Fake Sud
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Fake Sud

Perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d'Italia

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d'Italia

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« Un'inchiesta di straordinaria efficacia che offre uno sguardo inedito, e drammatico, sul gioco degli interessi politici e dei meccanismi decisionali nell'Italia di oggi ».
Alessandro Barbero Nel Mezzogiorno arrivano troppi soldi, che alimentano sprechi e inefficienze. Dipendenti pubblici in eccesso e scarsa voglia di lavorare, maggiore evasione fiscale e minor costo della vita: di fatto il Sud vive sulle spalle del Nord. Convinzioni diffuse anche fra molti meridionali, ma false, fake. Bufale vecchie e nuove che in questo libro Marco Esposito smaschera una per una grazie a un impressionante repertorio di dati, storie e documenti.
Ci sono due Fake Sud: quello infido, sprecone e fannullone accusato di ricevere (mai visti) fiumi di sussidi e di rallentare le aree più produttive del Paese, e quello di chi - per reazione - alimenta un orgoglio inconcludente e vittimistico e si inventa una terra di impareggiabile ricchezza derubata dopo la feroce invasione piemontese del 1861. Ma poi c'è anche il Sud reale, in cui dilagano disoccupazione ed emigrazione, la sanità è sempre a corto di personale, i comuni non hanno soldi per i servizi, i fondi europei sono usati per compensare i tagli ai finanziamenti ordinari e l'alta velocità ferroviaria si è (letteralmente) fermata a Eboli. Perché i pregiudizi non sono innocenti, sono serviti a giustificare scelte politiche devastanti per il Mezzogiorno.
Ci sono due Italie che si accusano a vicenda mentre tutti affondiamo: è successo anche durante la pandemia di Covid-19. Fake Sud è un appello a far valere i fatti, e i fatti certificano che siamo diventati un Paese sempre più stagnante e diseguale. Ma negare il treno a Catanzaro, l'asilo nido a un bimbo di Altamura, le cure vicino a casa a un malato casertano non è un danno che si fa alla Calabria, alla Puglia o alla Campania. È una menomazione del sistema Italia, che annaspa anche per questo. E stavolta non è una fake news.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858525371
PRIMA PARTE

IL RAZZISMO STRISCIANTE

1

La sfida della sanità

#Milanononsiferma

Il primo malato italiano di coronavirus spunta fuori in un giorno che sembra scelto dalla cabala: 20 02 2020. In un libro complottista potremmo giocare con le cifre e segnalare come quel ripetersi di 0 e di 2 evochi sia il prefisso di Milano sia quello di Wuhan, prova che la pandemia di origine cinese è stata programmata a tavolino per colpire in quel giorno il cuore del sistema produttivo italiano nel modo più devastante. Buffonate. In realtà il primo caso tricolore di un virus che fa il tour del mondo può essere diagnosticato, come è stato, a Codogno, città di madrigali e villanelle. O a Melpignano, città di pizzica e taranta. O in uno degli altri 7912 comuni italiani. In Lombardia, in Puglia o altrove. Non è un primato, non è una colpa. Non è neppure una sorpresa: il 31 gennaio il governo italiano aveva dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria per la pandemia, fino al 31 luglio 2020. E però il fatto che tutto inizi lì, il 20 febbraio, coinvolgendo anzi sconvolgendo Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna assume subito un significato territoriale: sono le tre regioni che con il progetto di autonomia differenziata formalizzato nel 2017 vogliono dimostrare che far da soli nella sanità – così come nell’istruzione, nella tutela dell’ambiente, nella manutenzione delle autostrade e tanto altro – sia meglio per loro e per tutti.
