Ottone. Il primo dei Visconti
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Ottone. Il primo dei Visconti

  1. 480 pagine
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Ottone. Il primo dei Visconti

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UNA CITTÀ PRONTA A RIBELLARSI AL SUO SIGNORE.
UN UOMO DI DIO DISPOSTO A TUTTO PER OTTENERE CIÒ CHE GLI SPETTA.
LA NASCITA DEL POTERE DEI VISCONTI, I PADRONI DI MILANO. Un romanzo storico appassionante e magistralmente costruito che ci rimanda la figura di un uomo oltre che di un simbolo, dove la fragilità e l'umanità sono proprio lo spunto per farne emergere la grandezza. A.D. 1262. Dalle mani di papa Urbano IV, Ottone Visconti riceve finalmente il pastorale di arcivescovo di Milano e, con esso, la cattedra ambita e ricchissima di sant'Ambrogio. È il coronamento di una vita di intrighi e menzogne, che Ottone ha condotto al fianco del diabolico cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Ma c'è chi non vede di buon occhio questa investitura: i potenti guelfi della Torre irrompono armati in chiesa al termine della consacrazione. Sono loro a dominare sulla città meneghina, e non intendono rinunciare allo scranno vescovile nemmeno a costo di disubbidire al papa. Ottone, esiliato dalla città che dovrebbe guidare come arcivescovo, comprende di avere solo una via per ottenere ciò che gli spetta: radunare con l'astuzia e la diplomazia tutti i nemici dei della Torre e prendersi Milano con la forza.Nel corso dei quindici lunghi anni di conflitto riemergono i ricordi del passato del Visconti: la sua giovinezza nel monastero di Piacenza tra fughe rocambolesche, i primi amori e le severe punizioni per il rifiuto dell'autorità. L'incontro con il cardinal Ubaldini, eminenza grigia della sua epoca, che indirizza l'originaria vocazione di Ottone verso una carriera di sottigliezze, ricatti politici e tradimenti, sullo sfondo di un amore tormentato. Ma tra guerre continue, sangue versato per ambizione e una crescente solitudine, Ottone dovrà iniziare a fare i conti anche con sé stesso, e solo un gesto di vero coraggio gli permetterà di comprendere per quale motivo stia affrontando quella lotta, e decidere se ne valga davvero la pena.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858525937

TOMO QUINTO

36

OTTONE ARCIVESCOVO

Gorghi e rimorsi

Sette anni dopo l’allontanamento di Pelavicino,
lunedì 10 aprile 1273
Palazzo dei Bunej, Asti

