Non ricordavo com’ero arrivata nel mio letto. Nel buio, il mal di testa mi schiacciava sul cuscino. Mentre cercavo di rifugiarmi nell’incoscienza, sentii una lingua che si avventurava sul mio seno. Sulla mia pancia vagava una mano diretta in mezzo alle mie gambe. Dopo un po’ capii che i denti che mi mordicchiavano i capezzoli e la mano che mi frugava non appartenevano alla stessa persona. Un dito insistente cercava di svegliarmi. Solo quando dal seno la lingua invadente si sollevò fino alla bocca gridai: «Basta!».
Tra le lenzuola scompigliate c’erano due uomini più giovani di me. I loro volti non esprimevano altro che libidine. Il pene di uno di loro era in un notevole stato di erezione. «Che gattina inferocita» sussurrò lascivo mentre mi si avvicinava.
L’altro rideva istericamente. Sentirlo sghignazzare mi fece andare in bestia. Presi una bottiglia di gin che era sul comodino e gliela tirai addosso. L’uomo si piegò. La bottiglia rotolò per terra.
Mi avvolsi nel lenzuolo. Li spinsi giù dal letto. Dopo che fui riuscita a coprire la mia nudità con la stoffa spiegazzata, uno dei due mi lanciò un’occhiata implorante e prese a strisciare sul pavimento.
«Avete avuto quello che volevate! Fuori da casa mia!» urlai.
«Che temperamento...» Al tizio che strisciava le risate morirono in gola. «Sei impazzita?» Quando strappai la lampada dalla presa e gliela roteai contro ammutolì. «Sei stata tu a invitarci. Piantala di fare tutto questo casino.»
Nella mia testa vagavano vari pensieri. Mi sentivo confusa. Non ero più sicura di niente. Come mai li avevo portati qui? Ricordavo vagamente che la sera prima li avevo fatti bere dalla mia scarpa, mi ero lasciata baciare sul collo. Non sapevo come si chiamavano, ma loro mi davano del tu. Non ricordavo di avere fatto sesso con loro. Anche se il mio corpo diceva che mi ero lasciata fare parecchie cose. Mi facevano male i seni. I capezzoli erano gonfi, infiammati, sicuramente erano stati bruciati con delle sigarette. In mezzo alle gambe avevo i carboni ardenti.
«Chiamo la polizia.» Afferrai il telefono. «O ve ne andate da soli?» aggiunsi più piano.
«Ma siamo in mezzo alla campagna» disse piano lo Strisciante, con quegli occhi da cucciolo fedele.
«Me ne frego di come tornate.»
«C’è gente anche nelle altre stanze. Sbatti fuori anche loro?» chiese con un sorriso furbo.
Le gambe molli, uscii dalla stanza da letto.
Qualcuno aveva vomitato sul divano bianco in sala. Sopra c’erano sdraiate delle ragazze mezze nude e due produttori che conoscevo. In cucina un tizio stava preparando delle uova strapazzate. La moka borbottava. In biblioteca c’erano delle tipe che ridacchiavano. Qualcuno aveva acceso la tv a tutto volume. «Beviamo agli errori...» si lamentava Rysiek Rynkowski.a
«Ecco la nostra star!» gridò Zbyszek, il mio agente. Aveva il mio accappatoio buttato sul corpo nudo. Era attorniato da ragazze semisvestite.
«Buongiorno» li salutai con voce sepolcrale.
Chi era quella gente? La maggior parte non la conoscevo. Mi sentivo sotto assedio, sperduta e vecchia, davanti a quelle diciottenni pronte a tutto per un episodio in qualche stupida serie tv. Sognavano quello che io avevo già: poter fare un’orgia in casa propria per poi non ricordare nulla. Senza dubbio grazie a tutte quelle pillole, alcol e droghe che spuntavano fuori da non si sa dove.
«E arrivederci. Fine della festa» dissi, evitando di guardare la compagnia. Mi avete rotto, avrei voluto aggiungere. Ma mi limitai a uscire.
