Quando nacqui ero piccolo piccolo.
Che scoperta, direte voi. Quando nasci sei uno scricciolo di tre chili, ovvio… Eh no! Io ero molto più piccolo, ero così piccolo che mio padre poteva tenermi in una mano sola! Poi, intendiamoci, non che lo facesse, altrimenti mia madre chi l’avrebbe sentita. Il punto è che ero nato prematuro ed ero minuscolo: c’è una foto di quei giorni dove mio padre mi tiene sollevato e sembra la scena di apertura del Re Leone: ogni volta che la vedo mi vien da ridere!
Mia madre dice che non la smettevo di muovermi: ero una specie di trottola che agitava sempre le gambette! Mi chiamavano Pantani, come il ciclista.
Però, dopo un po’ di tempo, mia madre si rese conto del fatto che qualcosa non andava esattamente come doveva: avevo sei mesi e le mie gambette erano deboli, troppo deboli. Allora i miei mi portarono a fare le prime analisi e dopo qualche mese mi diagnosticarono l’atrofia muscolare spinale, conosciuta anche come Sma.
Questa malattia colpisce le cellule nervose che trasmettono i comandi ai muscoli. La conseguenza è che i muscoli del corpo, con il passare del tempo, si indeboliscono sempre di più, fino a paralizzarsi. La Sma può avere diverse forme, a seconda della gravità. La mia è di tipo 2, che è una via di mezzo. Posso dire di essere stato fortunato, perché non è la più grave!
Ero una specie di trottola
che agitava sempre
le gambette!
Mi chiamavano Pantani,
come il ciclista.
In ogni caso, in quel momento, mia madre e mio padre rimasero colpiti dalla notizia, e ne soffrirono molto. A differenza della distrofia muscolare, che è una malattia genetica più comune, la Sma – soprattutto in quegli anni – era piuttosto sconosciuta: il gene che la causa era stato identificato solo nel 1995, pochi anni prima della mia nascita. In Italia i medici che sapevano come riconoscerla e trattarla erano pochi, così spesso capitava di dover fare lunghi tragitti in macchina. I primi anni li passammo così: per tutto ciò che riguardava la respirazione andavamo a Bologna, dal dottor Villanova, per la ginnastica invece a Reggio Emilia, dalla dottoressa Lodesani.
Per me, quando fui abbastanza grande per capire, non fu affatto un trauma, perché quella era sempre stata la normalità. Anzi, a dirla tutta con la Sma io ho un bellissimo rapporto: ho imparato ad accettarla e a vederla non come una debolezza, ma come un punto di forza. Per esempio la prima cosa di cui mi sono accorto da bambino è che passavo sempre davanti a tutti! Non facevo nessuna fila ed ero sempre un po’ raccomandato!
A tre anni iniziai ad andare all’asilo.
Non lo ricordo come uno shock, non ci fu nessuna scena di distacco fra me e i miei genitori, come quelle che si vedono spesso in questi momenti. Forse perché l’asilo era proprio sotto casa mia e per andarci mi bastava prendere l’ascensore. Praticamente non dovevo quasi uscire di casa! E poi fra tutti i bambini ero l’unico che di pomeriggio non era obbligato a fare il sonnellino pomeridiano. Così, mentre gli altri dormivano, io avevo tutti i giochi per me: i miei preferiti erano i modellini degli escavatori, quei mezzi gialli cingolati con un grosso braccio meccanico che si usano per scavare le fosse. Noi in dialetto li chiamiamo “pachere”: ricordo che ce n’era uno radiocomandato fantastico.
Insomma, da piccolo mi piaceva giocare con la sabbia e fare delle buche. A quei tempi avevo più forza nelle mani di quanta non ne abbia adesso, e allora quando giocavo con gli altri bambini si faceva sempre la gara per vedere chi riusciva a scavare la buca più profonda. Ci mettevamo lì, nel cortile dell’asilo, uno accanto all’altro, ognuno con la propria paletta, a scavare come dei forsennati. Se andavi abbastanza a fondo, la terra da marrone chiaro diventava rossiccia, e ogni manciata di terra rossa che tiravi su ti avvicinava alla vittoria!