Ottone allungò le dita verso la scarsella legata al polso, in attesa che i crampi allo stomaco si attenuassero. L’incertezza di quegli anni senza un pontefice eletto lo stavano corrodendo da dentro. Quanto ci mettevano quei balordi di cardinali a scegliere il successore di Clemente IV? Il papa era un tassello fondamentale per portare avanti i suoi piani; senza qualcuno a cui appellarsi, i suoi progetti per Milano erano in stallo.
Fuori dalla finestra, piccoli come formiche, manovali astigiani completavano il merlato per sopraelevare il grosso torrione che la famiglia Troya aveva comprato una manciata di anni prima, quando lui aveva stabilito lì la sua dimora.
Se avessero continuato a esibire così le loro ricchezze, i Troyani ne avrebbero fatto la torre più alta della città. Conveniva decidersi a fissare un incontro con loro, un giorno o l’altro. I banchieri danarosi erano sostenitori utili. E poi vedere gente operosa gli regalava un certo senso di soddisfazione, benché esso svanisse non appena la sua mente tornava ad affrontare la propria torre personale. Un torrione che, per quante mosse facesse, non riusciva mai a conquistare.
Luccio bussò, affacciato alla porta semiaperta.
«Eccellenza, avete preso la triaca?»
Ottone scosse la mano. «Non la voglio, quella porcheria. M’annebbia la mente.»
«Il medico fisico mi ha chiesto di verificare che la prendiate con regolarità.»
Ottone si staccò dalla finestra con un sospiro. Un rigurgito acidulo gli risalì la gola.
«Va bene, va bene, la prendo.»
Luccio rimase sulla porta, in attesa.
Ottone tornò alla sua scrivania, raccolse nel palmo qualche grammo del costoso impiastro veneziano e lo gettò in una coppa di vino di Falerno. Bevve: lo sterco che aveva ingurgitato da giovane nel tafferuglio di Milano aveva un sapore migliore. Pregò che almeno gli calmasse un poco il dolore. «Contento? Ora lasciami solo.»
«Sarebbe meglio che ora riposaste, eccellenza» disse Luccio.
Non si scoraggiava mai; Ottone gli aveva spianato la strada per fare un po’ di carriera, ma l’attendente aveva espresso il desiderio di restargli accanto. Anche lui aveva perso la famiglia per mano dei Torriani.
«Finisco di leggere la corrispondenza, poi mi riposerò un poco.»
Rimasto solo, recuperò l’ultimo ricciolo di pergamena, lo srotolò e lo rilesse.
Il giorno ottavo di maggio, Oberto Pelavicino muore a Gisalecchio presso Pontremoli.
Il messaggio non diceva altro. Nessun accenno alle circostanze della morte, né alla sorte di Sofia.
Ottone accartocciò la pergamena e chiuse gli occhi.
Lo stomaco riprese a dolergli. Ormai non gli dava mai tregua. Era come avere minatori dentro le viscere, minuscoli come i carpentieri della torre alla finestra. Gli scavavano dentro la carne e gliene strappavano piccoli pezzetti ogni giorno.
«Coraggio, triaca. Fa quel per cui ti pago. Placa il mio inferno.»
Come se non bastasse il nero pozzo di incubi che ogni notte lo inghiottiva. La galleria lastricata di teschi, che echeggiava delle urla di furia del Pelavicino, rientrato ad Asti dopo l’esautorazione. Lui aveva lasciato che se ne occupasse Squarcino e s’era nascosto con una scusa, come un vigliacco. Non aveva avuto il coraggio di affrontare il suo ex generale, né di ammettere di essere venuto meno all’impegno di reciproca fedeltà.
E adesso era morto, rintanato in uno dei suoi ultimi, piccoli poderi che non erano stati divorati dalle burrasche politiche che si agitavano in ogni angolo d’Italia.
Chissà cosa stava facendo Sofia? Aveva davanti a sé anni difficili. Almeno lei l’aveva affrontata. L’aveva guardata in faccia un’ultima volta e aveva incassato gli insulti che meritava. Perderla aveva aggravato tanto la sua salute quanto il suo umore.
Gettò il lacerto di pergamena tra le braci del caminetto. I bordi si arricciarono lentamente e divennero neri.
La guerra contro i Torriani era un altare oscuro, su cui aveva sacrificato tutto. Aveva senso proseguire per quella strada? Non stava sprecando quel che restava della sua vita dietro a una chimera irraggiungibile? Ubaldini gli aveva scritto di pazientare finché i tempi fossero favorevoli al loro disegno, ma le sue rughe aumentavano senza buone novelle, né da Milano né da Roma.
Si sedette allo scrittoio e si prese la testa tra le mani.
Il suo animo era alla deriva. Senza timone, senza destinazione e senza neanche più vele che potessero imbrigliare il vento. E quel che era peggio era che le armi della razionalità non gli erano di alcun ausilio.
Bussarono di nuovo alla porta.
«L’ho presa la triaca.» La voce gli uscì spossata.
Basta. Voleva solo che tutto scomparisse, che tutti i pensieri se ne andassero. Quando iniziava l’effetto di quella dannata medicina?
I colpi alla porta si ripeterono, più forti. «Eccellenza, avete una visita.»
«Non voglio incontrare nessuno.» Si passò una mano sulla faccia. Era bagnata? Si sfregò i polpastrelli, si sfiorò di nuovo gli zigomi. Aveva iniziato a piangere; non se ne era accorto...
«Un uomo chiede di vedervi con insistenza. Dice che è un vostro vecchio conoscente e che deve dirvi qualcosa di estrema importanza.»
Che seccatura!
S’asciugò con furia le lacrime. Nessuno doveva vederlo debole, mai. S’alzò dallo scranno, la schiena gli diede una lieve fitta. Marciò alla porta con ampie falcate e la spalancò.
Accanto a Luccio, un passo indietro, c’era un uomo magrissimo con gli occhi appesantiti da borse scure, i capelli scarmigliati e il naso rotto di chi ne ha prese tante. Ci mise un lungo istante a riconoscerlo.
«Niccolò... Faroldi?»
Il suo amico d’infanzia sorrise a labbra chiuse. Una vita prima, Napo della Torre gli aveva tagliato la lingua per darla in pasto a un rapace. Quanto tempo era passato? Non l’aveva più veduto da allora...
Perché ricompariva adesso? Il timore serrò l’inguine di Ottone. Cosa doveva dire? Cosa si poteva dire a uno a cui hanno mozzato la lingua per colpa tua?
Finalmente, gli ingranaggi della sua mente si rimisero in moto.
«Vieni, Niccolò.» Afferrò lo schienale di una sedia e la trascinò di fronte al camino. «Siediti qui, riscaldati al fuoco.»
Il muto gli prese la mano e baciò l’anello vescovile. «Lieto di rivederti.»
Ottone sussultò e fece un balzo indietro. «Che stregoneria è questa?» Era forse uno spettro, venuto a perseguitarlo? Dannata triaca, gli aveva mandato in poltiglia le cervella.
L’amico si sedette e avvicinò i palmi alle braci. «Incredibile, vero? Ho recuperato la parola.» La sua voce era strana; pronunciava la ti come se fosse una effe. Ma si comprendeva in modo abbastanza chiaro.
«Com’è possibile? Napo della Torre...»
Niccolò si crucesignò. «Un miracolo, Ottone. Nostra Signora di Oropa mi ha ridato la voce, affinché ti portassi un messaggio.»
Ottone inarcò un sopracciglio. I miracoli non esistevano. Lui lo sapeva bene.
«Adesso ti racconterò la mia storia prodigiosa, che ha avuto luogo la scorsa estate.» Faroldi guardò il fuoco del camino. «Sai, a quei tempi m’ero dato al brigantaggio.»
37

NICCOLÒ

Miracolo a Oropa

L’anno prima, venerdì 26 agosto 1272
Monte Mucrone, Biella

Niccolò s’inginocchiò accanto al cespuglio di rovi, strappò un pugno di more e se le mise in bocca. Erano striminzite e acidule. Fortuna che con il mozzicone di lingua sentiva meno di un tempo quel tipo di sapori. I gorgoglii e i brontolii del suo stomaco suonavano come insulti.
Dal sentiero venne uno scalpiccio di zoccoli; si sistemò in testa il berretto di tela logoro e sbirciò tra i rami di un nocciolo. Una piccola carovana era appena comparsa nella strozzatura tra le coste della montagna, e si dirigeva verso il passo dell’appostamento. In testa c’era un carro con alte sponde di legno, coperto da un telo. Non aveva insegne nobiliari, ma il postiglione indossava un verdello nuovo e il ragazzo che tirava il mulo era ben pasciuto.
Quella era gente gonfia di danari, abituata a dormire su materassi asciutti e a mangiare carne almeno due volte a settimana. Le fitte allo stomaco s’acuirono: anche lui era stato ricco, almeno in gioventù, e aveva vissuto con dignità finché quel demonio di Napo della Torre non aveva decapitato entrambi i suoi fratelli nel Febbraio di Sangue e l’aveva esiliato senza una moneta in tasca. Nei boschi, Carluccio e Rigoberto l’avevano fermato per rapinarlo, ma si trovava in uno stato così pietoso che avevano finito per prenderlo con sé nella loro banda. E anche se detestava l’inutile violenza di quei bruti, in qualche modo insieme a loro era riuscito a tirare avanti.
Abbandonò quei ricordi amari e si concentrò sulla carovana. Niente guardie, a conferma che non si trattava di nobili; dovevano essere citrulli di Favaro arricchiti dalle cave di serpentina, proprio il tipo di preda che lui e gli altri stavano cercando. Un colpo semplice: vestiti, vettovaglie, magari un po’ d’argento.
Prese da terra un sasso, lo lanciò nel bosco dall’altra parte della strada e attese. Dopo un paio d’avemarie risuonò il verso dell’upupa.
Era il segnale. Carluccio e Rigoberto erano pronti per il colpo.
Niccolò cavò il pugnale dal fodero, attese ancora un istante e si lanciò giù dal pendio verso la strada, con un grido rauco e sgraziato.
I due briganti comparvero tra i tronchi lì di fronte e si gettarono sul nocchiero, che si ritrovò con un pugnale in pancia. Il giovane impietrì e lo guardò con la bocca spalancata. Mollò il morso del mulo e schizzò giù per la strada da cui erano arrivati, urlando: «Eccoli, eccoli!».
I cavalli sbuffarono e si fermarono in mezzo al sentiero, nervosi. Dietro il carro, un pastore con un piccolo gregge di pecore arretrò mostrando i palmi, a segnalare di non volerli intralciare.
Bene, il grosso era fatto. Niccolò rinfoderò il pugnale e saltò sulla sponda del carro. Sollevò il telo e sbirciò cosa c’era sotto.
Si trovò faccia a faccia con un uomo barbuto, con un elmo a calotta sui capelli unti e una balestra carica in mano.
Trasecolò con un lamento rauco e balzò all’indietro. La balestra scoccò, il dardo lo mancò per un soffio.
«Giù le armi, feccia!» Il telo si scostò all’improvviso, rivelando i busti di quattro balestrieri con armature raffazzonate.
«La milizia!» Rigoberto afferrò Niccolò e lo spinse indietro. «È una trappola!»
Altri due schianti di dardo, che per mirac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. OTTONE
  4. TOMO PRIMO
  5. TOMO SECONDO
  6. TOMO TERZO
  7. TOMO QUARTO
  8. TOMO QUINTO
  9. TOMO SESTO
  10. Postfazione
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright