(Ri)costruzione
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«La situazione attuale non è ascrivibile solo al Covid-19, il virus ha solo fatto emergere i problemi di un paese già stremato. Adesso alle istituzioni e a chi deve decidere spetta il compito più arduo: riprogettare il futuro garantendolo soprattutto ai giovani, proiettare l'Italia nel mondo modernizzandola, ricreare le condizioni di una nuova coesione sociale attraverso meccanismi di solidarietà, per un'economia e uno sviluppo che sono per l' Uomo, fine ultimo dell'azione politica.» L'emergenza dovuta al Covid-19 e gli effetti del lockdown hanno messo a nudo tutte le fragilità dell'Italia. Ci siamo accorti di essere circondati da macerie, prodotte non tanto dalla pandemia, ma lungo tutti gli ultimi quarant'anni. Il virus ci ha fatto fare i conti con le nostre inefficienze. Ora le persone dovranno vivere senza le certezze di prima, e in molti casi saranno obbligate a reinventarsi.
È l'opportunità per confrontarci finalmente con un mercato del lavoro disastrato, con una scuola che da tempo non è più luogo di formazione e cultura, con l'assoluta mancanza di una politica industriale. È giunto il momento di una (Ri)costruzione, di fissare nuovi obiettivi per far ripartire l'Italia, attraverso la riscoperta della Politica con la "P" maiuscola, che agisce per il bene comune. In primo luogo, è fondamentale individuare gli asset strategici del nostro Paese su cui puntare per intraprendere un nuovo percorso di sviluppo: in questo libro Mario Benotti propone una visione d'insieme e di lungo termine che coinvolga sinergicamente giustizia, industria, energia, turismo, sanità, trasporti, cultura, scuola e politica estera. Un'analisi senza reticenze su ciò che serve per riportare l'Italia sui binari della competitività e della crescita.
Tutti sperano in un nuovo "miracolo italiano", ma il lavoro non si crea per decreto, la politica deve indicare una strada da percorrere e obiettivi da raggiungere. E i primi passi non possono che riguardare la scuola, l'Università e la ricerca scientifica e industriale, il vero motore di una crescita di cui non possiamo più fare a meno. Solo così è possibile risollevarsi e confidare in un nuovo boom, che permetta all'Italia di tornare protagonista in Europa e nel mondo. Un nuovo Rinascimento, che metta l'Uomo al centro di tutto.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858525418

Giustizia, dalla crisi di fiducia all’Alta velocitàa

La giustizia non funziona. Tuttavia la grande riforma è (sarebbe) già iniziata e consentirà di restituire efficacia ed efficienza al servizio giustizia, di scalare le classifiche dell’annuale rapporto della Banca mondiale, Doing Business, di accogliere le ultime Raccomandazioni del Consiglio d’Europa (2020) e perfino di agguantare un paio dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’Onu con l’Agenda 2030. Lo ha scritto il governo italiano nel Programma nazionale di riforma 2020, documento annuale di primavera allegato al Def e destinato all’Unione europea: quest’anno presentato in Consiglio dei ministri solo il 7 luglio a causa del coronavirus, contiene le linee essenziali del Programma di Ripresa e Resilienza (Recovery Plan) che il governo metterà a punto dopo l’adozione dello Strumento Europeo per la Ripresa (Next Generation EU) e la determinazione dell’investimento comunitario (nell’ordine dei settecentocinquanta miliardi di euro) da parte del Consiglio europeo su proposta della Commissione. È tutto vero, nel senso che è tutto scritto; ma è tutto falso, se – come è ragionevole temere – l’esperienza degli ultimi decenni pare abbia insegnato poco a governo e parlamento; nonché, stavolta è il caso di aggiungerlo più che mai, ai magistrati.