Non si sa, e non sapremo mai, come si sia infettato il trentottenne Mattia Maestri, il paziente 1. In compenso le ricostruzioni dei cronisti sono ricche di dettagli: il 14 febbraio ha la febbre e cancella la prenotazione al ristorante per la cena di San Valentino per la doppia festa con la moglie, Valentina. Sabato 15 Mattia si sente meglio, va a un corso di formazione alla Croce Rossa di Codogno e poi il pomeriggio torna a uscire – sotto lo sguardo corrucciato della consorte, immagino – per andare alla partita di calcio del campionato amatori eccellenza di Cremona. Domenica riprende quella che sembra la solita influenza. È stato a cena a inizio mese con un amico tornato dalla Cina, ma non gli viene in mente che possa essere stato contagiato, anche se da settimane non si parla d’altro e in Italia c’è una coppia di turisti cinesi ammalata, atterrata a Malpensa prima del blocco dei voli e ricoverata allo Spallanzani di Roma. Mattia peggiora. Il 17 non va al lavoro. Il 18 febbraio si reca al Pronto soccorso dell’ospedale di Codogno dove gli fanno una radiografia da cui risulta un inizio di polmonite. Rientra a casa ma il 19 notte sta malissimo, torna in ospedale ed è trasferito in rianimazione. Qui un’anestesista, Annalisa Malara, trentotto anni come Mattia, di fronte all’inefficacia delle cure pensa di «cercare qualcosa di impossibile». Per quella sua intuizione sarà premiata come Cavaliere al merito della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella. Giusto.
Ma perché Malara dice “impossibile”? Il suo racconto di quei momenti è raccolto da Giampaolo Visetti per «Repubblica» il 6 marzo. Una bella intervista, umana, da cui però emerge indirettamente l’impreparazione del sistema sanitario di fronte a una sfida che pure era annunciata. Che prima o poi si presentasse a un Pronto soccorso un malato di coronavirus con una polmonite in atto era prevedibile, con o senza occhi a mandorla. Malara però racconta: «Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso». Parte la richiesta del tampone anche se «i protocolli italiani non lo giustificavano», perché mancano i contatti con la Cina, nonostante Valentina racconti ad Annalisa della cena con il collega rientrato dal paese asiatico (il quale risulterà sano, ma questo non cambia il quadro). L’Azienda socio sanitaria territoriale autorizza l’analisi specificando che sarà l’ospedale ad assumersene la responsabilità. Il risultato arriva in serata, alle 20:30. Nel frattempo l’anestesista e i tre infermieri del reparto indossano le protezioni suggerite per il coronavirus. Malara commenta: «Questo eccesso di prudenza ci ha salvato». Prima l’ipotesi “impossibile”, ora l’“eccesso di prudenza”: il racconto della protagonista svela le sue doti umane e professionali, ma pure le carenze del sistema sanitario in quel momento. E però non accade nella terra della pizzica o in una provincia calabrese, ma in Lombardia. L’inviato del giornale nazionale sa che si trova a raccontare una storia inserita in un contesto di efficienza, affidabilità, efficacia. E quindi il suo fiuto giornalistico non lo porta a cercare di capire, di approfondire i perché della risposta fredda della ASST o dell’assenza di un piano a Codogno come probabilmente altrove per far fronte all’emergenza. Per Visetti siamo di fronte a un «grande riscatto» degli «straordinari medici anonimi dei piccoli ospedali di provincia» e le sue domande sono del tipo: «Cosa insegna questa incredibile storia di coraggio scientifico?».
Ne ho viste tante in trentacinque anni di professione nei giornali e sono certo che se il virus invece che in Lombardia fosse spuntato in Calabria, e l’inviato di «Repubblica» invece che a Codogno fosse stato a Crotone, avrebbe trovato lo stesso un’Annalisa locale che a dispetto dei “protocolli italiani” e della freddezza dell’ASST aveva avuto l’intuizione di far effettuare il test, e però a fianco dell’elogio dell’individuo ci sarebbe stato spazio per la ricerca del cosa non ha funzionato, perché un giornalista inviato in Calabria sa che da lui ci si aspetta il racconto degli sprechi e delle inefficienze calabresi. Ma Codogno non è Crotone e la fiducia che tutti noi riponiamo nell’efficienza lombarda diventa un alleato del Covid-19.
