L'apicultore di Aleppo
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L'apicultore di Aleppo

  1. 304 pagine
  2. Italian
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L'apicultore di Aleppo

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Si può restare attaccati a un sogno, quando tutto il resto è perduto? Le api non avevano segreti per Nuri, negli anni felici della sua vita ad Aleppo: le conosceva, ne sapeva interpretare le danze, i ritmi, l'incredibile miracolo della loro società perfettamente unita. La sua vita, in Siria, era semplice e insieme ricca; lui si occupava delle arnie, sua moglie Afra inventava mille colori per dipingere il mare con le sue mani e i suoi occhi di artista, il piccolo Sami giocava tranquillo. Ma poi la Siria ha cominciato a cadere a pezzi, e così la famiglia di Nuri. Adesso, Sami non c'è più, e Afra è diventata cieca: nei suoi occhi, che hanno improvvisamente smesso di vedere, Nuri rivede ogni giorno il suo stesso dolore, e tutto ciò che, insieme, hanno perduto. Ma negli occhi color del miele di sua moglie, Nuri trova anche dell'altro: una ragione per resistere, per lottare, per continuare a vivere. Lottare per lei come per la piccola ape senza ali che adesso Nuri sta curando proprio lì, in Inghilterra, dove lui e Afra sono arrivati dopo un viaggio pericoloso e straordinario. Un viaggio che Nuri ha voluto intraprendere per seguire l'unico sogno che gli resta. Quello di tornare, un giorno, a sentire la risata di Afra, che era la cosa più bella del mondo. Sulla scia de Il cacciatore di aquiloni, L'apicultore di Aleppo è stato l'evento editoriale del 2019, tuttora ai vertici delle classifiche inglesi e in corso di traduzione nel mondo. Un romanzo commovente, importante e coraggioso, che parla di speranza e di amore. L'amore che, da solo, è in grado di farci vedere di nuovo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858522806

1

Ho paura degli occhi di mia moglie. Lei non vede fuori e nessuno può vederle dentro. I suoi occhi sono come pietre, pietre grigie, pietre di mare. Guardatela. Guardate come se ne sta seduta sul bordo del letto, la camicia da notte in terra, a rotolarsi fra le dita la biglia di Mohammed in attesa che io la vesta. Me la prendo comoda a infilarmi calzoni e camicia, perché sono così stanco di doverla vestire. Guardate le pieghe della sua pancia, ambrate come miele del deserto, più scure nei solchi, e le lievi, lievissime linee d’argento sulla pelle dei suoi seni, e i minuscoli tagli che le segnano la punta delle dita, dove un tempo le creste e le valli erano macchiate di colori a olio, azzurro, giallo o rosso. Un tempo la sua risata era d’oro, si vedeva oltre che sentirla. Guardatela, perché credo che lei stia scomparendo.
«Ho avuto una notte di sogni frammentati» dice. «Riempivano la stanza.» I suoi occhi fissano un punto appena alla mia sinistra.
«In che senso?»
«Erano sogni a pezzi, sparsi dappertutto. Non capivo se ero sveglia o dormivo. I sogni invadevano la stanza come uno sciame. E non riuscivo a respirare.»
La guardo in faccia, confuso. Ancora nessuna espressione. Non le dico che io ormai sogno soltanto di uccidere, ed è sempre lo stesso sogno; siamo solo io e quell’uomo, impugno la mazza e la mano mi sanguina; lui è in terra sotto gli alberi e mi dice qualcosa che non riesco a sentire.
«E mi fa male» dice lei.
«Dove?»
«Dietro gli occhi. Un dolore tremendo.»
Mi inginocchio davanti a lei e guardo nei suoi occhi. C’è il vuoto lì dentro, e mi spaventa. Tiro fuori di tasca il telefono e le punto negli occhi la luce della torcia. Le pupille si dilatano.
«Non vedi proprio niente?» chiedo.
«No.»
«Nemmeno un’ombra, un cambio di tono o di colore?»
«Solo nero.»
Rimetto in tasca il telefono e mi allontano da lei. Da quando siamo qui è peggiorata. È come se la sua anima stesse evaporando.
«Puoi portarmi dal dottore?» chiede. «Perché il dolore è insopportabile.»
«Ma certo» le dico. «Presto.»
«Quando?»
«Appena arrivano i documenti.»
Sono contento che Afra non possa vedere questo posto. Anche se le piacerebbero i gabbiani, il modo folle in cui volano. Ad Aleppo il mare è lontano. Sì, sono sicuro che questi uccelli le piacerebbero, e forse anche la costa, perché lei è cresciuta sul mare mentre io vengo dalla parte orientale di Aleppo, dove la città incontra il deserto.