La prospettiva della falsità delle promesse, o meglio del loro probabile fallimento, non deriva da un pregiudizio nei confronti dell’attuale governo, né dei precedenti (e peraltro in tal caso riguarderebbe maggioranze di ogni colore e parlamenti di ogni composizione). Non è mai esistito, se non forse nel primo governo Prodi ormai quasi venticinque anni fa, un piano complessivo e organico di riforma della giustizia; e del resto anche in quell’occasione una larga parte delle proposte naufragò in parlamento. Ed è motivo di riflessione il fatto che le questioni allora affrontate ma non risolte, siano le stesse che ancora paralizzano i governi e impediscono le intese nelle coalizioni: regime delle intercettazioni nel processo penale, valutazione di professionalità dei magistrati, tempi di prescrizione dei processi penali, trattamento penitenziario. E molte riforme allora avviate o successivamente proposte, ancorché giunte al traguardo, sono divenute un “cantiere” infinito, continuamente rimesso in discussione da riforme successive, tuttora all’esame del parlamento: processo civile, processo penale, diritto societario, diritto fallimentare...
Le osservazioni ottimistiche (e infondate) del Programma nazionale di riforma si basano tutte sui disegni di legge proposti, pendenti in parlamento o in qualche caso già approvati. Nessuna ulteriore riflessione o proposta derivano dalla paralisi giudiziaria durante l’emergenza Covid-19, che certamente restituirà a fine anno una fotografia molto appesantita dei procedimenti arretrati. Di ciascuna riforma si descrivono le (future) ricadute positive, anche quando il giudizio sia controverso o l’attuale maggioranza non sia più rappresentativa della volontà politica. Basti pensare alla sostanziale abolizione della prescrizione in materia penale, descritta come un sicuro (!) incentivo alla celerità dei processi. Ma, quale che sia il giudizio politico (come si è detto, controverso) o tecnico (quasi unanimemente contrario) sul nuovo istituto, non si può negare che rappresenti un ulteriore elemento di sfiducia per gli imputati (gli “spettatori”, invece, possono anche ammettere il processo infinito, nella speranza o nell’illusione che conduca all’accertamento e alla sanzione delle responsabilità; salvo ricredersi, individualmente, il giorno in cui, per qualsiasi ragione, assumano la veste di imputato) e soprattutto per gli investitori stranieri, terrorizzati dall’ipotesi che un loro amministratore, coinvolto in un procedimento penale per responsabilità colposa, magari oggettiva, resti imputato sine die e, in qualche modo, “per sempre”.
Inoltre, non c’è processo in Italia, civile o penale, che si svolga interamente sotto il regime processuale e con le regole sostanziali vigenti al momento in cui fu compiuto il reato o iniziò la lite. Perfino in materia di lavoro, dove la particolarità del rito e la natura del processo consentono tempi più brevi, ma dove ogni anno intervengono riforme profonde, di tipo legislativo o giurisprudenziale. La giurisprudenza costituzionale sul Jobs Act, e quella in via di consolidamento nei gradi di merito, dopo profonde oscillazioni nei primi anni, sulla equiparazione della tutela (anche economica) dei lavoratori autonomi a quella dei lavoratori dipendenti, hanno la portata di vere e proprie riforme legislative. E poiché il maggiore elemento di sfiducia nei confronti della giustizia è rappresentato dall’instabilità normativa o giurisprudenziale, si comprende come il cantiere infinito, se anche fosse una marcia trionfale verso la legge “perfetta”, rappresenti in realtà una Via Crucis tanto in materia penale quanto in materia civile e amministrativa.
Dalla Via Crucis al rosario delle lamentele il passo sarebbe breve, ma del tutto inutile rispetto allo scopo di queste pagine. Anche lo schema del capitolo sulla ricostruzione della giustizia non può che essere lo stesso degli altri: un’analisi sommaria (ma non superficiale, si spera) sulle cause dello stato di crisi, e l’indicazione di alcuni obiettivi o metodi ritenuti necessari e utili per invertire la tendenza. Questo schema, tuttavia, è particolarmente faticoso in materia di giustizia, perché non esiste alcun largo consenso né sulla diagnosi né sulla terapia. Oltretutto la materia è controversa nella stessa definizione dell’oggetto (civile, penale; regole dell’ordinamento o identificazione con i princìpi etici; supplenza giudiziaria, rapporto irrisolto politica-giustizia) e quindi nel perimetro delle invocate riforme; è più conflittuale di altre e riguarda quasi tutti i cittadini, coinvolti almeno una volta in lunghe cause civili attivate o subìte (per esempio, in condominio), oppure in ricorsi amministrativi contro atti o omissioni della pubblica amministrazione.
Quel che stupisce, nella visione edulcorata e asettica della giustizia futura da parte del governo, è la totale assenza di percezione della gravità della situazione e dell’assoluta inutilità, sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo, delle riforme precedenti; e perciò la mancanza di qualsiasi spiegazione delle ottimistiche aspettative, prive di analisi previsionali e probabilistiche. Basta scrivere che all’esame del parlamento c’è un disegno di legge del governo su uno degli ambiti della giustizia, per concludere che, una volta divenuto legge, sicuramente contribuirà al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza del servizio giustizia, con riduzione dei tempi del processo e complessiva diminuzione dell’arretrato. Innanzitutto è incerto l’esito della riforma: nella precedente legislatura un disegno di legge analogo, presentato nel 2014 dall’allora guardasigilli Orlando e approvato dalla Camera, decadde al Senato insieme con la legislatura.
Sono trascorsi sei anni e il testo, tutto sommato analogo, del ministro Bonafede aveva appena iniziato l’iter parlamentare, poi congelato dalla pandemia. Dal 2000 a oggi almeno altre tre importanti riforme della procedura civile sono entrate in vigore, con l’obiettivo di snellire il processo e deflazionare il ricorso al giudice (la cosiddetta “degiurisdizionalizzazione”: tentativo obbligatorio di mediazione, percorsi paralleli incentivati fiscalmente, come la negoziazione assistita da avvocati; aumento del contributo unificato, tale da far gridare alla violazione della garanzia costituzionale di accesso alla giurisdizione). Al di là di modesti riscontri statistici, e dell’indubbio successo della negoziazione assistita in materia di famiglia, separazioni e divorzi inclusi, le cause civili continuano a durare molto e a costare tantissimo (fra spese di giustizia e assistenza legale). Inoltre si è constatato, anche se non lo si ammette volentieri, che la durata dei singoli processi non dipende dal carico processuale: anche quando si riduca sensibilmente, la durata media registra miglioramenti marginali. Il processo è “strutturalmente” lungo, anche se fosse l’unico.
Da trent’anni i governi (nonché molte giunte regionali e amministrazioni comunali) cadono sulla “questione giustizia”, sia pure nella sua accezione più politica. E i cittadini oscillano con disinvoltura dallo sdegno per le corruzioni (altrui) certamente diffuse, ma più percepite che accertate, alla tolleranza per i piccoli favoritismi (considerati) innocui, i concorsi pilotati, le pratiche anticoncorrenziali. Inoltre sulla giustizia confluiscono e si scaricano problemi irrisolti in tutt’altri settori, trasformandola da arbitro delle patologie, che per definizione dovrebbero essere percentualmente marginali, a controllore del traffico di fisiologie impazzite. O addirittura a esecutrice di screening a tappeto, in sostituzione o supplenza degli organi vigilanti, alla ricerca di eventuali reati da perseguire. Compito certamente estraneo alla magistratura e alle procure, che dovrebbero muoversi solo su notizie di reato commesso e individuato (di cui possano essere sconosciuti o solo indiziati gli autori e ignote le motivazioni; e di cui debba essere verificata la sussistenza del reato stesso) e non su ipotesi di reato, compito semmai delle autorità di polizia, e non in veste di polizia giudiziaria delegata dalla pubblica accusa. Si aggiunga, però, che al di là dei casi attivati da eccessi di protagonismo e malintesi ambiti di iniziativa, la maggior parte delle inchieste penali ad ampio spettro traggono la loro origine da esposti circostanziati, che trasferiscono in ambito penale dissidi, contrapposizioni e invidie fra gruppi sociali e politici. Si avviano così, soprattutto a cavallo di Tangentopoli (non nacque forse da una rottura fra coniugi in sede civile, che sfociò in accuse trasmesse al magistrato penale?) e proseguono fino a oggi, invasioni di campo e supplenze giudiziarie che, anziché produrre giustizia, hanno innescato un vero cortocircuito.