La storia del coronavirus letta con gli occhi del Nord e del Sud offre una quantità incredibile di spunti, tra azioni e reazioni. Il primo episodio è immediato: venerdì 21 febbraio 2020. Il direttore del TgLa7 Enrico Mentana in un intervento a RDS nella rubrica 100 secondi con commenta l’arrivo dell’infezione. «L’emergenza coronavirus» dice in radio «oggi ha investito, e ufficialmente, il nostro paese nella maniera più devastante perché va a colpire oltre a tutto due zone grandemente popolate e importanti anche dal punto di vista economico del paese, nel pieno del Veneto i due casi ma soprattutto i quattordici a Sud di Milano». Parole diffuse nell’etere che sono ascoltate in diretta e pochi minuti dopo riportate a orecchio su Facebook così: «Il coronavirus sbarca in Italia nel modo peggiore. Peggiore perché colpisce aree fortemente avanzate dal punto di vista economico e situate al Nord Italia». Poche ore dopo l’affermazione è sintetizzata ancora e rilanciata in rete con un’immagine del giornalista e questo testo lapidario: «È un peccato che il coronavirus abbia attaccato la parte più produttiva del paese», attribuita a un intervento di Mentana al suo tg. La fake news è servita. Il giornalista il 23 febbraio denuncia alla polizia postale scrivendo: «Qualche miserabile ha postato sul web questo falso, aizzando altri miserabili e creduloni». La deformazione in effetti c’è e ha ragione Mentana ad arrabbiarsi.
Nessuno dovrebbe veder deformata una sua affermazione, però la frase esatta pronunciata da Mentana non è innocente: contiene in sé la premessa ideologica degli errori nella gestione dell’emergenza Covid-19. Quando Mentana sottolinea che un’epidemia che colpisce l’area di Milano è «più devastante» di altre, perché mette a rischio l’area economicamente più importante del paese, non fa una riflessione in sé razzista e tuttavia, di fronte a una malattia che uccide, introduce dei distinguo pericolosi. Chiudere un pezzo di Calabria per bloccare il contagio, così come Wuhan è stata isolata dal resto della Cina, ha un costo economico sopportabile, mentre per Mentana pensare di isolare aree economiche fortemente avanzate e «soprattutto» Milano sarebbe devastante. Una riflessione fatta a caldo e quindi perdonabile, se non fosse che proprio l’idea che Milano non possa fermarsi ha spinto a fare scelte dalle conseguenze drammatiche, che provocheranno più morti della battaglia di Caporetto.
Passano pochi giorni dalla scoperta del virus e, nonostante il numero di contagi e di vittime cresca rapidamente e superi da subito le due zone rosse istituite il 23 febbraio nel lodigiano in Lombardia e a Vo’ Euganeo in Veneto, scatta la reazione ai provvedimenti restrittivi con lo slogan #Milanononsiferma. In cinque giorni si passa da 20 casi diagnosticati e un morto a 453 casi e 12 morti, eppure il 26 febbraio, mercoledì delle ceneri, il sindaco di Milano Beppe Sala invita i cittadini a un aperitivo sui Navigli. Il governatore del Veneto Luca Zaia si preoccupa di confermare l’evento Vinitaly in calendario per aprile. Segnali di scarsa lucidità: pochi giorni dopo, il Vinitaly 2020, con uno sforzo di riprogrammazione, viene rinviato a giugno, per poi essere definitivamente annullato. Intanto però, sempre quel 26 febbraio, c’è una città in Italia in cui il sindaco chiude di sua iniziativa le scuole, ed è Napoli: Luigi de Magistris ordina una sanificazione straordinaria per «mettere in campo delle azioni di ulteriore prevenzione». Eppure a Napoli non c’è nessun contagiato e in tutta la Campania i casi sono tre.
La paura di danneggiare l’economia porta a fare scelte sconsiderate, detto con il senno di poi. Ma comportamenti così diversi a Milano e a Napoli dovrebbero far venire almeno il dubbio sull’utilità dell’invito ai Navigli, anche con il senno del momento. E invece giovedì 27 febbraio «Repubblica» non ha alcuna incertezza e racconta gli eventi del giorno precedente aprendo il quotidiano a tutta pagina per rilanciare e quindi fare proprio l’appello di Sala, con un titolo a caratteri cubitali di due parole: Riapriamo Milano. Anche il leader della Lega Matteo Salvini in un video chiede di riaprire tutto («musei, gallerie, palestre, discoteche, bar»). Il segretario del PD (e governatore del Lazio) Nicola Zingaretti quel giovedì si precipita nella capitale morale per farsi fotografare mentre prende l’immancabile aperitivo con i rappresentanti locali del partito. Il 7 marzo annuncia di essere positivo al coronavirus.