Quando ci siamo sposati ed è venuta a vivere con me le mancava così tanto il mare che si era messa a dipingere l’acqua, ovunque ne trovasse. L’intera regione arida della Siria è costellata di oasi e ruscelli e fiumi che si riversano in paludi e laghetti. Prima che nascesse Sami seguivamo l’acqua, e lei la dipingeva a olio. C’è un quadro del fiume Quwayq che mi piacerebbe rivedere. L’aveva fatto sembrare uno scarico per l’acqua piovana che scorreva attraverso il parco. Afra aveva il dono di scorgere la verità nel paesaggio. Il quadro, e il suo misero fiume, mi ricordano la lotta per la sopravvivenza. A una trentina di chilometri a sud di Aleppo il fiume si arrende all’arida steppa siriana ed evapora nelle paludi.
I suoi occhi mi fanno paura. Ma le pareti umide, e i fili elettrici sul soffitto e i cartelloni... non so come li prenderebbe, se potesse vedere. C’è un cartellone proprio qui davanti, dice che siamo in troppi, che quest’isola sprofonderà sotto il nostro peso. Sono contento che sia cieca. Fa impressione che io lo dica, lo so! Se potessi darle una chiave per aprire la porta su un altro mondo, allora vorrei che tornasse a vedere. Ma dovrebbe essere un mondo molto diverso da questo. Un mondo sul quale il sole sta per sorgere, tingendo appena le mura della città vecchia e le casette addossate le une alle altre, e le ville e i palazzi e gli alberghi e i vicoli e i mercati all’aperto, dove migliaia di collanine appese risplendono a quella prima luce, e infine il deserto, ancora più in là, oro su oro e rosso su rosso.
Ci sarebbe anche Sami, che ancora sorride e corre fra i vicoli con le scarpette da ginnastica consumate, gli spiccioli in mano per andare a comprare il latte al negozio. Se mai vi capitasse di veder morire qualcuno, non guardatelo negli occhi. Cerco di non pensare a Sami. Ma Mohammed? Il piccolo Mohammed con gli occhi nerissimi. Il bambino che viaggiava da solo. Ancora aspetto che trovi la lettera e i soldi che gli ho lasciato sotto il barattolo di Nutella. A Sami non riesco a pensare. Però mi aspetto di rivedere Mohammed. Mi aspetto che un giorno sentirò bussare alla porta e quando andrò ad aprire me lo troverò davanti e gli dirò: «Ma come hai fatto ad arrivare fin qui, Mohammed? Fino in Inghilterra? Come hai fatto a trovarci?».
Ieri nel bagno comune ho visto un ragazzo, riflesso nello specchio offuscato dal vapore. Aveva una maglietta nera, e un’aria familiare, ma quando mi sono girato era soltanto l’uomo arrivato dal Marocco, che pisciava seduto sulla tazza. «Dovresti chiudere la porta a chiave» mi ha detto nell’arabo del suo paese.
Non ricordo il suo nome, ma so che viene da un posto vicino a Taza, ai piedi delle montagne del Rif. L’altra sera mi ha detto che forse lo manderanno al centro di espulsione in un posto che si chiama Yarl’s Wood, o almeno così gli ha detto l’assistente sociale. Oggi la incontrerò io. Il marocchino dice che è bellissima, che assomiglia a una ballerina di Parigi con cui ha fatto l’amore una volta in un albergo di Rabat, molto prima di sposare sua moglie. Mi ha chiesto della vita in Siria. Gli ho raccontato delle mie arnie ad Aleppo.
La sera la padrona di casa ci porta il tè con il latte. Il marocchino è vecchio, avrà ottanta o forse novant’anni. Ha l’aspetto e l’odore del cuoio. Legge How to Be a Brit e a volte sorride fra sé. Tiene il cellulare in grembo e alla fine di ogni pagina si ferma e lo controlla, ma non lo chiama mai nessuno. Non so chi stia aspettando e come sia arrivato qui e come mai abbia fatto un viaggio del genere alla sua età, perché sembra uno in attesa di morire. Non sopporta che i non musulmani piscino in piedi.
Siamo una decina, in questo bed & breakfast malridotto vicino al mare, tutti provenienti da paesi diversi, tutti in attesa. Può darsi che ci tengano, può darsi che ci mandino via, ma ormai non possiamo più decidere granché. Quale strada prendere, di chi fidarci, se alzare di nuovo la mazza e uccidere un uomo. Tutte cose del passato. Si dissolveranno in fretta, come il fiume.
Dalla gruccia nell’armadio prendo l’abaya di Afra. Lei mi sente e si alza, le braccia sollevate. Sembra invecchiata, adesso, però si comporta come fosse più giovane: è come se fosse tornata bambina. I suoi capelli hanno il colore e la consistenza della sabbia: li abbiamo dovuti tingere per le foto, per renderla meno araba. Glieli raccolgo in una crocchia e le avvolgo la testa nello hijab, che fermo con una molletta mentre lei guida le mie dita, come fa sempre.
L’assistente sociale arriverà all’una, e tutti i colloqui si svolgeranno in cucina. Vorrà sapere come siamo arrivati qui e cercherà un pretesto per mandarci via. Ma so che se le dirò le cose giuste, se riuscirò a convincerla che non sono un assassino, allora ci verrà concesso di restare perché noi siamo quelli fortunati, quelli che arrivano dal posto peggiore del mondo. Il marocchino non ha altrettanta fortuna; lui deve fornire altre prove. È seduto in salotto vicino alla portafinestra, con un orologio da tasca fra le mani, lo culla come se covasse un uovo. Lo fissa, in attesa. Di cosa? Quando si accorge della mia presenza dice: «Non funziona, sai. Si è fermato su un altro tempo». Lo solleva in piena luce reggendolo per la catena e lo fa dondolare dolcemente, quell’orologio fermo, fatto di

bronzo

era il colore della città sotto di noi. Abitavamo in una casetta con una camera da letto in collina. Dall’alto si vedevano bene l’architettura disordinata e lo splendore di cupole e minareti, e in lontananza spuntava la cittadella.
In primavera era bello starsene seduti in veranda; si sentiva il profumo di terra del deserto e si vedeva il sole rosso che tramontava. D’estate invece ce ne stavamo dentro con il ventilatore, un asciugamano bagnato in testa e i piedi in una catinella d’acqua fredda, perché il calore era quello di un forno.
In luglio la terra si inaridiva, ma in giardino avevamo albicocchi e mandorli e tulipani e iris e fritillarie. Quando il fiume si seccava scendevo fino allo stagno per l’irrigazione a procurarmi l’acqua per il giardino, per mantenerlo in vita. In agosto era come tentare di rianimare un cadavere, così guardavo le piante che morivano e si fondevano con il terreno. Quando era più fresco facevamo una passeggiata e guardavamo i falchi che solcavano il cielo verso il deserto.
Avevo quattro arnie in giardino, impilate una sopra l’altra. Non sopportavo di stare lontano dalle api. Le altre erano in un campo alla periferia est di Aleppo. La mattina mi svegliavo prestissimo, prima del sole, prima del richiamo alla preghiera del muezzin. In auto percorrevo i quaranta chilometri per raggiungere gli apiari e arrivavo quando il sole stava per sorgere, i campi pieni di luce, il ronzio delle api un’unica nota purissima.
Le api formavano una società ideale, un piccolo paradiso nel caos. Le operaie coprivano grandi distanze per procurare il cibo, si spingevano fino ai campi più lontani per raccogliere il nettare dai fiori di limone e di trifoglio, dalla nigella e dall’anice, dagli eucalipti e dal cotone, dal biancospino e dall’erica. Mi prendevo cura delle api, le allevavo, controllavo le arnie per evitare infestazioni o malattie. A volte ne costruivo di nuove, dividevo le colonie o allevavo le regine: prendevo le larve da un’altra colonia e osservavo le api nutrici che le crescevano a pappa reale.
Dopo, durante la stagione del raccolto, controllavo le arnie per vedere quanto miele avessero prodotto le api, poi collocavo i favi negli estrattori e riempivo le vasche di raccolta, eliminando i residui per vedere il miele dorato che c’era sotto. Era mio dovere proteggere le api, farle crescere sane e forti mentre loro si incaricavano di produrre il miele e impollinare la terra per mantenerci vivi.
Era stato mio cugino Mustafa a introdurmi all’apicultura. Suo padre e suo nonno erano stati apicultori nelle verdi vallate a ovest della catena dell’Anti-Libano. Mustafa era un genio con il cuore di un bambino. Aveva studiato fino a diventare professore all’Università di Damasco, dove conduceva ricerche sulla composizione del miele. Continuamente in viaggio tra Damasco e Aleppo, mi aveva chiesto di occuparmi dei suoi apiari. Mi aveva insegnato moltissimo sul comportamento delle api e come trattarle. Le api locali erano rese aggressive dal caldo, ma lui mi aveva mostrato come capirle.
Quando l’università chiudeva nei mesi estivi Mustafa mi raggiungeva a tempo pieno ad Aleppo; insieme lavoravamo sodo, per ore e ore: alla fine pensavamo come api, mangiavamo persino come api! Ci nutrivamo con polline mescolato con il miele, per continuare a lavorare con quel caldo.
All’inizio, quando avevo solo vent’anni ed ero ancora inesperto del lavoro, le nostre arnie erano fatte di materia vegetale ricoperta di fango. In seguito avevamo rimpiazzato gli alveari di corteccia di sughero e terracotta con cassette di legno, e ben presto arrivammo ad avere ben cinquecento colonie. Producevamo almeno dieci tonnellate di miele all’anno. C’erano così tante api, e mi facevano sentire vivo. Quando mi allontanavo da loro era come se una grande festa finisse. Anni dopo, Mustafa aprì un negozio nella parte nuova della città. Oltre al miele, vendeva cosmetici a base di miele, ricche creme dal dolce profumo e saponi e prodotti per capelli, tutti derivati dalle nostre api. Aveva avviato quell’attività per sua figlia. Anche se all’epoca era ancora piccola, era convinto che da grande avrebbe studiato agraria proprio come suo padre. Così Mustafa chiamò il negozio “Il paradiso di Aya” e le promise che un giorno, se si fosse impegnata negli studi, sarebbe diventato suo. Le piaceva venire in negozio e annusare i saponi e spalmarsi le creme sulle mani. Era molto sveglia per la sua età. Ricordo che una volta aveva detto: «Il mondo profumerebbe come questo negozio se non esistessero le persone».
Mustafa non voleva una vita tranquilla. Si impegnava continuamente per avere di più e sapere di più. Non ho mai conosciuto un altro come lui. Per quanto l’attività fosse cresciuta – avevamo clienti importanti in Europa, in Asia e nel Golfo – ero sempre io a occuparmi delle api, era di me che si fidava. Diceva che avevo una sensibilità rara che a molti mancava, che capivo i loro ritmi e i loro comportamenti. Aveva ragione. Avevo imparato ad ascoltarle davvero, e parlavo con loro come se fossero un unico corpo vivo con un solo cuore perché, dovete sapere, le api lavorano sempre insieme e, persino quando alla fine dell’estate i fuchi vengono uccisi dalle operaie per risparmiare le riserve di cibo, lavorano comunque come un’unica entità. Comunicano fra loro con una danza. Mi ci sono voluti anni di strenuo lavoro per comprenderle, ma quando ci sono riuscito il mondo attorno a me non ha più avuto lo stesso aspetto né lo stesso suono.
Ma con il trascorrere degli anni il deserto avanzava lentamente, il clima diventava più ostile, i fiumi si inaridivano, i contadini non ce la facevano più; solo le api resistevano alla siccità. «Guarda queste piccole guerriere» diceva Afra quando veniva a visitare gli apiari con Sami. «Guarda come continuano a lavorare mentre tutto il resto sta morendo!» Pregava per la pioggia, pregava sempre per la pioggia perché temeva le tempeste di sabbia e la siccità. Quando stava per arrivare una tempesta di sabbia, dalla nostra veranda vedevamo il cielo sopra la città che diventata viola, e nell’aria risuonava un sibilo profondo, e Afra correva a chiudere tutte le porte di casa, sbarrava le finestre e fissava le imposte.
Ogni sabato andavamo a cena a casa di Mustafa. Dahab e Mustafa cucinavano insieme e lui misurava meticolosamente sui piatti della bilancia ogni ingrediente, ogni spezia, come se il più piccolo errore potesse rovinare il pasto. Dahab era alta quasi quanto il marito, gli si piazzava accanto e scuoteva la testa come le avevo visto fare con Firas e Aya. «Sbrigati» gli diceva. «Sbrigati! A questo ritmo mangeremo direttamente sabato prossimo.» Lui canticchiava fra sé me...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’APICULTOREDI ALEPPO
  4. 1
  5. bronzo
  6. 2
  7. Aleppo
  8. 3
  9. la notte
  10. 4
  11. Istanbul
  12. 5
  13. il mare
  14. 6
  15. un fuoco
  16. 7
  17. le onde
  18. 8
  19. l’alba
  20. 9
  21. la canzone
  22. 10
  23. il mattino
  24. 11
  25. la speranza
  26. 12
  27. una chiave
  28. 13
  29. via
  30. 14
  31. Nota dell’autrice
  32. Ringraziamenti
  33. Per approfondire
  34. Copyright