Melania Trump
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Melania Trump

La biografia

  1. 304 pagine
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Melania Trump

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Bella e ammaliante e allo stesso tempo misteriosa e indecifrabile. Ammirata e invidiata, ma anche derisa e duramente criticata. Che tipo di donna e first lady è Melania Trump? Molti osservatori e commentatori si chiedono: È felice? Perché non sorride quasi mai? Cosa si cela dietro quella sua algida freddezza? Secondo Kate Bennett, volto noto della CNN e unica giornalista ad avere accesso a lei e alla sua famiglia, Melania è un grande enigma. Il libro racconta il dietro le quinte della first lady più insolita della storia degli Stati Uniti e ripercorre le tappe fondamentali della suavita e della sua relazione con Donald Trump. Dall'infanzia comunista in Slovenia, al mestieredi modella, prima a Milano e Parigi poi a New York, fino all'incontro galeotto con l'attuale presidente americano. E poi gli anni alla Casa Bianca e i suoi rapporti con Ivanka, figlia prediletta di Trump, e con lo staff presidenziale. Per scoprire che forse la first lady non è così ininfluente, come molti credono, sulle scelte del celebre marito. Un grande racconto popolare che mescola scandali e retroscena, ambizioni e fragilità del personaggio («Non compatitemi. Posso affrontare qualsiasi cosa»), scelte di vestiario oramai iconiche e discorsi divenuti celebri (nel bene e nel male). Nell'anno delle elezioni, a novembre 2020, il focus su Donald Trump e sulle sue strategie elettorali sarà massimo. Tutti punteranno il dito sul presidente. Tutti guarderanno a come si muoverà Melania. E chissà che quello che dirà o farà nei prossimi mesi non risulti determinante per la vittoria o la sconfitta del candidato repubblicano...

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Informazioni

1

Il discorso

«Non compatitemi. Posso affrontare qualsiasi cosa.»
MELANIA TRUMP
Quando la moglie di un candidato alla presidenza tiene un discorso importante (come quello alla convention nazionale del partito, ad esempio), può farlo in due modi: uno giusto e l’altro sbagliato. Il modo giusto è prepararlo con uno o più speechwriter di lunga data, cercare la maniera più efficace per comunicare un messaggio e fare varie stesure del testo prima di arrivare a quella definitiva che, nel migliore dei casi, viene approvata già settimane prima del grande evento. In questo modo, il discorso ha tutto il tempo di essere esaminato dall’intera catena di comando. Per cominciare viene rivisto dagli assistenti della campagna elettorale, che, in base alla loro esperienza, lo commentano e modificano, lo allungano o lo accorciano, propongono suggerimenti e ne limano il tono. Il team di comunicazione del candidato passa poi in rassegna ogni singola riga e aneddoto riportato in modo da scongiurare potenziali gaffe o minacce nascoste. Solo allora il discorso arriva sulla scrivania del capo dello staff dell’aspirante presidente, al quale in genere spetta l’ultima parola, e infine viene letto dal candidato per l’okay definitivo. Qualsiasi modifica questi dovesse suggerire tornerà al capo dello staff, il quale, per evitare screzi tra i coniugi, si farà carico di proporla.
Quando la moglie, o il marito, di un candidato alla presidenza sale sul palco, quindi, il suo discorso è stato letto da almeno una ventina di persone, che avranno dato ciascuna il proprio contributo, e molte di queste sanno benissimo quali sono le corde giuste da toccare per infiammare la sala durante l’uscita pubblica più attesa del candidato in corsa per la Casa Bianca.
In genere gli aspiranti First Lady o First Gentleman non hanno uno speechwriter personale per la campagna elettorale, ma si affidano a uno o più membri del team del candidato.
Non Michelle Obama. Lei aveva la sua.