Ora si immagini per un minuto il sindaco di Napoli e il sindaco di Milano in una situazione simmetrica a quella reale: il 20 febbraio il virus è diagnosticato non a Codogno ma a Ceppaloni e ormai dilaga in Campania; cresce la conta dei morti e colpisce la notizia delle disdette che azzoppano la straordinaria cavalcata del turismo partenopeo; le visite al Cristo velato iniziano a diradarsi e la via dei pastori, San Gregorio Armeno, appare insolitamente vuota. Perciò il sindaco di Napoli reagisce e invita cittadini e giornalisti a riempire le pizzerie del lungomare perché #Napolinonsiferma. Nello stesso giorno, il suo collega di Milano, dove non c’è alcun caso diagnosticato, si preoccupa di chiudere preventivamente le scuole per una igienizzazione. Siamo sicuri che un qualsiasi giornale locale o nazionale avrebbe titolato Riapriamo Napoli? O avrebbe (legittimamente) manifestato un dubbio sull’estemporanea uscita del primo cittadino, magari segnalando il confronto con la prudenza milanese? È fin troppo facile immaginare che ci sarebbero stati commenti, interviste agli esperti e dibattiti in tv per criticare Napoli e ricordare che la Cina per fermare il virus ha chiuso un’area di sessanta milioni di abitanti per due mesi, per cui invitare i cittadini a riempire le pizzerie del lungomare è un modo per favorire i contagi.
Il Covid-19 si rivela astuto. Per moltiplicarsi non sceglie Napoli, dove sarebbe scattato un immediato cordone sanitario, ma Milano. Infatti Napoli sanifica le scuole come per riflesso condizionato di fronte a un rischio sanitario potenziale, mentre Milano fa cin cin con il Campari nonostante il pericolo reale. Il Covid-19 è astuto perché sa che di Milano e della Lombardia ci si fida. Ci fidiamo tutti e quindi sbagliamo tutti, non solo l’inquilino di Palazzo Marino. E mica per un giorno. Non soltanto l’iniziativa di Sala dell’aperitivo è rilanciata in apertura da «Repubblica» (ovvero l’appello a riaprire Milano rappresenta il fatto più importante al mondo, secondo il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari), ma quando il 4 marzo a situazione ormai degenerata con 3.087 casi e 107 morti il sindaco è intervistato, la stessa «Repubblica» non pone neppure mezza domanda su un eventuale ripensamento di quella iniziativa balorda. Sala, il 23 marzo in Rai da Fabio Fazio, ammette infine l’errore («forse ho sbagliato»), ma quell’errore (senza “forse”) non è soltanto suo: è di tutti noi non milanesi che, abbagliati dal modello Milano, in quei giorni non li abbiamo aiutati ad aprire gli occhi. Il giornale per il quale lavoro, «Il Mattino», il 29 febbraio racconta le scelte di Milano con partecipazione, perché se una cosa accade lì investe anche Napoli, e sottolinea come i creativi che hanno realizzato lo spot rilanciato da Sala siano napoletani.
Il tema toccato a caldo da Mentana, e sul quale scivola Sala nell’intontimento generale, trova la più drammatica rappresentazione a Bergamo. Per sollevare il velo su ciò che accade in quella provincia lombarda trascorre quasi un mese. La storia la racconta Francesca Nava, bresciana, classe 1987, il 17 marzo su tpi.it: Coronavirus anno zero, quel 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: così Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia; poi il 1° aprile ne scrive Davide Maria De Luca, veronese, classe 1985, su ilpost.it di Luca Sofri: Il disastro in Val Seriana. Solo in seguito arriva un’inchiesta addirittura a tre firme (Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini) sul «Corriere della Sera», pubblicata il 6 aprile, nonché una puntata di Report in onda lo stesso giorno. L’informazione online e i giornalisti di nuova generazione stracciano i veterani del mestiere.