Lei stessa, la giustizia, si è scoperta fisiologia impazzita, con l’aggravante del privilegio. Un esempio può chiarire questa affermazione. Decine di professori ordinari, meritevoli o meno, sospesi o meno, sono da anni sotto processo, spesso ancora in fase di indagine preliminare, in varie parti d’Italia, per aver condotto o aver beneficiato di un sistema apparentemente basato sul merito e i concorsi, ma notoriamente costruito sulla cooptazione (dei migliori, nel caso più benevolo) o sul potere baronale (pur con i suoi continui travestimenti e metamorfosi). A condurre le indagini, e in futuro a sentenziare, sono procure della Repubblica e saranno uffici giudiziari i cui titolari, sostituti e componenti sono stati scelti con il meccanismo venuto alla luce dell’appartenenza correntizia (in competizione non leale fra le correnti; e a danno, per comune ammissione, dei non appartenenti o dei più tiepidi) e con la pratica del WhatsApp di volta in volta elemosinante, pretenzioso, devoto, piagnucoloso e infine grato, iroso, deluso o perfino minaccioso (i cui dettagli, in passato immaginati ma ignoti ai più, sono emersi in misura ben superiore alle percezioni e sono diffusi da un anno sui quotidiani, attraverso le trascrizioni delle intercettazioni ambientali trasformate in fogliettoni giornalistici).
Anche a voler negare qualsiasi tipo di reale o potenziale conseguenza o condizionamento nello svolgimento delle attività giudiziarie, quale sostanziale differenza è riscontrabile tra le due pratiche? E non è forse più grave quella di chi, per guarentigia costituzionale, gode di inamovibilità, indipendenza, sostanziale irresponsabilità, sottomissione soltanto alla legge, governo autonomo delle carriere e delle sedi, distinzione solo per funzioni con sostanziale equiparazione e progressione economica, vita professionale natural durante? E, proprio per questo, quanto il malcostume e il cattivo uso di prerogative e privilegi contribuiscono alla sfiducia dei cittadini verso lo stato e verso la giustizia, e li inducono a comportamenti o atteggiamenti anche illegali, nella convinzione, non dichiarata ma abbastanza palpabile, che così fan tutti e gli appartenenti alla casta, a tutte le caste, fanno sicuramente peggio?
Insomma, la crisi della giustizia (ma sarebbe più appropriato dire delle giustizie) è lo specchio del paese e, anziché rappresentare lo scudo virtuoso alle degenerazioni – immunizzato dagli anticorpi della lealtà allo stato-comunità e alla Costituzione, e della scelta di campo per la giustizia, il ripristino dei diritti violati, il risarcimento dei danni materiali e morali subìti dalle vittime, il contrasto alla criminalità economica e a quella organizzata, fino al rischio della propria vita rappresentato dall’esempio di decine di magistrati – sembra subire l’influenza di tutte le patologie di cui soffre l’Italia, anche per non aver mai saputo fare i conti con tutti i limiti della propria storia unitaria, sociale ed economica; con le contraddizioni dello stato, con le deviazioni delle sue istituzioni e dei suoi apparati, con il terrorismo e con lo stragismo. Tutto questo rende ancora più eroi gli eroi (inclusi gli esponenti delle forze di polizia, alcuni avvocati e giornalisti, tutte le vittime del terrorismo, a cominciare dai docenti riformisti che hanno offerto la loro competenza e consulenza a governi di ogni colore, che neppure hanno saputo proteggerli, mostrando persino fastidio per le preoccupazioni di alcuni di loro, tacciandoli di vittimismo: e basti ricordare Marco Biagi, Massimo D’Antona, Giorgio Ambrosoli e anche Walter Tobagi; e con gratitudine i sopravvissuti a lungo minacciati e spesso, tuttora, tenuti in disparte o malsopportati).