«Nika, che cazzo ti prende? Oggi è domenica, il giorno del Signore» buttò lì da dietro le mie spalle un tizio di cui non sapevo nemmeno il nome. Gli altri scoppiarono a ridere. «Da quando sei tornata dall’America sei andata fuori di testa! La stella nascente di Hollywood non vuole più avere a che fare con lo show business polacco» ironizzò.
Con uno scatto, tirai uno schiaffo al rammollito. Corsi alla cassetta bianca vicino all’uscita: «Chiamo la sorveglianza. Vi buttano fuori così come siete».
«Ma se da sola non sai neanche accendere la luce» disse con una risata Jakub, forse l’unico che indossava la giacca.
Lo guardai e mi sentii male. Aveva appesa al braccio, come un manichino, una bellissima ragazza con i capelli biondi arruffati e lo sguardo annebbiato. Era fatta. Sembravano padre e figlia. Vidi in lei la me stessa di un tempo. Guardando Jakub negli occhi, digitai il codice e premetti il bottone rosso.
«Avete dieci minuti» dissi e salii le scale.
Chiusi la porta senza guardarmi indietro. Sapevo che sarebbero usciti. Mi avvolsi nel lenzuolo e mi sedetti al computer.
È stato proprio in quel momento che ho deciso di scrivere questo.
Forse mi aiuterà a capire come ho potuto perdermi nei meandri dei miei sogni e diventare una persona così diversa da ciò che ero. Come ho potuto svegliare il mostro dormiente sotto la mia pelle, nutrito per anni con il mio stesso sangue, che ora esige dalla mia vita l’ennesima vittima. Confessarmi su internet protetta da un nickname. Cercare l’assoluzione raccontandomi a tutti e a nessuno. E senza alcuna penitenza per i miei peccati.
Dovevo liberarmi da tutte le mie maschere, altrimenti sarei esplosa, lo sentivo. E il pensiero di purificarmi era un sollievo.
In casa si stava placando il pandemonio. Per un po’ si udirono delle voci, poi cadde il silenzio. Quando bussò la sorveglianza, non c’era più nessuno.
«Scusate, vi pagherò per il disturbo, ma ora è tutto a posto. Non ho bisogno di niente» dissi ai due forzuti armati fino ai denti.
Gli spacciai il mio sorriso falso numero 37 e mi avvolsi più strettamente nel lenzuolo, così che potessero sbirciare con discrezione i contorni del mio seno ritoccato e il piede dalle unghie laccate.
Funzionò, ovviamente. Uno di loro mormorò: «Siamo qui per questo. Scriveremo che l’intervento era giustificato».
Sorrisi di nuovo e sbattei la porta.
Restai sola. Come sempre. Ma così mi sentivo più sicura. Non dovevo recitare. Nasciamo, viviamo e moriamo soli: da adolescente me l’ero fatto stampare su una maglietta. E poi anche: Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, il credo di Kurt Cobain. Si era fatto fuori al culmine della fama, alla stessa età che avevo io ora. Considerai l’appartamento con lo sguardo. Mi resi conto che quel campo di battaglia rispecchiava la mia vita. Distrutta, contaminata. Sconosciuti, amanti estranei che non possedevano me, ma l’attrice di soap opera che aveva creduto di essere una star.
Per l’appunto. Presi in mano la lettera dell’agenzia CAA. Data, timbro, Santa Monica. Firma. Avevo già letto quello che c’era scritto, forse venti volte. Avevo perso all’istante tutte le mie illusioni. Non credevo più a nulla. Era questo l’inizio della fine? Entrai nel bagno. Girai i rubinetti e per un momento il fragore dell’acqua scrosciante sovrastò i miei pensieri ossessivi. Osservavo il liquido trasparente nel quale stavo per immergermi. Non vedevo l’ora di lavare via quella sostanza viscida che mi s’incollava all’anima e la colorava di nero. Era così tanta che s’incominciava a vedere anche all’esterno, nella realtà. Non controllavo più le sue manovre ostinate. L’indomani avrei perso qualche contratto. Il mostro avrebbe preso il timone. Non volevo più combatterlo, perché sapevo già che ne sarei uscita sconfitta. Ma continuavo a chiedermi dove fosse finita, quella ragazza che non era famosa, ma che era se stessa. Che ne avevo fatto? Ne sentivo la mancanza, pur sapendo che il passato era l’unica cosa su cui non potevo intervenire.
Distesi le gambe e le braccia nell’acqua, appoggiai la testa al bordo in acrilico della vasca. La luce mi disturbava, quindi chiusi le palpebre. Immersi nell’acqua i capelli, le guance, lasciai che mi coprisse gli occhi. Dopo un momento feci spuntare di nuovo la testa in superficie. Mi strofinai il viso. Là sotto c’era un silenzio così meraviglioso. Presi fiato, lentamente cadevo sul fondo della vasca. Piano, piano, sempre più piano.
Sott’acqua, nel silenzio, mi sentivo accolta senza riserve. Non volevo più uscire, nemmeno quando iniziò a mancarmi l’aria e sentii un dolore acuto alle orecchie. Poi mi venne questo pensiero irrazionale: “Sarà stato un bello spettacolo vederli scappare a culo nudo nelle loro auto esclusive”. Schizzai fuori da sott’acqua come proiettata da una catapulta, ridendo a crepapelle. Mi avvolsi in un asciugamano e sgocciolando dappertutto mi misi a cercare il telecomando della tv. Mentre guardavo le pozzanghere bagnate intorno ai miei piedi, sentii dagli altoparlanti dell’apparecchio: «Ti amo, Sergio! Come puoi essere tanto crudele?».
«Ti amo, Sergio! Come puoi essere tanto crudele?» singhiozzava con voce teatrale la donna, facendo a brandelli la foto dello spasimante. «Tu ami mia sorella Leila, non me! La mia vita non ha più senso» singultava.
Da un campo lungo l’inquadratura si strinse su un primo piano del viso dell’eroina della serie. Amanda si sfregò gli occhi con un fazzolettino con il monogramma e si avvicinò al piano di lavoro della cucina. Con le mani curate prese un coltello. La lama scintillò, mentre lei se la passava sul polso. Cadde sul costoso pavimento a motivi arabi.
Taglio. Titoli di coda. Dagli altoparlanti sgorgò una musica latinoamericana.
Lidia Daniluk, vedova di sessant’anni, restò seduta immobile nell’oscurità ancora un momento. Solo quando la musica fu sostituita dallo strepito del jingle che annunciava la pubblicità, si alzò e tolse l’audio al televisore. Diede un’occhiata all’orologio: erano quasi le sette di sera. Si guardò il viso segnato dalle rughe nello specchio. Aveva ancora gli occhi arrossati da un pianto silenzioso. I capelli intrecciati, avvolti attorno alla testa all’ucraina, erano completamente bianchi. Tirò fuori un rossetto rosso. Lo passò leggermente sulle labbra per rendere il viso più espressivo. Si mise a girare per la cucina: accese il bollitore per il tè e cominciò a preparare i panini. Non voleva che il figlio, rientrando di lì a poco dal lavoro, capisse che aveva pianto. Le sembrò di sentire il rumore di un motore, poi vide l’auto blu con le insegne della ditta di sorveglianza.
«Hai di nuovo frignato guardando Amanda?» chiese Borys ridendo, appena oltrepassata la soglia della casetta bianca. Alto, spalle larghe, viso dalla mascella pronunciata, zigomi sporgenti e angolosi. Nei suoi occhi di un verde intenso c’era un sorriso malizioso. «Ora comincia la tua serie. Chissà quale buona azione farà oggi suor Joanna. A proposito, mica brutta la suorina» disse.
«Dovresti guardarla anche tu. È un buon esempio da seguire. E cercano comparse.» Lidia gli parlava come a un bimbo piccolo. «Dovresti presentarti, guadagneresti qualche złoty. Chissà, magari hai talento come attore!»
«Sì, sì, vado al casting e mi danno subito una parte da protagonista!»
Si sentiva sempre meglio quando vedeva il figlio: un uomo di venticinque anni, che per l...