione nei confronti della comunità Lgbt+. I nostri compagni di statistica sono Bulgaria, Romania, Moldova; peggio di noi solo Bielorussia, Polonia, Ungheria, Turchia e Russia. Ogni altro paese dell’Europa occidentale sta meglio di noi. Alcuni molto meglio di noi, anche paesi con una forte tradizione cattolica, che solo da noi è rimasta un alibi. Non siamo dove dovremmo essere e non è nemmeno dove siamo convinti di essere nella falsata autopercezione nazionale, e questa è la cosa più preoccupante. Vengo da decenni di conversazioni pubbliche e più di tutto, prima ancora dei diritti, in Italia manca il senso di realtà, di cosa è la realtà per le persone omosessuali e transessuali. La distanza tra i dati e la rappresentazione è spaventosa, l’Italia è il paese d’Europa con il più alto tasso di omicidi di persone transessuali. Dobbiamo fare i conti con un passato di esclusione, ma anche con un presente di esclusione.
Al di là di ogni alibi, l’Italia rimane un paese patriarcale, nel quale aspettative, ruoli, prerogative sono ancora dentro quella “sceneggiatura”, diventata ormai un ostacolo alla cittadinanza, un problema democratico. Il patriarcato attribuisce in modo rigido a ciascuno un ruolo nella società. Se uno esce dal ruolo che gli è stato assegnato dal patriarcato è una persona sbagliata, da sanzionare simbolicamente e socialmente. È questo il contesto che abbiamo ereditato e che proviamo a cambiare con le leggi, con l’attivismo, con i simboli, con le battaglie culturali. Ci prendono in giro, ci sminuiscono, ci dicono che i problemi sono altri, ma il patriarcato è una condanna a vita per donne e uomini, per gli etero, i gay, le persone trans. Sono vincoli tossici, che impediscono alle identità di formarsi in modo organico. Il patriarcato è una macchina di infelicità collettiva. Ovviamente sono vincoli doppiamente tossici per le persone Lgbt+, perché la loro esistenza non è in alcun modo prevista dallo schema. Un ragazzo o una ragazza gay, lesbica o trans, all’interno del sistema patriarcale, non hanno un posto nella società, non sono cittadini, quella società chiede loro di scambiare l’invisibilità con la cittadinanza: puoi esserci, e puoi tornare a casa, solo se ti nascondi, se ti neghi, se ti cancelli. È questo che noi combattiamo, è per questo che esiste il Pride, l’orgoglio. È per questo che esiste il Ddl Zan. Ed è questo che stiamo facendo davvero quando ci accusano di “portare il gender nelle scuole”. Chiediamo solo un mondo dove i bambini siano liberi di esprimere la propria identità come vogliono, schivando regole cromatiche, sui giochi, sui ruoli, sugli sport da maschi e da femmine. Sono stereotipi innocenti, finché non capisci che nessuno stereotipo è innocente, è solo l’inizio della discriminazione, della negazione della cittadinanza, del patriarcato che tramanda se stesso. Il femminicidio e la violenza di genere sono la conseguenza di questa impostazione.
La legge Zan è stata fatta anche per questo: un attacco al patriarcato sul piano simbolico, per provare a mettere a nudo l’identità ancora machista ed eteronormativa di questo paese. Sembrano parole desuete, accademiche o roboanti, ma sono la realtà che fa deragliare la vita delle persone in Italia. La legge non avrebbe avuto l’opposizione che ha avuto se non avesse smascherato decenni di bugie autoindotte sulla libertà e la tolleranza, se non ci avesse ricordato quanto eravamo indietro mentre credevamo di essere avanti, se non avesse spezzato il sogno di un paese civile e avanzato che ancora non c’è. La legge Zan è la voce dello Stato che non accetta più che delle persone vengano minacciate, insultate, picchiate, uccise semplicemente perché esistono. Se lo Stato deve dirlo con una legge è perché succede, succede ogni giorno, è perché in Italia si viene picchiati e uccisi per quello che si è, per qualcosa che non si sceglie, perché io non ho mai scelto di essere gay, io sono gay. Dobbiamo imparare a dirci la verità: se attraversi i binari della metropolitana per picchiare due ragazzi omosessuali, lo fai perché senti che il tuo paese ti autorizza a farlo. La questione centrale della legge non è nemmeno la deterrenza, ma quel piano simbolico e culturale nel quale – per tante persone – tutto sommato si può insultare un gay, si può minacciare di squartare una figlia perché è lesbica.
E invece no: lo Stato non ti autorizza, lo Stato ti punisce ulteriormente se lo fai perché, attraversando i binari per pestare due persone sulla base del loro orientamento sessuale, stai violando uno spazio di libertà, stai negando la loro cittadinanza. Ogni atto di omotransfobia tollerato è anche questo: una violazione della democrazia, una negazione dei diritti di cittadinanza. L’alternativa è tra la discriminazione delle minoranze, quindi avallare l’omofobia di Stato, e un allargamento dei diritti che migliora la qualità della vita democratica di tutte e tutti. Non c’è una via di mezzo, non c’è mai stata, sicuramente non c’è più. Dobbiamo ogni giorno scegliere che paese siamo, in compagnia di quali altri paesi vogliamo stare.
Quando ho incontrato le ragazze e i ragazzi della Casa Arcobaleno di Milano ho pensato per l’ennesima volta tutto questo, sono i pensieri di una vita, un flusso iniziato la prima volta che sono entrato nel circolo Arcigay di Padova, la prima volta che ho scelto di non nascondermi, dal momento del mio coming out privato, poi pubblico, infine politico. Nella Casa Arcobaleno all’inizio c’era dell’imbarazzo, perché io ero il parlamentare e loro giovani persone allo sbando. Ma io stesso sono stato una giovane persona allo sbando, e ho portato la memoria di quello sbando in Parlamento. Hanno iniziato a raccontarmi le loro storie di dolore e per me sono stati uno specchio, perché la loro sofferenza poteva essere la mia. Siamo concittadini di discriminazione, avevamo storie e percezioni in comune. Io, però, sono stato fortunato. I miei genitori non mi hanno mai cacciato di casa, né mi hanno picchiato. Ho avuto il privilegio di poter andare via da Mestrino e da Padova, trascorrere un periodo all’estero, per incubare al sicuro e senza minacce la mia vita futura.
Ma il confine tra la loro storia e la mia è molto sottile. Il passo dal non essere discriminato a esserlo dura un attimo, potevo attraversarlo senza rendermene conto anch’io, nell’Italia di vent’anni fa, o nell’Italia di oggi. L’inquietudine diventa paura in un istante, quando una persona gay o trans decide di rivelarsi e vivere libera. È questo che combattiamo, la mia è la lotta di generazioni di attivisti che in Parlamento hanno cercato per decenni di scrivere una legge contro i crimini d’odio.
2

L’emancipazione del Televideo

Come tanti omosessuali italiani, anche per me il processo per diventare una persona adulta è passato da un atto di rottura con la mia famiglia d’origine. Non dimenticherò mai quanto sono stato fortunato, perché quella rottura è stata dolorosa, ma non traumatica, strappo e non ferita. Non è stata precoce, ma è arrivata quando avevo ancora un’intera esistenza da costruire. Sono cresciuto in una famiglia tradizionale, ma ho avuto il privilegio di non perdere tutto quando ho detto al mio mondo di essere omosessuale. La vita ha traiettorie strane, la mia è stata comunque una fuga, e il luogo che più ha accelerato la mia crescita è una città industriale nel Nord dell’Inghilterra. Anni dopo, nella terribile notte della Brexit, Sunderland fu l’inizio della crepa del Leave. Ci ero arrivato alla fine degli anni ‘90; a quel tempo, come si dice, ero ragazzo, uno studente di ingegneria, appassionato di matematica e di politica, avevo pochi soldi, l’aereo me l’avevano pagato i parenti con una colletta, senza sapere che la destinazione finale non sarebbe stata solo un proficuo percorso di apprendimento dell’inglese ma anche un turbolento coming out. Ero soprattutto, come tante persone con una storia come la mia, un essere umano pieno di segreti, avvelenato dai segreti.
Negli anni ‘80, prima di Sunderland e del coming out, non c’erano i social, non c’erano i Pride, c’erano al massimo i video dei Culture Club per sperimentare almeno un vago senso di riconoscimento. La prima e più basilare forma di discriminazione per un ragazzino come me è la non collocazione. Nessuno sa cosa sei e quindi dove metterti. In fondo, spesso non lo sai nemmeno tu. Alla scuola media non avevo ancora formulato l’idea di essere gay, ma sapevo con certezza di essere una persona non conforme. I miei compagni non sapevano cosa farsene di me, io non sapevo cosa fare di me stesso. Si sentiva che ero diverso, ma né io né loro sapevano formulare un perché. Il mondo era un sistema chiuso senza una sedia per me. L’omosessualità era un vago e lontano tabù, avevo una cotta per il mio compagno di banco, che stava tranquilla e al sicuro nel silenzio della mia testa. Non sapevo niente del mondo che mi aspettava ma ne sapevo abbastanza da capire che se ne avessi parlato avrei ricevuto eterna derisione, esclusione, probabilmente dei pugni.
Prima di scoprire la passione per la matematica e la fisica che avrebbero fatto di me uno studente di ingegneria delle telecomunicazioni, ero attratto dalla creatività, dal disegno, dall’espressione, come di solito si è attratti da quello che non si ha: così frequentai l’istituto d’arte. In quegli anni imparai la parola gay e il fatto che il mondo in cui vivevo non aveva uno spazio nel quale potessi trovarmi perché era concepito, pensato, costruito a misura di giovane eterosessuale. «Eteronormativo», avrei detto da adulto. Tutti intorno a me avevano un amore, delle relazioni, la scoperta degli altri che si fa a sedici anni, mentre io rimanevo un estraneo, un passeggero di terza classe, senza cabina e senza voce.
Nel grande disegno della vita succede di perdersi l’adolescenza, per i motivi più diversi: carattere, salute mentale, problemi sociali o familiari. Io persi la mia perché ero gay e i gay in Italia negli anni ‘80 e ‘90 avevano un solo compito, molto preciso, da interpretare a piacere: nascondersi.
A diciotto anni, con la maturità in vista e un futuro nel più ottimista dei casi incerto e nebuloso, non ne potevo più di vedere la gente...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. SENZA PAURA
  4. 1. Il paese civile che ancora non c’è
  5. 2. L’emancipazione del Televideo
  6. 3. La montagna da scalare
  7. 4. La bussola dei diritti
  8. 5. La città dei diritti
  9. 6. L’amore come atto di cittadinanza
  10. 7. Educazione democratica
  11. 8. La trasformazione digitale delle lotte
  12. 9. La sottile linea arcobaleno
  13. 10. I ragazzi stanno bene
  14. 11. Per te
  15. 12. Epilogo
  16. Ringraziamenti
  17. Bibliografia
  18. Copyright