Sarah Hurwitz, laureata in legge a Harvard, è stata la speechwriter di Michelle Obama per quasi un decennio, dopo aver lavorato per Hillary Clinton e John Kerry. Il segreto, a suo dire, era lasciar “marinare” le parole e le idee di Michelle, poi sedersi alla tastiera e dar loro forma. Le due parlavano a lungo del tema oggetto del discorso, analizzavano il luogo in cui si sarebbe tenuto, il pubblico che avrebbero avuto davanti e il tono da adottare. Spesso era la First Lady a suggerire le argomentazioni, che venivano poi elaborate dalla Hurwitz. La speechwriter doveva entrare nella testa di Michelle, conoscere la sua storia e gli aneddoti personali a cui attingere e trasformare un’idea appena abbozzata in un discorso capace di suscitare l’adorazione delle folle. La sua voce doveva dissimularsi alla perfezione perché quella della Obama potesse risaltare.
È opinione di molti che Sarah Hurwitz abbia consacrato la propria vita alla stesura dei discorsi per Michelle. Il suo, in effetti, era più di un semplice lavoro: le parole che scriveva avrebbero costituito l’eredità di una delle First Lady più amate della storia recente. Del resto, Michelle Obama è stata una moglie “politica”, in grado di spostare l’ago della bilancia della popolarità del marito. La Hurwitz era consapevole della delicatezza dell’incarico che le era stato affidato, ma conosceva anche molto bene la sua committente. Uno dei primi discorsi che scrisse per lei, pronunciato alla convention nazionale democratica del 2008 a Denver, in Colorado, fu tra i più importanti e difficili della sua carriera. Le settimane dedicate alla stesura, le ore trascorse ascoltando i racconti di Michelle sulla sua infanzia a Chicago, la miriade di bozze seguite alla prima versione, i minuti che precedettero la sua apparizione sul palco: tutto avrebbe contribuito a rendere quello di Michelle il discorso di maggior risalto, e successo, della convention. Ma questo, in fondo, era prevedibile. Ciò che invece la Hurwitz non poteva prevedere era che il frutto del suo duro lavoro sarebbe stato usato dalla moglie di un altro candidato, che quasi otto anni più tardi ne avrebbe ripreso i passaggi più sentiti ed emozionanti.
Meno di un’ora dopo aver lasciato il palco di Cleveland, in Ohio, dove aveva tenuto il suo discorso alla convention nazionale repubblicana del 2016, Melania Trump fu inchiodata da un giornalista di Los Angeles, Jarrett Hill. «Melania ha rubato un intero paragrafo del discorso di Michelle. #GOPConvention» twittò Hill, linkando il video di Melania e una foto del discorso di Michelle Obama alla convention democratica del 2008 in cui aveva evidenziato il pezzo plagiato.
«Che devi lavorare sodo per ottenere ciò che vuoi nella vita, che la parola data è un vincolo, che devi mantenere le promesse e trattare ogni persona con rispetto» aveva detto Melania, parlando di ciò che le avevano insegnato i suoi genitori.
E Michelle?
«Che devi lavorare sodo per ottenere ciò che vuoi nella vita, che la parola data è un vincolo, che se prometti una cosa devi mantenerla e che ogni persona va trattata con dignità e rispetto, anche se non sei d’accordo con lei.»
«Dobbiamo trasmettere questi insegnamenti alle generazioni future,» continuava Melania «perché i figli di questa nazione sappiano che l’unico limite che hanno di fronte è la forza dei loro sogni e la volontà di lavorare sodo per realizzarli.»
Il discorso di Michelle era sostanzialmente identico. «Io e Barack abbiamo deciso di vivere secondo questi valori e di trasmetterli alla prossima generazione. Perché vogliamo che i nostri figli – e tutti i bambini di questa nazione – sappiano che l’unico limite che hanno di fronte è la portata dei loro sogni e la volontà di lavorare sodo per realizzarli.»
Fu un momento a dir poco imbarazzante.
Per tre o quattro ore dopo il tweet di Hill, lo staff della campagna elettorale di Trump rimase paralizzato e incredulo. Stando a un membro del team con cui ho parlato, nessuno di loro aveva visto una copia del discorso di Melania prima che lo pronunciasse. Nessuno. Era inaudito. Ma i tempi erano stretti e le persone che lavoravano alla campagna insufficienti. E anche ammesso che qualcuno lo avesse letto, il che in effetti sarebbe potuto accadere all’insaputa della mia fonte, evidentemente non aveva fatto tutti i controlli del caso o non possedeva le competenze politiche necessarie per farli. Se il discorso fu rivisto, ed è difficile che lo sia stato, a nessuno venne in mente di confrontarlo con i più recenti discorsi delle mogli dei candidati alla presidenza. Per farla breve: non c’era modo più sbagliato di tenere un discorso su un palcoscenico così importante.
«Aspettate, ma ha proprio...?» si sussurrarono l’un l’altro. «No, è impossibile...» E invece sì, lo aveva fatto.
Il plagio era ancora più sconcertante perché per il resto Melania aveva fatto un ottimo lavoro, esprimendosi in modo chiaro e con parole (di chiunque fossero) sincere e appassionate. Aveva scelto il tono giusto per presentarsi al paese e ai repubblicani più irriducibili, molti dei quali prima di quella serata non sapevano niente della terza moglie del loro candidato, se non che era una donna bellissima ed elegante.
Melania si era aperta, spogliandosi per la prima volta della sua corazza di riservatezza. Aveva parlato del suo paese d’origine, la Slovenia, dei genitori – la madre, che le aveva trasmesso la passione per la moda, e il padre, da cui aveva ereditato l’interesse per i viaggi e gli affari – e della sua ancor più sconosciuta sorella, Ines. Sono pronta a scommettere che il 99 per cento del pubblico in ascolto ignorava persino che ne avesse una. Melania aveva portato sul palco anche un pizzico di glamour, quanto bastava per ispirare una certa invidia “aspirazionale”, quella a cui in genere mirano le riviste di moda: non eccessiva al punto che le lettrici invidino sul serio l’attrice in copertina, ma abbastanza da spingerle a interessarsi alla sua crema per il viso, a come e quanto si allena e alla marca dei vestiti che indossa. «Quando facevo la modella ho viaggiato in tutto il mondo» raccontò Melania con il suo marcato accento straniero. Disse di aver vissuto a Parigi e Milano, pronunciando in modo corretto il nome della città italiana.
Il suo tubino bianco era firmato dalla stilista serba Roksanda Ilinčić. Semplice e originale al tempo stesso: le maniche a sbuffo appena sopra i gomiti e una discreta cerniera sul retro le davano un tocco di femminilità, senza rinunciare al sex appeal. La Ilinčić, come Melania, era nata in un paese della ex Jugoslavia e lo aveva lasciato. È improbabile, tuttavia, che la moglie di Trump avesse scelto di proposito un abito di Roksanda in virtù delle comuni origini con la stilista; verosimilmente lo aveva visto online, le era piaciuto e lo aveva ordinato al prezzo di listino di 2.190 dollari. (Il giorno dopo, comunque, era esaurito.)
Al di là del vestito bianco – e dello sfacciato messaggio subliminale che veicolava, quello di volersi presentare come la sposa d’America –, con il suo discorso Melania riuscì ad assestare ai conservatori tutti i colpi giusti. Parlò della cittadinanza statunitense ottenuta nel 2006 e del suo amore per il paese. La folla si scatenò. Quando arrivò al passaggio in cui ringraziava i veterani, indicando l’ex senatore Bob Dole, icona del partito repubblicano, la platea si abbandonò ad applausi e cori patriottici, andando letteralmente in visibilio quando lo stesso Dole si fece aiutare ad alzarsi dalla sedia a rotelle per farle un cenno di gratitudine.
Melania concluse il discorso descrivendo suo marito come un leader nato, un combattente, la star televisiva che vuole offrire a tutti l’opportunità di essere come lui. È un duro, ammise, ma ha anche un grande cuore. Soltanto lei poteva sostenere una cosa simile con un minimo di credibilità. È un tipo tosto, certo, ma Melania assicura che in privato è un tenerone.
Disse che suo marito desiderava un futuro più prospero per tutti, a prescindere dalla razza e dall’estrazione sociale, e che aveva a cuore l’intero genere umano. Mentre il resto del paese, in particolare l’America di Hillary Clinton, accoglieva quelle parole con sconcerto, nell’arena, circondata dai suoi fan veri o presunti, Melania riuscì a chiudere brillantemente la partita: «Io ho visto da vicino il talento, l’energia, la tenacia, l’intraprendenza e la bontà d’animo che Dio ha donato a Donald Trump». E concluse con una profezia: «Ci saranno tempi felici, momenti difficili e svolte inaspettate. Senza emozioni e colpi di scena non sarebbe una competizione degna di Trump».
E non scherzava.
Prima del discorso di Melania, Trump aveva introdotto di persona la moglie, una scelta inconsueta, visto che in genere i candidati si tengono ai margini della convention fino all’ultima serata, dedicata al loro intervento. Non lui. «Signore e signori, è per me un grande onore presentarvi la prossima First Lady degli Stati Uniti d’America. Mia moglie, una madre e una donna straordinaria: Melania Trump.» Lei era salita sul palco sulle note di We Are the Champions dei Queen, mentre il marito seguiva in diretta il discorso da una stanza privata nel backstage. «Sta andando alla grande» disse a uno dei suoi assistenti, che lo ricorda orgoglioso e persino vagamente sorpreso dalle doti oratorie di Melania. Forse un po’ troppo sorpreso. Chi si aspettava un discorso così bello e avvincente? Di certo nessuno di quelli che erano nella stanza con Trump, perché nessuno di loro lo aveva letto. Melania aveva informato il marito e i suoi più stretti collaboratori di voler scrivere lei stessa il discorso e fare tutto, nei limiti del possibile, senza alcun aiuto esterno. Lo staff aveva accolto la richiesta con ammirazione. Ma se ci fosse stato anche un solo esperto nella squadra di Trump si sarebbe opposto strenuamente a quell’idea, e avrebbe fatto di tutto per impedirne la realizzazione. In una fase così delicata della campagna presidenziale è già tanto consentire al candidato o a uno dei suoi familiari di fare qualunque osservazione estemporanea, figurarsi scriversi da solo il discorso per la convention nazionale del partito.
Eppure Melania espresse il desiderio di procedere in autonomia e Trump ordinò alla sua squadra di lasciarla fare.
Quando salì sul palco per baciare la moglie e scortarla fuori dall’arena, entrambi erano al settimo cielo, raggianti sotto i riflettori. Il candidato repubblicano aveva permesso alla consorte di fare sfoggio della sua indipendenza di fronte a una vasta platea. E lei era riuscita nell’impresa quasi impossibile di farlo sembrare simpatico, umano.
Poi si diffuse la notizia del plagio. Alcune decine dei 1.800 follower di Hill la ritwittarono, seguite da altre centinaia di persone, che presto divennero migliaia. Melania aveva tenuto il discorso lunedì 18 luglio. Entro venerdì 22 la storia aveva fatto il giro del mondo, e Hill era ormai una star. Il numero dei suoi follower era lievitato e tutti i media, dalla CNN al «New York Times», gli riconoscevano il più grande scoop della settimana della convention. Porca miseria, la donna che vuole diventare First Lady ha copiato il discorso dell’attuale First Lady. Era un titolo sensazionale servito su un piatto d’argento.
Melania, nel frattempo, era distrutta. «Fuori di sé», come mi ha riferito uno dei suoi assistenti. Ma non c’erano state porte sbattute, vasi in frantumi, accessi di rabbia o strigliate allo staff. Al contrario, Melania era disperata e prostrata dal senso di colpa. «Sentiva di aver deluso la squadra» racconta una persona coinvolta nella campagna elettorale di Trump. «Lei voleva solo salire su quel palco, offrire una bella performance e segnare un punto a favore del marito.» Melania non cercava un capro espiatorio, a differenza di Trump, che invece era deciso a incolpare qualcuno: chi aveva lasciato che succedesse una cosa simile? Perché sua moglie era stata abbandonata a se stessa? In fondo era per quello che avevano ingaggiato tutti quegli assistenti – sottopagati e senza esperienza –, inveì il candidato, per assicurarsi che cose del genere non accadessero.
La verità è che, se anche Melania lo avesse chiesto, nessuno avrebbe potuto darle una mano. Il “team” di Trump era formato da meno di dieci persone, quasi tutte senza la minima competenza politica. Rispetto a Hillary Clinton, che poteva contare su una squadra con anni di esperienza e numerose campagne elettorali alle spalle, Trump era praticamente solo. «Già soltanto per gestire lui avevamo tutti otto milioni di cose da fare» mi ha confidato uno dei consulenti di punta della campagna di Trump, ammettendo che il personale era del tutto insufficiente. «Eravamo troppo pochi. Siamo riusciti a malapena a prepararlo per la convention repubblicana. E non sto esagerando.» Melania e il suo discorso erano passati in secondo piano, malgrado l’aspirante First Lady fosse al gran debutto nella vita pubblica.