In quel periodo avevo già la mia carrozzina elettrica, ma all’asilo le maestre non me la lasciavano usare, perché temevano che potessi investire o far del male per errore agli altri bambini. Ma che ne sapevano! Io quella carrozzina la guidavo già alla perfezione! L’unico incidente ci fu proprio quando una maestra, per spostare la mia carrozzina elettrica, la accese e provò a manovrarla: finì dritta contro una vetrata che si ruppe in mille pezzi! Sinceramente ero quasi soddisfatto: ben le sta, mi sono detto!
Per ovviare al problema, mio padre mi costruì una carrozzella alternativa, che era una specie di asse di legno con tre ruote, che io spingevo aiutandomi con le braccia. Che fatica, preferivo quella elettrica!
Vi ho già detto che ho la testa dura, giusto? Ecco un esempio: ricordo che all’asilo ognuno aveva il suo asciugamanino personale, e per aiutarci a distinguerli le maestre ci fecero colorare una figurina che poi avremmo incollato al nostro asciugamano. A me capitò uno gnomo, e dovevo colorarlo di blu. E la cosa non mi piaceva per niente, visto che non amavo né gli gnomi né il blu. Il mio colore preferito era il giallo, così mi misi in testa che se proprio dovevo avere quello gnomo, almeno sarebbe stato giallo. Le maestre, però, non chiedetemi il perché, volevano che lo colorassi di blu. Ma non c’era verso di convincermi: arrivarono pure a chiamare mia madre, ma io fui irremovibile. Finì che me lo colorarono loro!
Insomma, ero un bel rompiscatole, ed ero pure una specie di capetto: avevo un sacco di amici e avevo pure la fidanzata, che si chiamava Daiana. Ero in ottimi rapporti con tutti, però il mio migliore amico era Daniel: all’asilo passavamo tutte le mattine insieme e spesso capitava che ci vedessimo anche di pomeriggio. Già a quell’età lui era altissimo, una specie di gigante. Era anche molto timido e silenzioso, mentre io ero piccoletto e non stavo mai zitto: praticamente eravamo la coppia perfetta!
Un altro momento che ricordo con piacere era il pranzo, c’era una cuoca che si chiamava Piera ed era bravissima. Il nostro era un asilo piuttosto piccolo, non eravamo nemmeno cinquanta bambini, così l’atmosfera – e i sapori – erano quelli di casa. Ricordo un piatto che noi bambini chiamavamo “carne grigia”, che era buonissimo. Immagino che fossero delle scaloppine, anche se non ne sono proprio sicuro. Poi c’era una minestra con i crostini spettacolare: io non sono mai stato un grande fan della minestra, ma quella mi piaceva un mondo.
Io con la Sma ho
un bellissimo rapporto:
ho imparato ad accettarla
e a vederla non come
una debolezza, ma come
un punto di forza.
Il giorno migliore del periodo dell’asilo me lo ricordo benissimo ancora oggi: fu quando con la scuola andammo a visitare il parco delle Cornelle, a Bergamo. Questa struttura è una specie di zoo all’aperto, un posto pieno di animali esotici, creature che in Val Camonica non si incontrano tutti i giorni, ecco.
Qualche giorno prima della nostra visita, nel parco era nato un cucciolo di tigre bianca: era un evento speciale, perché è un animale rarissimo. Quando i ragazzi dello zoo mi videro, decisero di farmi un regalo enorme: mi misero il cucciolo fra le braccia! Potevo toccarlo e coccolarlo e per me fu un momento indimenticabile: avevo vicino a me questa creatura stranissima che non avevo mai visto nemmeno in fotografia. Intorno a me c’erano tantissimi bambini che volevano prenderlo in braccio, ma l’unico a cui permisero di farlo ero io. Mi sentivo super importante, ero troppo contento!
Tra i bambini arrabbiati c’era anche mia sorella Sophie. Poveretta, me la ricordo in un angolo che teneva il muso, perché a me lasciavano coccolare il tigrotto e a lei no. Capito, no? Con la mia malattia e la carrozzina rimediavo sempre qualche attenzione in più!
E insomma, gli anni dell’asilo passarono velocemente, e non ho tanti altri ricordi, a parte il fatto che l’ultimo anno potei usare la mia carrozzina elettrica, che era una Pegasus di colore blu. Quello fu il mio primo vero bolide: raggiungeva la strabiliante velocità di cinque chilometri orari! La guidavo davvero bene e a me sembrava velocissima. Quando passavo a tutta birra negli spazi stretti c’era sempre qualcuno che si spaventava!
