Il mio Professore
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Il mio Professore

Come l'incontro con un grande uomo può salvarti e cambiarti la vita

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Il mio Professore

Come l'incontro con un grande uomo può salvarti e cambiarti la vita

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Una diagnosi di cancro al seno a quarantotto anni, all'apice della carriera: l'annuncio, lo smarrimento, la caduta di tutte le certezze. E un incontro con un uomo speciale: il professor Umberto Veronesi che, oltre a salvargliela, la vita gliela cambierà. Lei è la paziente 0, la prima paziente dello IEO, operata mentre ancora fervono i lavori di completamento di quella struttura d'eccellenza nella cura dei tumori che sta sorgendo alla periferia sud di Milano. Rosanna guarisce e la riconoscenza, oltre alla vicinanza intellettuale con l'uomo che l'ha curata, la convince a farsi coinvolgere in molte delle campagne civili che in quegli anni il Professore intraprende.
Ne nasce un rapporto solido di stima reciproca che non può prescindere però dal momento in cui tutto è cominciato, la circostanza del primo incontro. Chi meglio di lei allora può raccontare Veronesi dalla prospettiva delle pazienti? Ognuna di loro possiede un pezzo del Professore, ognuna di loro ne conserva un ricordo particolare e lo considera "suo" per ciò che le ha dato e lasciato durante la cura della malattia. E Rosanna si fa portavoce di tutte queste storie per ricostruire quella di un grande uomo, prima che un grande medico.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858525401
Argomento
Medicina
1

L’inizio

Quando tutto va alla grande

Ero all’apice del mio percorso professionale, avevo due figlie di cui ero molto orgogliosa e che riuscivo a mantenere bene, nonostante fossi separata, e con le quali riuscivo a comunicare malgrado i turbolenti conflitti dell’adolescenza. Abitavo a Milano, avevo un cane, in casa c’era una tata che mi dava una mano. Funzionava tutto alla perfezione.
Ero, e sono tuttora, una persona organizzata: per questo motivo, nella mia routine avevo inserito un controllo periodico di screening mammografico da effettuare una volta all’anno, su indicazione del mio ginecologo.
Il controllo doveva essere periodico perché il tumore al seno mi aveva portato via una zia e colpito mia madre (poi vissuta ancora per molti anni).
Nel 1994 il mio controllo era fissato per il 15 giugno alle 17: si incastrava male nella mia agenda perché avevo altro da fare, ma tant’è. In generale, degli appuntamenti per la mia mammografia non mi ricordavo mai. Li facevo per routine, erano in agenda e stavano lì fermi, fino all’anno successivo. Di solito.
Sulla mia agenda, invece, c’era un gran viavai di appuntamenti con clienti, aziende, giornalisti e associazioni di consumatori. Avevo una mia società di relazioni pubbliche, con cui gestivo i rapporti tra le aziende e le Istituzioni, la stampa e i consumatori: l’avevo fondata anni prima e, dal 1991, un grande gruppo americano aveva rilevato parte delle mie quote perché credeva nello sviluppo economico del nostro Paese e nel bisogno di reputazione delle imprese italiane nel contesto internazionale.
Con il mio team (quasi tutte donne) eravamo in grande fermento per mantenere il passo con l’impegno che avevamo preso con gli investitori e con le opportunità che presentava il nostro Paese, ancora lontano dal sentore della crisi che sarebbe arrivata nel decennio successivo.
In quegli anni la mia agenzia aveva a che fare con il mondo ben rappresentato dal famoso slogan “Milano da bere”: apparire è più importante che essere. Era un susseguirsi di eventi e feste ma, contemporaneamente, iniziava l’ondata di “Mani pulite”. L’era Craxi stava concludendosi e il mercato poneva molta fiducia nella ripresa con la “Seconda Repubblica”. La voglia di trasparenza serviva a tutti e la mia società si occupava di marchi importanti che cercavano nel nostro Paese riconoscimento, reputazione e un buon governo del sistema delle relazioni con i media, con gli opinion leader e con coloro che erano in grado di influenzare l’opinione pubblica. La mia agenzia faceva proprio quello.
Il 15 giugno stavo lavorando alla presentazione di un piano di comunicazione importante per un grande gruppo alimentare svizzero, con consegna l’indomani; non avevamo ancora terminato il documento e sull’agenda il mio controllo al centro diagnostico spezzava il pomeriggio. Allora non era facile lavorare da remoto, non c’erano connessioni, quindi si procedeva ancora con gli appunti e la ribattitura delle cartelle. Non avrei avuto il tempo per lasciare l’ufficio, fare la mammografia e tornare per chiudere il documento. Così, con Maria, l’amministratore delegato della mia società, decidemmo di andarci insieme. Avrei staccato un attimo per l’esame, ma intanto che aspettavo il mio turno avremmo potuto darci da fare.
Lavorare per me non è mai stato un peso, anzi. Ho sempre amato la mia professione e ho sempre avuto la fortuna di trovare persone con la stessa visione per il lavoro, la famiglia, la vita. Finire il documento in sala d’attesa era una cosa che ci poteva capitare e così Maria e io lasciammo l’ufficio – io in taxi, lei con il suo inseparabile motorino – dandoci appuntamento al centro diagnostico. Dovevo aspettare una buona mezz’ora prima che toccasse a me: un bel passo avanti nella stesura del nostro documento. Perfetto.
Arriva il mio turno: passo il fascicolo a Maria, così lei potrà continuare il progetto durante la mia assenza, e mi avvio. Entro nella sala visite, mi spoglio, conosco già il rituale: le istruzioni del tecnico, poi la macchina investigatrice, un po’ invasiva, schiaccia i miei seni per vedere bene fino in fondo se c’è qualcosa da ispezionare. Mi fa male ma non importa: quel che conta è finire alla svelta. Fuori dalla porta c’è un bel progetto che mi attende nelle mani di Maria e voglio raggiungerla al più presto. Il mio pensiero è oltre la parete, non è con questo grande abbraccio di metallo di colore giallo-ocra, un po’ freddo, scomodo e con quell’appendice che proietta su uno schermo le immagini del mio seno al radiologo dal lato opposto del vetro. Il mio corpo, il mio seno fanno parte della diagnosi, la mia mente è da un’altra parte.
Sto pensando a tutto, ma non al significato vero di ciò che sto facendo, all’indagine che qualcuno sta svolgendo sul mio corpo. Non mi sfiora nemmeno l’idea che da quelle ispezioni possano arrivare brutte sorprese e da lì conseguenze negative. Leggerezza? Sì, forse un po’. Incoscienza? Anche. Pensiero positivo? Senz’altro. Perché io veda il bicchiere mezzo vuoto deve esserci veramente solo una goccia!
Finita la mammografia, mi rivesto e torno in fretta nella sala d’attesa da Maria. Dobbiamo stare lì ancora un po’ finché non mi comunicheranno quando potrò ritirare l’esito degli esami e fissare il prossimo appuntamento, tra un anno.
Il radiologo tarda a uscire: non ci faccio caso, tanto sto già parlando con Maria per capire quanto tempo dovremo dedicare ancora alla chiusura del documento.

«Signora, si fermi un attimo…»

Si apre la porta. Esce il radiologo: “Bene,” penso “adesso ritiro e possiamo andare!”. Invece mi dice: «Signora, si fermi un attimo, dobbiamo fare un ulteriore controllo…».
Guardo Maria negli occhi e capiamo in un lampo che il radiologo non vuole solo fare due chiacchiere con me. È una doccia gelata: il suo volto non è teso o preoccupato, ma è chiaro che quel suo «si fermi un attimo» non si può discutere e che c’è qualcos’altro da fare. È quello il momento in cui entro finalmente in contatto con il centro diagnostico, con il motivo per il quale sono lì, con il significato di quell’indagine ulteriore, mentre il documento da completare passa in decima posizione. Prima devo fermarmi un attimo.
«Maria, vai pure, io devo restare qui.» Lei era solita eseguire senza discutere; era sempre d’accordo con me, avevamo la stessa visione del nostro lavoro e forse mi dava credito per i 15 anni di esperienza in più che avevo rispetto a lei. E così, anche quella volta, accolse il mio invito senza tante parole. Ma ricordo ancora perfettamente il suo incedere lento mentre scompariva dietro la porta a vetri. Il suo corpo indicava con chiarezza che stava camminando verso l’uscita, ma che questa volta non mi avrebbe voluto assecondare: avrebbe preferito restare con me.
Ed eccomi davanti al medico per l’ulteriore controllo: non ricordo nulla di quel colloquio se non che avrei dovuto obbedirgli perché doveva approfondire ciò che gli sembrava di intravedere. Un’altra indagine… – captavo parole – … da un’ecografia si può vedere meglio. Vedere cosa? Non lo sapevo, non lo immaginavo, non capivo.
La seconda indagine la feci subito. Mi spogliai di nuovo e mi adagiai sul lettino. La sonda, il gel, su un seno e poi sull’altro. Scomodo, fastidioso, non volevo stare lì. Volevo andare a casa, dove le mie figlie mi stavano aspettando per la cena. Si stava facendo tardi. Quando mi alzai e mi rivestii per uscire, nella sala d’attesa non c’era più nessuno. Ricordo le ultime parole del radiologo: «Faremo avere il referto al suo ginecologo entro una settimana. Buona serata».
Uscii. Un taxi mi aspettava, salii in macchina e mi diressi verso casa.
È strano, ma non ho il più vago ricordo delle sensazioni provate in quei momenti. Quel «buona serata» mi lasciò un vuoto che non sapevo giudicare o attribuire. Non ricordo ansia né preoccupazione, né paura: avevo solo, appunto, un gran senso di vuoto. Ero come sospesa in una realtà che non sapevo decifrare. Stavano esaminando e approfondendo per verificare se quelle macchie che avevano identificato potessero essere il segnale di un cancro. Ma io non stavo partecipando a quell’indagine: ero distaccata, distante, in osservazione. Avevo scelto di non farmi coinvolgere.
Venticinque anni fa non si sapeva granché di questa malattia, se non che era un “male incurabile”. E io, a conferma di questo, sapevo solo che quando ero ragazzina mi aveva portato via una zia amatissima e che nel 1991 aveva strappato dalla vita una donna meravigliosa di 51 anni, Ricki, moglie di mio fratello e mamma di due ragazzini adolescenti. Ma, nonostante questo, avevo deciso di non pensarci fino al giorno del referto.
Tornai a casa. Rientro solito: feste del cane, «Ciao ragazze!», «Ciao mamma».
Francesca e Anna in camera, una a giocare, l’altra a leggere. Un bacio e poi subito in cucina a riscaldare la cena che la tata, la mitica Vittoria, aveva preparato. E poi a tavola, noi tre. Facevamo sempre un gioco: a turno, dalla più piccola alla più grande, dovevamo raccontarci nell’ordine la cosa brutta, la cosa media e la cosa bella della giornata. Io quella sera dissi che la cosa più bella era il fatto di essere noi tre insieme a cena. Non feci accenno alla visita.
Ma la sera, a letto, feci fatica a dormire. Ripensavo al documento per la presentazione del giorno dopo: non ero soddisfatta, i pensieri si rincorrevano, insieme ai frammenti confusi di piccole emozioni mentre osservavo, dal balcone della mia camera da letto, le luci della città e ascoltavo il silenzio della notte.
2

La presa di coscienza

La diagnosi

Era passata una settimana dalla mia visita al centro diagnostico e non conoscevo ancora l’esito degli esami. Avevo passato quei giorni tra le mille attività dell’agenzia: le scadenze, gli eventi da organizzare e la presentazione della famosa proposta al grande gruppo alimentare svizzero. Il progetto era stato accettato ed eravamo alle prese con la pianificazione delle attività.
Ero arrivata a casa abbastanza presto, quella sera. Anna era a casa e Francesca non era ancora rientrata dalla biblioteca dove era andata a studiare.
Suona il telefono di casa. Rispondo.
«Buonasera Rosanna, sono il dottor S. Ho ricevuto gli esiti del suo esame. Purtroppo, si tratta di un carcinoma mammario ed è consigliabile intervenire subito.»
«Scusi? Non ho capito.»
«L’esame evidenzia un tumore al seno sinistro, che va operato subito.»
Non riesco più a muovermi, non mi esce una parola dalla bocca. Rimango paralizzata, muta. Ricordo solo di avere avuto la forza di chiedergli: «Ora cosa devo fare? Da chi vado?».
«Deve cercare un chirurgo e poi le consiglierà lui cosa fare. Io la informo che non potrò più seguirla perché d’ora in avanti rientrerà in un altro protocollo di cura.»
Un po’ di convenevoli e la telefonata si chiude così. Sono sconvolta.
Non capivo il significato né le conseguenze di una malattia sconosciuta come quella. L’unica cosa che conoscevo allora era che di cancro si moriva e basta! Il mio primo pensiero andò alle mie figlie: erano troppo giovani (19 e 14 anni) per restare senza mamma e io non volevo lasciarle. In un attimo, l’elenco di tutte le cose che stavo per perdere si allungava e, finalmente, arrivarono il pianto e la disperazione.
Mia figlia Anna si era avvicinata e aveva seguito, senza capire cosa stava succedendo, il mio stato d’animo, la mia paura, le mie lacrime. Tra un singhiozzo e l’altro le spiegai il senso della telefonata del ginecologo e dell’esame della settimana precedente. Mi resi subito conto che non potevo spaventarla; ma ero sola e non sapevo con chi confrontarmi né come affrontare quella malattia, né come gestirne la comunicazione alle mie figlie.
Per non escludere Francesca e per non far pesare la notizia ad Anna, le chiesi se mi sarebbe stata vicina quando lo avrei detto a Francesca. Andai in bagno a cercare di dare un senso alle parole, ma non riuscivo a preparare il discorso, quello con le parole giuste. Pensavo anche che quel discorso lo avrebbe dovuto sentire pure Anna, nella speranza di cancellare il suo shock dopo che aveva avuto la notizia tra le mie lacrime e la mia paura. Francesca entrò in casa e le raccontai della telefonata, questa volta cercando di sminuire il senso della notizia. Non ci sono parole giuste o sbagliate per dire “ho un cancro”. Quella sera non facemmo il gioco delle cose brutta, media e bella che ci erano capitate nella giornata.
La ricerca del medico e dell’ospedale non si presentava semplice. Avevo ritirato l’esito dei miei esami e sapevo cosa avevo. Sapevo per modo di dire, poiché allora non c’era internet, non c’erano associazioni pazienti, il mio ginecologo mi aveva “scaricata” e poi non era facile dichiarare di avere un tumore: chi si fosse trovato di fronte alla notizia avrebbe reagito come chi incontra una persona che sarebbe morta il giorno dopo. Chiamai il medico di base che mi indicò genericamente l’Istituto dei Tumori di Milano.
Quello lo conoscevo bene. Era stato per sei mesi la “casa di cura” di mio papà che aveva un brutto tumore ai polmoni. Nonostante cure impeccabili, l’istituto aveva dichiarato la propria impotenza fino a concedergli una morte serena nella sua casa, circondato dall’amore della sua famiglia. Ricordo che andava a fare i cicli di chemioterapia con la sua Fiat 500 gialla, da solo e con grande dignità. Ricordo che quando tornava, ogni volta mi diceva: «Sai Rosanna, la cosa che mi fa provare più dolore quando vado in via Venezian non è tanto il fatto di sapere che, dopo le cure, starò male e mi sentirò ogni volta più debilitato. Il dolore maggiore è vedere entrare e uscire da quelle sale i bambini».
Mentre me lo diceva guardava con gli occhi umidi di lacrime mia figlia Francesca che allora aveva solo 5 anni.
Di mio padre ho dei ricordi meravigliosi, legati prevalentemente alla sua generosità, alla sua f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL MIO PROFESSORE
  4. Prefazione. di Paolo Veronesi
  5. 1. L’inizio
  6. 2. La presa di coscienza
  7. 3. Il ricovero
  8. 4. La cura
  9. 5. La prima visita e la terapia
  10. 6. Le relazioni attraverso la malattia
  11. 7. Un periodo importante, a cavallo del nuovo millennio
  12. 8. La comunicazione: un terreno di incontro comune
  13. 9. La comunicazione nel sociale
  14. 10. L’advocacy entra nella mia vita
  15. 11. «Più siamo, più contiamo»: la forza della voce delle donne
  16. 12. Donne che hanno conosciuto il cancro
  17. 13. Il Professore e il cinema
  18. 14. Il giorno in cui è mancato
  19. 15. I tanti medici
  20. 16. Terzo tempo
  21. 17. “Il mio Veronesi”
  22. Conclusioni
  23. APPENDICE
  24. Ringraziamenti
  25. Copyright