La ragazza si chiamava Imelda e, in teoria, Muzio non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarla con uno sguardo, in primo luogo perché era già promessa sposa, e non certo a lui, e poi perché di cognome faceva Pasolini, la famiglia nemica capitale degli Attendolo, cui Muzio apparteneva.
Se il padre della ragazza, Astorre Pasolini, avesse scoperto la tresca tra lui e la figlia, o se lo avessero scoperto i violenti e tracotanti fratelli di Imelda, lo avrebbero fatto a pezzi e dato in pasto ai cani, o ai maiali, così di lui non si sarebbe trovato neppure l’osso del dito mignolo.
Muzio era consapevole dei rischi che correva quando inseguiva la ragazza come un segugio la preda, ma non riusciva mai a disciplinare l’istinto, sottomettendolo alla ragione.
Quelle forme generose, quelle carni sode, bianche, esalanti un sentore irresistibile, lo mandavano in un’estasi tale che, per quanto dopo rimpiangesse di essere caduto ancora una volta in tentazione e giurasse che «mai più, mai più» avrebbe messo a repentaglio se stesso e la sua famiglia, non mancava di ricaderci ogni volta che la intravvedeva per i boschi. E ci passava spesso per i boschi, Imelda, chissà com’è che ci passava così spesso, quel diavolo tentatore...
Hanno ragione i preti, è tutta colpa delle donne se gli uomini cadono nel peccato, ecco perché Muzio non confessava mai le sue colpe a don Liborio, intanto perché non commetteva alcun vero peccato, la responsabilità era di Imelda e del diavolo che si portava dentro, e poi vai a fidarti del segreto confessionale di don Liborio; suo padre l’avrebbe squartato, se avesse anche solo sospettato.
Insomma, Giacomo Attendolo, detto Muzio, era fermamente persuaso che Imelda, innamorata persa di lui, usasse di proposito il viottolo di campagna che confinava con le terre degli Attendolo, per essere adocchiata e indurlo in tentazione. Alla quale lui, purtroppo, non resisteva.
E così, abbandonava di soppiatto il lavoro dei campi, sperando che la sua breve assenza passasse inosservata – in fondo, non è che ci impiegasse molto a sbrigare la faccenda, anche perché Imelda stessa poteva eludere il controllo della balia solo per un tempo molto breve – e si metteva a seguire la ragazza, la quale, di tanto in tanto, si girava per accertarsi che lui non la perdesse di vista.
Per fortuna, era diventato un vero maestro a inventare pretesti per abbandonare l’odioso lavoro di contadino cui pareva condannato dalla immodificabile volontà di suo padre, Giovanni Attendolo, un omone tanto massiccio e imponente nel fisico quanto limitato nell’acume, torvo, avaro in ogni senso possibile del termine, a cominciare dalle parole, che sembrava dovesse pagare di tasca propria, tanto era parco nell’usarle, preferendo sostituirle con grugniti, rari anche quelli, oppure passando direttamente alla sua temutissima frusta dal lungo staffile fitto di nodi, che maneggiava con impareggiabile rapidità e maestria.
Muzio detestava talmente quel padre così violento e limitato di vedute, così ostinatamente persuaso che lui e tutti i suoi figli maschi fossero destinati al mestiere di contadino come tutte le precedenti generazioni di Attendolo, considerando ogni cambiamento un’offesa inaccettabile alla tradizione familiare, che il suo sogno, da quando aveva memoria, era trovare un’occasione che gli permettesse di fuggire di casa, abbandonare padre e fratelli – quanti erano? Mah, diciotto forse, anzi diciannove – e sparire per sempre dalle loro vite. Girare il mondo, questo sognava, e fare un mestiere con cui guadagnare, magari menando le mani, perché con quelle se la cavava bene, così come con le armi. Del resto, aveva preso dagli Attendolo il fisico alto, imponente e la notevole forza fisica, ma, per fortuna, non l’ottusità del cervello. Il suo era agile e lesto perché, grazie a Dio, l’aveva ereditato dai Petraccini, la famiglia di sua madre.
Eccola lì, Imelda: cammina un bel pezzo davanti a lui, attenta a scomparire di tanto in tanto nella vegetazione, come a negare che il suo intento sia quello di attrarre Muzio, ma sollecita a riapparire, quando le pare che si sia allontanato troppo. Riesce sempre a trovare ottimi nascondigli, quel diavolo. E Muzio ha già intuito dove sta dirigendosi, questa volta...
Quando, poco dopo, le compare davanti, lei è distesa sull’erba, le gonne sopra il ginocchio, le spalle denudate, le mani che si agitano davanti al volto, fingendo di provare un gran caldo.
«E tu, cosa ci fai qui... Giacomuzzo?» le domanda in tono falsamente sorpreso, sfoderando quel suo sorriso canzonatorio che fa prudere le mani a Muzio e salire la voglia di schiaffeggiarla, una bella labbrata su quella bocca provocante, per sentirla piangere, invece che deriderlo, non fosse che altre voglie premono di più, che non potrebbe soddisfare, se la contrariasse.
Adesso, come al solito, lei lo prenderà in giro, secondo un rituale cui non riesce a rinunciare.
«Giacomuzzo...» cantilena infatti lei, con un tono che vorrebbe suonare mellifluo ma in realtà è solo beffardo. «Giacomuzzo Attendolo...» e poi ride, il demonio, quella risata di gola che basterebbe da sola ad accendere ogni desiderio. «Se tuo padre sapesse che mi fai una corte così soffocante, Giacomuzzo bello, ti strapperebbe via la pelle di dosso con quella sua micidiale frusta o a mani nude, più pericolose di qualunque arma.»
Muzio tace. Non c’è niente da dire. Deve lasciarla sfogare, concludere la recita, se vuole riscuotere il premio per il quale sta mettendo a rischio la vita di tutti: sua, della ragazza e delle rispettive famiglie, perché Muzio sa bene che uno scandalo riaprirebbe di nuovo la faida, solo sopita e mai conclusa, con i Pasolini, sempre pronti a riaccenderla al primo pretesto, visto che si sentono – e sono – i più forti, i più ricchi e i più malvagi. La tresca con Imelda rappresenterebbe oltre che un pretesto, un’intollerabile offesa, da lavare in un’orgia di sangue.
«D’altro canto...» prosegue intanto Imelda, con quella sua vocetta sottile che di civettuolo non ha proprio nulla, solo di provocatorio e impertinente. «D’altro canto, voi Attendolo siete una tale razza di caproni, rozzi, ottusi e illetterati, sai cosa significa la parola illetterato, Giacomuzzo?»
Pausa.
«...no che non lo sai, figurarsi. Ebbene, tu sei un illetterato, perché sai a malapena leggere e scrivere, come tutti voi Attendolo, io invece ho imparato a Faenza, dalle suore. I miei genitori mi hanno fatto studiare, cosa credi, un giorno sposerò Rainerio Bonaccorsi, caro il mio bifolco che non maneggia altro che letame da mane a sera, e me ne andrò ad abitare nel più lussuoso palazzo di Cotignola. Perché io... io sono una signora, mica una contadina. Lo sapevi che ho studiato per qualche mese dalle suore, a Faenza, Giacomuzzo?»
Imelda si concede finalmente una piccola pausa e lo fissa per qualche istante, la testa appena reclinata verso la spalla nuda, le labbra socchiuse nel suo abituale sorriso irridente.
Muzio non replica. Sa che non è necessario. A breve la pantomima finirà e lui si prenderà la sua rivincita, il premio agognato, deve solo lasciar sbollire la rabbia che infiamma Imelda, mescolata in modo perverso ai suoi desideri, accesi come le sue carni. È furiosa perché sa di essere innamorata pazza di lui, questa è la verità bella e buona, anche se a lei, degna discendente di una razza padrona, non piace essere innamorata di un Attendolo, razza inferiore, di servi della gleba. A nulla vale ai suoi occhi che, in realtà, gli Attendolo da due generazioni siano padroni delle terre che lavorano. Agli occhi dei Pasolini, e di Imelda in particolare, restano servi della gleba.
Ma a breve, la dea si stancherà della commedia e...
«Perché non ti avvicini, Giacomuzzo?» domanda infatti lei, quasi leggendogli nel pensiero. Ecco il segnale che attendeva. Muzio le si avvicina e, senza frapporre indugi, si avventa sul suo collo, pone una mano sotto la gonna.
Imelda non respinge le audaci carezze, anche se non rinuncia a pungere ancora.
«Giacomuzzo» ridacchia, mentre si lascia a poco a poco sdraiare sul terreno. «Che razza di nome incongruo, come si può chiamare con un nomignolo così inadatto un gigante della tua statura? Non ti senti ridicolo, Giacomuzzo?» La gola di Imelda palpita alle carezze sempre più decise del suo compagno, il respiro diventa più affannoso. E ripete, quasi un sussurro fra i capelli di lui: «Giacomuzzo... Giacomuzzo mio...».
«Nessuno più mi chiama in quel modo,» bisbiglia lui, e sono le prime e uniche parole da quando si sono visti «solo tu, gli altri mi chiamano Muzio. Lo fai per prendermi in giro, lo so, ma a te lo permetto.»
«Gesù» geme arrendevole Imelda. «Non dovrei concedermi a un contadino...»
Muzio interrompe per un istante il suo intenso frugare e la fissa negli occhi.
«Sei innamorata di me, e lo sai. Allora, perché sposi un altro?» domanda, stringendole forte il viso fra le dita della mano.
Imelda lo fissa seria, attonita. Poi scrolla via la mano che le impedisce di rispondere.
«Come, perché? Ma Giacomuzzo, il matrimonio non ha niente a che vedere con l’amore. Il matrimonio è una cosa seria e ha a che vedere solo con l’interesse.»
Quindi avvicina le labbra a quelle del suo compagno e gliele morde.
Da quel momento, non si odono più parole. Solo sospiri.
«Forse potremmo accamparci qui per la notte. Che ne dici, Berto?» domandò Boldrino da Panicale, capitano di ventura il cui vero nome, Giacomo Paneri, ormai non rammentava più nessuno, sostituito, come d’uso fra i militari, con il soprannome conferitogli da qualche suo lontano compagno d’armi.
Berto, saccomanno del capitano, si guardò intorno. In effetti, il terreno circostante era pianeggiante, lasciato a pascolo, ben riparato su tre lati dagli sguardi dei curiosi grazie a una fitta vegetazione boschiva, ben distanziato dai campi coltivati e dagli orti e dunque senza alcun rischio che le bestie danneggiassero le colture. Anche il sole, che ormai occhieggiava dalle cime tondeggianti dell’Appennino, pronto da un momento all’altro a calarvi definitivamente per quella giornata, suggeriva di sostare e accamparsi per la notte. Ciò nonostante, Berto scosse la testa.
«Non mi sembra una buona idea, capitano, con tutto il rispetto. Sapete come si chiama quel borgo che intravvedete lì, a nord?»
«È un borgo o una roccaforte?»
«Un borgo, capitano, un minuscolo paese, abitato per lo più da contadini...»
«E allora? Non dovrebbero crearci grane, penso.»
«Però si chiama Cotignola. Vi dice qualcosa, questo nome? Appartiene a Giovanni Acuto, con il quale, se ben ricordo, non intercorrono certo eccellenti rapporti. Poco distante c’è Barbiano, che appartiene al capitano Alberico Da Barbiano. Anche con lui i rapporti non sono dei migliori, credo di poter dire, e immagino che i cotignolesi saranno schierati con Alberico. Non vorrei che, se sapessero chi siamo, ci scatenassero addosso delle rappresaglie.»
«Ma che sciocchezze» replicò Boldrino, con una scrollata di spalle. «Intanto noi non disturberemo i civili, se loro non disturberanno noi. E poi, chi l’ha detto che sono in cattivi rapporti con quei due? L’Acuto è a Firenze e lavora per i Medici, con me non ha più nulla a che vedere e non sono neppure sicuro che sia ancora signore di Cotignola. Quanto ad Alberico, io non gli sono affatto ostile. Anzi, lo ammiro per aver creato la prima milizia di ventura tutta italiana. Con la sua Compagnia di San Giorgio, ha rotto una tradizione e aperto una nuova strada, dimostrando che noi italiani siamo abili nell’arte militare tanto quanto gli stranieri. In molti abbiamo seguito il suo esempio, io per primo. Certo, mi è dispiaciuto che abbia respinto la mia richiesta di pormi al suo servizio, ritenendo che la mia truppa non fosse all’altezza della sua Compagnia. Alquanto scortese e arrogante. Ma questo non vuol dire che gli sono ostile. A ben vedere, noi venturieri lo siamo un po’ tutti. Arroganti, intendo.»
«Come credete, capitano. Lo dicevo solo per segnalarvi che gli abitanti di queste terre potrebbero essere alquanto bellicosi di natura.»
«Meglio. Non siamo forse alla disperata ricerca di braccia buone per combattere? Magari saremo fortunati e qualche pesce finalmente si impiglierà nella nostra rete. Siamo troppo pochi, Berto.»
«Come comanda il capitano. Faccio smontare gli uomini.»
La compagnia non aveva ancora neppure iniziato ad accamparsi quando, quasi a conferma dei timori di Berto, si vide avanzare a grandi falcate nella loro direzione un giovane alto e muscoloso, con un’aria contrariata che sembrava non promettere nulla di buono. Si fermò a pochi passi dal gruppo e fissò su tutti uno sguardo minaccioso.
«Non potete stare qui» disse, senza alcuna parola di saluto.
«Buonasera anche a voi, messere!» replicò Berto, accennando un inchino e fingendo di scappellarsi di fronte all’intruso con un cappello immaginario. Ma quello rimase indifferente sia all’ironia di Berto sia alle risate degli altri soldati.
«Non potete stare qui» ripeté, testardo.
«Davvero?» insistette Berto, fingendosi spaventato. «E chi lo ha decretato, di grazia?»
«Mio padre, che è proprietario di questo terreno. Dovete andarvene.»
Berto stava per rispondere a muso duro quando Boldrino lo fermò con un cenno degli occhi.
«Come ti chiami, ragaz...