Trump, dal canto suo, si era profuso in scuse con la moglie. «Era molto dispiaciuto, si sentiva responsabile di quello che era successo» mi ha riferito un ex assistente. Era arrabbiato, certo, ma non con lei. Voleva che Melania fosse sempre serena e a suo agio.
Chiunque lo conosca bene, infatti, assicura che Donald Trump fa del suo meglio perché la moglie non viva il suo ruolo come un peso, nei limiti del possibile.
Mentre lui strisciava di fronte a Melania, rammaricato di averla messa in una condizione di vulnerabilità perché il suo team mancava dell’esperienza o della competenza necessarie a revisionare il suo discorso, lei era avvilita. «Lui era sinceramente dispiaciuto, lei si sentiva in colpa» afferma un ex assistente. Per usare una metafora trumpiana, il candidato aveva appena tagliato il nastro inaugurale di un grattacielo che sembrava scintillante e perfetto, salvo poi crollare – anzi, implodere – perché gli operai avevano dimenticato di costruire le impalcature che servivano a sostenerlo.
Forse la cosa peggiore era che Melania non sapeva che stava ripetendo a pappagallo il discorso di Michelle Obama. L’autrice principale del suo intervento era una donna di nome Meredith McIver, una “scrittrice” dello staff della Trump Organization che era stata anche la ghostwriter dei libri di Donald, tra cui Trump 101, Trump. How to Get Rich e Trump. Think Like a Billionaire. Trump sostenne di aver affidato alla McIver la stesura dei suoi libri perché lei era solita sedersi fuori dal suo ufficio e «la mia porta è sempre aperta, quindi Meredith sentiva tutto».
La McIver conosceva Melania. Era la moglie del capo e lei una delle sue assistenti: era una di famiglia, per così dire. Nei ringraziamenti di Think Like a Billionaire la ghostwriter aveva persino menzionato Melania “Knauss” (all’epoca lei e Donald non erano ancora sposati) e la sua «cordiale assistenza». Dunque tra le due donne c’era un rapporto.
A Melania, peraltro, non interessava condividere il suo grande momento con il team della campagna elettorale, visto che non conosceva né apprezzava particolarmente quasi nessuno di loro, a eccezione di Sean Spicer. Sulle prime le fu suggerito di rivolgersi a uno degli speechwriter del partito repubblicano, e le furono sottoposte due bozze scritte da professionisti, che però non erano state di suo gradimento. E, proprio come suo marito, non era incline a fidarsi di chi non conosceva di persona. Ecco perché scelse Meredith McIver.
L’ostinazione di Melania nel voler scrivere il discorso da sola aveva trasformato la McIver in una risorsa, o almeno così si pensava. Se alla moglie del candidato non piaceva l’idea di esprimersi con le parole di uno speechwriter sconosciuto, affidarsi a una “scrittrice” che go...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. MELANIA TRUMP
  4. Prefazione. di Marianna Aprile
  5. Nota dell’Autrice
  6. Introduzione
  7. 1. Il discorso
  8. 2. La sostenitrice riluttante
  9. 3. Il video
  10. 4. La ragazza slovena
  11. 5. Donald
  12. 6. La fidanzata
  13. 7. Diventare la signora Trump
  14. 8. Le nozze del secolo
  15. 9. Family First, First Family
  16. 10. Semplicemente Melania
  17. 11. La Casa Bianca
  18. 12. Una First Lady indipendente
  19. 13. Cordiale, ma non intimo
  20. 14. Il plotone d’esecuzione
  21. 15. La East Wing: l’ala ben organizzata della Casa Bianca
  22. 16. Il matrimonio
  23. 17. Una stanza tutta per sé
  24. 18. Problemi di salute
  25. 19. La moda
  26. 20. L’effetto Melania
  27. Ringraziamenti
  28. Copyright