Ma in quegli anni non c’era solo l’asilo, l’ascensore, i compagni. C’era la montagna.
Chi come me è cresciuto in una valle sa che la montagna è una presenza speciale. La senti vicina, così vicina che a volte ti sembra quasi di percepirne il respiro. La montagna fa parte della vita di tutta la mia comunità. Fin da quando sei piccolo, soprattutto quando arriva la bella stagione, la tua famiglia ti porta a passeggio nei sentieri, nei boschi e in mezzo alle rocce: fai delle salite che sembrano non finire mai e poi ti fermi un attimo per prendere il respiro, ti giri e dietro di te vedi un panorama mozzafiato: la strada che attraversa la valle, le macchine che si muovono minuscole. E poi il cielo terso, di un azzurro profondo, le vette innevate che continuano a perdita d’occhio fino alla fine dell’orizzonte. Poi ti concentri e riesci anche a vedere la tua casa: sembra quasi un giocattolo!
Io quei sentieri li percorrevo sopra uno zaino che mio padre aveva comprato apposta per me: se lo metteva sulle spalle e via! I ricordi e le immagini che ho di quel periodo sono piuttosto sfocate perché ero molto piccolo, ma i panorami meravigliosi sono sempre lì, a ricordarmi quei bellissimi momenti.
Mi rivedo quando con il papà e la mamma, arrivati a milleottocento metri di altitudine, ci fermavamo per tirare il fiato. Si poteva sentire forte l’odore della pineta, vedere le farfalle e gli insetti volare sui prati, le api muoversi da un fiore all’altro. E noi ce ne stavamo seduti sopra una pietra, a mangiare i mirtilli selvatici. Avevano un sapore speciale!
Quante giornate passate in mezzo alla natura! Per me quelli erano momenti magici, e ogni volta che mi affaccio alla finestra mi sembra di riviverli, sempre come se fosse la prima volta.
Così, per i primi anni della mia vita, le escursioni sulle spalle di mio padre erano una piacevole routine. Poi, giunto più o meno all’età di 20 chili (che corrispondevano più o meno ai miei sei anni ahahah!) mio padre si arrese al fatto che portarmi sulle montagne in quel modo stava diventato troppo faticoso. Anche perché la mia carrozzina era un mezzo fatto per andare su strade piatte e regolari, oppure per muoversi fra i mobili di un appartamento, non certo per andare sui sentieri sterrati… figuriamoci per affrontare le salite di montagna!
Insomma, ci serviva una carrozzina diversa, qualcosa di più avventuroso, ecco! Un mezzo che non temesse le buche, i passaggi ripidi, il terreno sconnesso e gli avvallamenti... qualcosa capace di scalare le montagne! In quel momento non sapevamo nemmeno se un mezzo di quel tipo esistesse…
La montagna è una
presenza speciale.
La senti vicina, così vicina
che a volte ti sembra
quasi di percepirne
il respiro.
La risposta arrivò grazie all’Asamsi, un’associazione che promuove lo studio delle Atrofie Muscolari Spinali infantili (Sma) e che riunisce tanti ragazzi con disabilità e le loro famiglie. Mia madre si trovava infatti nella loro sede quando incappò nel dépliant di un’azienda toscana che sembrava fornitissima, e che aveva carrozzine di ogni tipo. I miei non ci pensarono nemmeno un secondo: ci mettemmo tutti e tre in macchina e partimmo alla volta di Firenze: cinque ore di autostrada!
Io, che nel frattempo avevo messo per un attimo da parte la mia mania per le pachere (vi ricordate, no? Gli escavatori!) stavo iniziando a concentrarmi sulle automobili.
La passione è nata sull’autostrada: durante i viaggi che facevo con i miei genitori per andare alle visite mediche di controllo. Erano tragitti lunghi, che a volte richiedevano anche tre o quattro ore. Io stavo seduto davanti accanto a mio padre che guidava, mia madre stava sui sedili posteriori. E un giorno, proprio per passare il tempo, mio padre iniziò a elencare le marche delle automobili che ci passavano di fianco. Quella è una Citroen, quella una Volskwagen, quella una Renault, e così via. E io, poco a poco, le...