A permettere questo scenario hanno avuto un gran peso le degenerazioni dei partiti politici del secolo scorso e alcune scellerate scelte di politica economica e industriale, descritte nei prossimi capitoli. E negli ultimi anni ha esercitato molta influenza il populismo cresciuto su quelle ceneri, nobilitato dagli “onesti” propositi dei girotondini prima; dai raduni al grido di onestà-onestà, poi. Ma nessuna delle tante promesse pro-legalità e con venature giustizialiste è stata mantenuta dagli stessi esponenti del M5S (a eccezione della riforma della prescrizione), ed è poi stata svilita da polemiche gravi nella forma, quanto inappropriate nei toni e nelle sedi in cui si sono manifestate, per poi sostanzialmente ridimensionarsi (non fosse altro, nell’impossibilità di esibire le prove) nelle sedi istituzionali, come la Commissione Antimafia.
Il riferimento è evidentemente alla vicenda del magistrato Di Matteo, già pubblica accusa nel controverso processo stato-mafia, che da ministro guardasigilli (o perfino dell’Interno) in pectore si è ritrovato prima candidato a capo dipartimento, poi designato a una direzione generale di antico prestigio e ridotto peso, ovviamente rifiutata, divulgata con due anni di ritardo e solo in coincidenza delle dimissioni del collega che prevalse, dimissioni motivate proprio dalla gestione dei detenuti per reati di criminalità organizzata. La vicenda, i cui dettagli qui non è rilevante approfondire, ha contribuito ad aggravare la crisi di fiducia nelle istituzioni e nella giustizia (oltre che nella forza politica che semplicisticamente aveva ritenuto di poter ripristinare ogni legalità violata, grazie alla bacchetta magica dell’investitura popolare, anticamera di un esercizio artigianale della democrazia diretta, in verità molto “diretta” e poco democratica). Il caso è emblematico anche per un motivo: è avvenuto tutto all’interno di un movimento politico, in relazione a persone scelte per le loro qualità (anche presunte o simboliche), le quali avevano gradito l’operazione di avvicinamento. Nessuna interferenza o strumentalizzazione da parte delle opposizioni, che hanno assistito con incredulità mista a compiacimento.
Solo il sovranismo pare non aver influenzato la giurisdizione, rimasta in posizione sostanzialmente antagonista (incluse le invasioni di campo in ambito politico emerse da alcune intercettazioni), ferma restando – per fortuna – l’autonomia di giudizio di singoli giudici, espressa peraltro in modi contrastanti, in vicende obiettivamente controverse come gli sbarchi di stranieri soccorsi in mare. Un problema serio del nostro tempo, in cui né l’Italia né l’Europa hanno mai saputo trovare una sintesi equilibrata fra ragioni umanitarie, costi dell’accoglienza, gestione della protezione e dell’asilo, deterioramento delle condizioni di vita e mancato rispetto della dignità umana in alcuni paesi del Nordafrica privi di organizzazione statuale ovvero costituiti in stati autoritari. Il tutto a conferma di una distorsione già evidenziata: la giustizia viene caricata, espressamente o tacitamente, di tutte le questioni lasciate irrisolte dalla politica; ma poiché le decisioni politiche omesse non sempre possono tradursi in sentenza, e poiché il magistrato sente o talvolta si compiace di essersi avventurato sul terreno politico, si innesca il cortocircuito e si manifestano gli squilibri ai quali assistiamo, la cui soluzione non si intravede all’orizzonte.