I primi due casi nel Bergamasco sono diagnosticati tre giorni dopo Codogno, domenica 23 febbraio, su due pazienti ricoverati al Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, un pensionato e un camionista, ricoverati già da alcuni giorni. Proprio quella domenica scatta la zona rossa a Codogno e in altri undici comuni della provincia di Lodi. Ma ad Alzano Lombardo si segue una strada diversa. L’ospedale viene chiuso, i due pazienti trasferiti a Bergamo, quindi la struttura sanitaria riapre dopo poche ore senza una radicale sanificazione. Il 24 si fanno i tamponi al personale sanitario entrato a contatto con i due infetti da coronavirus.
Confindustria Bergamo diffonde il video Bergamo is running/Bergamo non si ferma in cui si minimizza il rischio epidemia. La Regione Lombardia spiega che non è necessario intervenire ad Alzano come si è fatto per Codogno. La Lombardia sta per infilarsi in un tragico tunnel e lo fa con la supponenza di chi è convinto di essere il primo della classe per cui passerà tutti gli esami con lode. Invece commette un errore dopo l’altro: non crea zone rosse nelle aree più colpite, non isola gli anziani nelle case di riposo, non riesce a separare i malati di Covid da quelli ordinari, non riesce a tutelare i propri operatori sanitari, non riesce a coordinare, per diverse settimane, il settore privato con quello pubblico, non riesce a eseguire tutti i tamponi che servirebbero.
Tanti, troppi errori. Del resto in una situazione straordinaria tutti possono sbagliare ed essere costretti a fare retromarcia. La Lombardia imbocca una strada pericolosa per la propria presunzione e perché è lasciata sola nei momenti delle scelte. Il governo nazionale è il primo a tentennare sulla zona rossa di Alzano e Nembro. Ma anche le istituzioni sanitarie, le altre Regioni, l’opinione pubblica, l’informazione si fidano della Lombardia, si fidano di Milano. Il presidente del Consiglio superiore di sanità è di Bergamo: Franco Locatelli. Se a fine febbraio avesse avuto il sospetto di una macchina sanitaria regionale incapace di fronteggiare la crisi avrebbe lanciato un allarme a tutela dei suoi propri concittadini.
Nel Mezzogiorno la sanità è in affanno quando deve curare i malati del territorio in tempi normali, per cui se il Covid-19 avesse aggredito il Sud sarebbe scattata un’immediata catena di solidarietà nazionale per limitare il pericolo, nell’interesse della popolazione colpita e di tutti gli altri, perché il virus viaggia veloce. Se qualche politico locale in tv avesse mostrato la sicumera del presidente Attilio Fontana o dell’assessore al Welfare Giulio Gallera (con quest’ultimo a marzo tutti i giorni per mezz’ora in diretta su Sky News 24 senza alcun contraddittorio) sarebbe stato richiamato all’ordine e inchiodato alle sue responsabilità passate e presenti. Invece il virus arriva in Lombardia e allora la preoccupazione – dei lombardi, certo, ma anche di tutti gli altri italiani – è che la locomotiva non si fermi. Non scatta il dubbio che la Lombardia sia incapace di gestire quella che nei primi tempi è descritta come poco più di un’influenza che uccide persone molto anziane e già malate.
Il 26 febbraio arrivano i risultati dei tamponi sul personale sanitario del Pesenti Fenaroli e non pochi sono i contagiati, tra cui il primario dell’ospedale. Quasi tutti però in quei giorni avevano continuato a lavorare, a infettarsi e a infettare. Il 29 febbraio i medici dello Spallanzani di Roma scoprono che una donna di Fiumicino, che si era ammalata e aveva contagiato tutta la famiglia, era stata ad Alzano Lombardo tra il 19 e il 21 febbraio. In quel momento i casi ufficiali nella cittadina a nord di Bergamo sono 110. Gallera conferma che «ad Alzano c’è un numero importante di casi» ma aggiunge che la regione non ha «nessuna idea di costruire nuove zone rosse». Il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità con una nota raccomanda al governo di aprire una nuova zona rossa che comprenda almeno i co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. FAKE SUD
  4. Prefazione. di Alessandro Barbero
  5. Introduzione
  6. PRIMA PARTE. IL RAZZISMO STRISCIANTE
  7. SECONDA PARTE. A CHE SERVONO LE BUGIE?
  8. TERZA PARTE. L’ERRORE DEL PENDOLO
  9. Appendice
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright