La morte è il mio mestiere
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La morte è il mio mestiere

  1. 368 pagine
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La morte è il mio mestiere

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«Per molto tempo, in passato, avevo detto che la morte era il mio mestiere.
Adesso sapevo che lo era ancora.» Per Jack McEvoy la cronaca nera è stato il mestiere di una vita. Ha raccontato le storie più cupe, inseguito i killer più sfuggenti, fino a ritrovarsi lui stesso faccia a faccia con la morte. Il fiuto da reporter ce l'ha nel sangue, anche se ormai va a caccia di storie di ben altro genere. Ma la morte, a quanto pare, non ha chiuso i conti con lui.
Quando una donna con cui McEvoy ha trascorso una notte sola, dopo averla conosciuta in un bar un anno prima, viene ritrovata senza vita, il giornalista finisce suo malgrado tra i principali sospettati di quel crimine particolarmente brutale. A quel punto, tornare a indagare - a dispetto dei moniti della polizia e del suo editore - è per lui non soltanto un istinto, ma una necessità. Ben presto, arriva a una scoperta agghiacciante che collega quell'omicidio ad altre morti misteriose in tutto il Paese: uno stalker dà la caccia alle donne, selezionandole sulla base dei loro dati genetici. McEvoy capisce di trovarsi di fronte a una mente criminale diversa da qualunque altra mai incontrata: qualcuno che conosce le sue vittime meglio di quanto loro conoscano se stesse.
Attraverso una ricerca nei meandri più oscuri del web e con l'aiuto di una vecchia conoscenza - l'ex agente dell'FBI Rachel Walling -, McEvoy intraprende una folle corsa contro il tempo. Perché il killer ha già scelto il suo prossimo obiettivo ed è pronto a colpire ancora.Questo nuovo, strepitoso thriller, subito balzato ai vertici delle classifiche americane e inglesi, segna il grande ritorno di Jack McEvoy: uno dei personaggi più iconici creati da Michael Connelly, già protagonista de Il poeta e L'uomo di paglia, due dei bestseller più apprezzati del Maestro del thriller.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858525272
1

JACK

L’articolo si intitolava Il re dei truffatori. Almeno, era quello il nome che gli avevo dato io. Ero sicuro che sarebbe stato cambiato, perché come reporter non spettava a me trovare i titoli. Spettava all’editor e mi sembrava già di sentire le proteste di Myron Levin: «L’editor riscrive le tue frasi o telefona ai soggetti di cui parla l’articolo per porre loro altre domande? No. Resta nel suo ambito, e questo significa che tu devi restare nel tuo».
Poiché Myron, il mio direttore, era anche l’editor in questione, era inutile protestare. Ma inviai lo stesso l’articolo così com’era, perché il titolo che avevo trovato secondo me era perfetto. Il pezzo parlava del mondo oscuro del recupero crediti, tema perfetto per noi di «FairWarning». Il nostro credo era quello di attribuire un volto a ogni frode, di raccontare la storia seguendo il punto di vista del colpevole o della preda, della vittima o del carnefice. E stavolta toccava al predatore. Arthur Hathaway, il re dei truffatori, il migliore tra i migliori. Sessantadue anni, aveva lavorato a ogni tipo di truffa immaginabile, durante una vita criminosa trascorsa quasi tutta a Los Angeles, con attività illecite che spaziavano dalla vendita di falsi lingotti d’oro alla creazione di finti siti web per raccogliere aiuti dopo disastri naturali. Al momento, gestiva un racket dedicato a convincere le persone a pagare dei debiti che in realtà non avevano. Ed era così bravo che i truffatori alle prime armi gli chiedevano di dar loro lezioni a pagamento, il lunedì e il mercoledì, in una scuola di recitazione di Van Nuys ormai in disuso. Io ero riuscito a infiltrarmi fingendomi uno studente e avevo imparato tutto ciò che potevo. Adesso era il momento di pubblicare l’articolo e usare il volto di Arthur per smascherare un’industria che raggirava milioni di persone ogni anno, dalle vecchie signore con un conto in banca sempre più misero ai giovani professionisti squattrinati e con i debiti del college da ripagare. Le vittime finivano per cedere, perché Arthur Hathaway le convinceva a farlo. E ora insegnava i suoi trucchi a undici futuri truffatori e a un giornalista sotto copertura, per cinquanta dollari a testa due volte alla settimana. Probabilmente la scuola di truffa era la sua truffa più grande. Quell’uomo era un vero re, con una mancanza di sensi di colpa degna di uno psicopatico. Avevo incluso anche le storie delle vittime di cui aveva ripulito i conti correnti, rovinando loro la vita.
Myron aveva già venduto l’articolo al «Los Angeles Times»: questo significava che sarebbe stato letto davvero, non soltanto dai sostenitori del nostro sito, e che il dipartimento di polizia di Los Angeles ne avrebbe preso visione. Il regno di re Arthur sarebbe finito presto e la sua tavola rotonda di giovani truffatori sarebbe stata smantellata.
Rilessi l’articolo ancora una volta e lo inviai a Myron, mettendo in copia William Marchand, l’avvocato che rivedeva gratis tutti gli articoli di «FairWarning». Non mettevamo mai sul nostro sito nulla che non fosse a prova di bomba da un punto di vista legale. A «FairWarning» eravamo in cinque, se si contava anche la reporter di Washington che lavorava da casa sua. Per farci chiudere sarebbe bastata una sola querela che ci portasse a processo o a dover accettare un patteggiamento dispendioso. E così sarei tornato a essere quello che ero già stato almeno due volte, nella mia carriera: un reporter senza un giornale per cui scrivere.
Mi alzai dal mio cubicolo per dire a Myron che l’articolo era finalmente concluso ma mi accorsi che stava parlando al telefono. Mentre mi avvicinavo, sentii che si trattava di una ricerca di finanziamenti. Myron era il fondatore, editor, giornalista e raccoglitore di fondi di «FairWarning», un sito di notizie senza iscrizione a pagamento. Sotto ogni articolo, e a volte anche sopra, c’era un tasto per le donazioni, ma Myron era sempre in cerca della grande balena bianca che ci avrebbe sponsorizzati, trasformandoci da mendicanti in persone con un minimo di autonomia.
«Nessuno è come noi: noi facciamo duro giornalismo d’inchiesta in difesa dei consumatori» diceva a ogni potenziale donatore. «Se guarda il nostro sito, vedrà in archivio molti articoli che fanno le pulci a industrie potenti, come quelle farmaceutiche, automobilistiche, a colossi delle comunicazioni e del tabacco. E con la deregulation e gli scarsi controlli dell’attuale governo, non c’è nessuno là fuori che protegga l’uomo della strada. Guardi, lo capisco, ci sono altri tipi di donazioni che le darebbero maggiore visibilità in cambio dei dollari spesi. Venticinque dollari al mese bastano per nutrire e vestire un bambino nella regione degli Appalachi. È una cosa che ti fa sentire bene. Ma una donazione a “FairWarning” serve a sostenere una squadra di reporter dedicati a…»
Sentivo “il discorso” parecchie volte al giorno, quasi tutti i giorni. Frequentavo anche le riunioni della domenica, con le quali Myron e altri membri del consiglio d’amministrazione si rivolgevano a possibili donatori appartenenti al campo dell’informatica, e poi mi fermavo a chiacchierare con loro, parlando delle storie a cui stavo lavorando. Godevo di un certo credito tra quelle persone in quanto autore di due bestseller, anche se bisognava evitare di menzionare che erano passati più di dieci anni dalla mia ultima pubblicazione. Sapevo che “il discorso” era importante e vitale per il mio stipendio (non che guadagnassi nemmeno lontanamente abbastanza per sopravvivere a Los Angeles), ma l’avevo sentito così tante volte, nei miei quattro anni di lavoro a «FairWarning» che avrei potuto recitarlo anche dormendo. E alla rovescia.
Myron smise di ascoltare il potenziale investitore e silenziò il microfono, guardandomi.
«Ci sei?» chiese.
«L’ho appena inviato» risposi. «Anche a Bill.»
«Bene, lo leggo stasera e se ho dei commenti ne parliamo domattina.»
«È pronto per la pubblicazione. Ho anche trovato un ottimo titolo. Devi solo scrivere il sottotitolo.»
«Sarà meglio che…»
Riattivò il microfono per rispondere a una domanda del suo interlocutore. Gli feci un saluto militare e mi diressi verso la porta, fermandomi alla postazione di Emily Atwater per salutarla. In quel momento era l’unico altro membro dello staff presente in ufficio.
«Ciao» disse, con il suo spiccato accento britannico.
Il nostro ufficio si trovava a Studio City, in una tipica palazzina a due piani sede di svariati esercizi commerciali. Il pianterreno era occupato più che altro da negozi di generi alimentari, mentre il piano di sopra ospitava un’agenzia di assicurazione auto, un manicure/pedicure, una palestra di yoga e un centro di agopuntura. E poi c’eravamo noi. «FairWarning» non era un negozio e c’entrava poco con il resto dell’edificio: avevamo lì il nostro ufficio perché era economico, visto che si trovava sopra un dispensario di marijuana e il sistema di ventilazione diffondeva in ufficio l’aroma del prodotto ventiquattr’ore al giorno. Per questo Myron era riuscito a contrattare un buon prezzo.
La palazzina era a forma di L e aveva anche un parcheggio sotterraneo, dove «FairWarning» aveva cinque posti riservati, per impiegati e visitatori. Era un grosso extra, perché il parcheggio in città era un problema serio. E un garage coperto era un vantaggio ancora maggiore per me, perché nell’assolata California io chiudevo raramente la capote della mia jeep.
Era una Wrangler che avevo comprato nuova, con l’anticipo del mio ultimo libro, e il contachilometri serviva a ricordarmi quanto tempo era passato da quando potevo permettermi di fare un acquisto del genere e avevo un posto nella classifica dei bestseller. Lo guardai mentre mettevo in moto. Avevo deviato di 260.099 chilometri dalla via sulla quale procedevo in passato.

2

Vivevo a Sherman Oaks, in Woodman Avenue, vicino all’autostrada 101, in un complesso di appartamenti stile Cape Cod degli anni Ottanta: ventiquattro casette disposte a rettangolo, con un cortile interno, una piscina comune e una zona barbecue. Anche lì c’era un parcheggio sotterraneo.
La maggior parte dei residence della strada si chiamava Capri, Oak Crest e cose simili. Il mio non aveva nome. Mi ci ero trasferito appena un anno e mezzo prima, dopo aver venduto l’appartamento in un condominio che avevo comprato sempre con lo stesso famoso anticipo sul libro. Gli assegni dei diritti d’autore diventavano sempre più ridotti di anno in anno, e stavo riadattando la mia vita intorno allo stipendio che prendevo da «FairWarning». Era una transizione difficile.
Mentre aspettavo sul vialetto in pendenza che si sollevasse la porta del garage, notai due uomini in giacca e cravatta davanti al cancello pedonale. Uno era un bianco sui cinquantacinque, l’altro un asiatico una ventina d’anni più giovane. Un refolo di vento aprì la giacca del secondo uomo e notai il distintivo alla cintura.
Scesi in garage tenendo lo sguardo sullo specchietto retrovisore. Loro mi seguirono dentro. Mi fermai nel mio posto macchina e spensi il motore. Quando presi lo zaino e scesi, mi aspettavano dietro la jeep.
«Jack McEvoy?»
Il nome era giusto, ma pronunciato male, una cosa tipo Mickavoy.
«Sì, McEvoy» lo corressi. «Cosa succede?»
«Sono il detective Mattson, del LAPD» disse il più anziano. «Questo è il mio partner, il detective Sakai. Dobbiamo farle alcune domande.»
Aprì la giacca per mostrare che anche lui aveva un distintivo e una pistola.
«Va bene» risposi. «Qual è l’argomento?»
«Possiamo salire in casa?» chiese Mattson. «In un posto più privato di un garage?»
Parlava come se ci fossero delle persone in ascolto, ma il garage era deserto.
«Certo» dissi. «Seguitemi. Di solito io faccio le scale, ma se preferite l’ascensore è là in fondo.»
«Le scale vanno bene» fece Mattson.
Mi avviai e loro mi seguirono. Per tutta la strada fino al mio appartamento mi sforzai di riflettere sul mio lavoro degli ultimi tempi. Cos’avevo fatto per attirare l’attenzione del LAPD? In genere i reporter di «FairWarning» avevano una notevole libertà di scelta per quanto riguardava le storie da seguire, ma è vero che ognuno aveva i suoi ambiti: il mio territorio includeva truffe e strategie criminali, oltre a reportage vari relativi al mondo di internet.
Cominciai a domandarmi se l’articolo su Arthur Hathaway avesse incrociato un’indagine della polizia e se Mattson e Sakai volessero chiedermi di posticiparne la pubblicazione. Ma scartai quella possibilità quasi subito. In quel caso sarebbero venuti in ufficio, non a casa mia. E probabilmente si sarebbero fatti precedere da una telefonata.
«A quale unità appartenete?» chiesi, mentre attraversavamo il cortile diretti all’appartamento numero sette, dall’altro lato della piscina.
«Lavoriamo in centro» rispose Mattson, evasivo. Il suo partner non disse nulla.
«Quale squadra, intendevo» precisai.
«Divisione Rapine e Omicidi» disse Mattson.
Non scrivevo sul LAPD, di solito, ma in passato l’avevo fatto. Sapevo che le squadre di élite facevano base al quartier generale in centro, e la DRO, come veniva chiamata, era l’élite dell’élite.
«Di che dobbiamo parlare?» domandai. «Omicidio o rapina?»
«Entriamo in casa, poi parliamo» disse Mattson.
Arrivai al mio appartamento. Il fatto che non avesse risposto spingeva verso l’omicidio. Avevo le chiavi in mano. Prima di aprire la porta mi voltai a guardarli.
«Mio fratello era un detective della Omicidi» dissi.
«Davvero?» rispose Mattson.
«Del LAPD?» chiese Sakai. Erano le sue prime parole.
«No» risposi. «A Denver.»
«Buon per lui» disse Mattson. «Ora è in pensione?»
«Non esattamente. È stato ucciso in servizio.»
«Mi spiace» disse Mattson.
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA MORTE È IL MIO MESTIERE
  4. Prologo
  5. 1. JACK
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13. HAMMOND
  18. 14
  19. 15
  20. 16. JACK
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24. L’AVERLA
  29. 25. JACK
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29. L’AVERLA
  34. 30. JACK
  35. 31
  36. 32
  37. 33. L’AVERLA
  38. 34. JACK
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. 40. L’AVERLA
  45. IL PRIMO ARTICOLO
  46. 41. JACK
  47. 42
  48. L’ULTIMO ARTICOLO
  49. 43. JACK
  50. 44
  51. 45
  52. 46. LA FINE
  53. NOTA DELL’AUTORE
  54. RINGRAZIAMENTI
  55. Copyright