L’incertezza del diritto
Lo scenario fin qui descritto, ampiamente incompleto, dà forse un’idea della crisi e delle sue origini risalenti nel tempo. Per poter avanzare qualche proposta, però, occorre accennare anche al rapporto fra la giustizia e altri ambiti dell’ordinamento, a prescindere dalle relazioni pericolose con la politica. Senza dimenticare quanto si è già accennato: ogni carenza nell’ordinamento, ogni supplenza perseguita o concessa, ha sempre un’origine e una responsabilità politica e della politica. La prima di tali responsabilità è quella di aver travolto i confini tra politica e istituzioni, che al di là delle apparenze erano molto più rispettati (pur con una buona dose di ipocrisia) nella prima Repubblica. Il peso delle segreterie politiche dei partiti sul governo e ovviamente in parlamento è sempre stato elevato; ma era esterno. Un provvedimento voluto dai partiti della maggioranza, o voluto dal governo e accettato dai partiti che lo sostengono, veniva scritto con il contributo o sotto la dettatura dei partiti politici (in relazione al peso di ciascuno) ma poi entrava in Consiglio dei ministri, e lì veniva discusso, eventualmente modificato e approvato. I partiti, poi, lo ritrovavano in parlamento, dove ovviamente si riapriva la discussione e si confrontavano i pesi numerici e quelli politici.
Ora in Consiglio dei ministri, dopo settimane di discussione apparentemente pubbliche e realmente coperte, approdano bozze di provvedimenti “necessari e urgenti” (requisiti dei decreti legge) approvati “salvo intese”. Significa che gli articoli non ancora scritti, o su cui non ci sia consenso, verranno scritti altrove, senza il bilanciamento e il confronto nel luogo istituzionale; e solo qualche tempo dopo, anche settimane, saranno trasmessi al Quirinale per essere emanati dal presidente della Repubblica e poi trasmessi al parlamento per la conversione in legge. In pratica i giovani partiti, sorti sulle ceneri della prima o perfino della seconda Repubblica, “dettano legge” molto più dei partiti storici del Novecento. Come possa essere definito urgente (e perciò approvato in forma di decreto) un testo discusso anche per due mesi, inframezzati dal passaggio “salvo intese” in Consiglio dei ministri prima di pervenire in parlamento, resta un mistero assoluto. La cui soluzione, tuttavia, sarebbe semplice. Basterebbe che il presidente della Repubblica, pubblicamente o con la moral suasion intimamente connessa alla carica e alla funzione, facesse sapere che non emanerà più decreti legge viziati da tale anomalia procedurale, a prescindere dal loro contenuto.
Non si tratterebbe neppure di un inedito, perché da vent’anni (presidenze Ciampi e Napolitano, e anche in pochi casi Mattarella) si contano almeno una dozzina di casi formalizzati in lettere e messaggi ai governi e ai presidenti di Camera e Senato, e in pochi casi di rifiuto di emanazione del decreto o di promulgazione della legge di conversione. Perché, poi, il peggio avviene in fase di conversione, con il sostanziale esproprio della funzione legislativa. Nella maggior parte dei casi il governo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. (RI)COSTRUZIONE
  4. Introduzione. Un paese da (ri)costruire
  5. Riscoprire la politica per fare scelte coraggiose
  6. Giustizia, dalla crisi di fiducia all’Alta velocità
  7. Nuove povertà e nuovi paradigmi
  8. La sussidiarietà orizzontale
  9. Il ruolo della scuola nella formazione delle giovani generazioni
  10. Riformare il lavoro per dar vitaa un “cantiere per i giovani”
  11. Un fondo infrastrutturale per sostenere l’economia
  12. Il settore metallurgico strategico per l’Italia
  13. Energia, sistema elettriconazionale e società delle reti
  14. Aerospazio, difesa e sicurezza: un settore strategico in Europa e un’opportunità per il nostro paese
  15. La sanità asset strategico del paese
  16. La politica estera e le relazioni internazionali: l’Italia e il Mediterraneo
  17. Conclusione. Una proposta per ripartire
  18. Ringraziamenti
  19. Copyright