Cosa rischiano i nostri figli
eBook - ePub

Cosa rischiano i nostri figli

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Cosa rischiano i nostri figli

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

L'incertezza di una generazione Nell'epoca dell'incertezza, tra i giovani serpeggia un grande malessere, mascherato da benessere. Un segnale chiarissimo è la dipendenza digitale: l'abuso dello smartphone può portare a disturbi del sonno, a stati di panico e di ansia, a isolarsi dagli amici, dalla famiglia e da ogni attività sociale o sportiva. Una vera e propria malattia che in Italia coinvolge ormai un adolescente su dieci. Paolo Del Debbio ci invita ad aprire gli occhi. Ci racconta le storie di ragazzi la cui esistenza virtuale è arrivata a confondersi con quella reale e ci insegna a riconoscere i campanelli d'allarme della dipendenza.
Anche senza contare i casi patologici, troppo spesso la vita dei "nativi digitali" è tanto ricca di stimoli social quanto apatica, priva di slanci e di interessi reali: un viaggio senza meta e senza bussola. Precarietà del lavoro e mancata indipendenza economica si sommano alla crisi di valori fondanti come quelli cristiani o delle grandi ideologie politiche. E se la Rete finisce per sostituire le tradizionali fonti di approvvigionamento culturale e sociale, il rischio più grande è quello di allevare generazioni deboli nelle capacità di scelta, privata e pubblica.
Non è un fenomeno inesorabile, ma i divieti e i rimproveri non servono a contrastarlo. Dobbiamo invece sforzarci di far immergere i nostri figli nella vita vera, perché crescano a contatto con la strada, la natura e la gente in carne e ossa, non con le foto "filtrate" su Instagram; perché sentano la pelle d'oca dell'empatia profonda, non le emozioni artefatte dei social network. Più liti vere e più riappacificazioni vere, più amori folgoranti, più successi e più smacchi. Una volta provata la bellezza della vita, persino le sue inevitabili asperità la renderanno preferibile alla sua copia virtuale, povera e sbiadita.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Cosa rischiano i nostri figli di Paolo Del Debbio in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Éducation e Théorie et pratique de l'éducation. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858523421
1

Con una scheggia in tasca

A volte, per fare un passo in avanti, bisogna farne uno indietro. Per capire quello che ci sta succedendo, spesso occorre ripensare alla nostra storia passata. Capita, ad esempio, negli amori. Ripensando alle nostre esperienze, ci rendiamo più facilmente conto di quello che non sta funzionando, di come correggere il tiro, se e perché siamo caduti negli stessi errori, di cosa andiamo a cercare nell’altro che l’altro stesso non ci può dare, o di decidere, magari dolorosamente, che una storia non può avere un futuro. Ebbene, quello che facciamo sul piano personale lo possiamo fare anche sul piano pubblico.
Può capitare, infatti, che ci sembri normale, chiusi nella nostra quotidianità, qualcosa che normale non è. Può darsi che ci paia normale che i nostri figli passino molto del proprio tempo sui social network, piuttosto che nella vita concreta. E invece normale non è; è anzi rischioso, molto rischioso.
Anche per questo, penso che ci possa essere utile partire dalla storia di Ermanno, un uomo vissuto in un altro mondo, rispetto al nostro, in un’altra Italia, molti anni fa, oltre ottanta. È una storia esemplare, tanto distante dall’ambiente nel quale si trovano a vivere i nostri figli, che – come guardando in uno specchio – ci può aiutare a capire quanto siamo diversi, e cosa ci sia in gioco.

La storia di Ermanno

In Toscana, non troppo distante da Lucca, c’è un piccolo borgo, a circa seicento metri sul livello del mare, circondato da boschi di castagni e di noci. Si chiama Vico Pancellorum. È sovrastato da un monte, il Balzo Nero, ed è l’ultimo paese sul lato destro della Val di Lima, dove scorre il torrente che dà il nome alla valle e che parte dal passo dell’Abetone per confluire nel Serchio dopo averla solcata per tutta la sua lunghezza. Eugenio Montale la descrive così:
Fra il tonfo dei marroni
e il gemito del torrente
che uniscono i loro suoni
esita il cuore…
Non si sa bene perché Vico Pancellorum si chiami così. Alcuni sostengono che il nome provenga da panicellum, diminutivo di panicum, cioè panìco, una pianta graminacea coltivata anche per foraggio in erbai estivi. Una leggenda vuole, invece, che il nome provenga dai fratelli Pancelli che, esuli da Roma, fondarono il paese in un momento non ben precisato. A noi piace pensare che abbiano ragione gli abitanti del borgo per i quali proverrebbe da Panis coelorum, “pane dei cieli”, con riferimento all’Eucaristia. In effetti i paesani si sono tramandati, di generazione in generazione, la fede e le tradizioni cristiane. Basti pensare che per un lungo periodo, il giorno dell’Epifania, veniva rappresentata una “befanata” drammatica, di argomento religioso, scritta da Giovanni Giannini nel 1895, e trascritta, successivamente, da un paesano vichense, Costantino Biagioni. Ogni 6 gennaio, con la regolarità propria dei riti, lo spettacolo iniziava dopo mezzogiorno e si protraeva fino a sera, poiché la rappresentazione veniva ripetuta nelle diverse contrade. I bambini erano i primi ad accorrere, intabarrati dalle mamme premurose – lassù d’inverno fa freddo –, con in testa cappellini di lana di tutti i colori, per vedere lo spettacolo. Ai bimbi non bastava mai assistere a una sola rappresentazione; si rincorrevano per tutto il paese, dando vita a una vera e propria carovana, per rivederlo in altre contrade, diverse da quelle dove abitavano. Quello che, alla fine, si trasformava in un gioco, allegro e festoso, lasciava in loro una traccia che, nel tempo, si sarebbe trasformata in una memoria cosciente di quello che il parroco e i genitori avevano loro trasmesso: i misteri della tradizione cristiana.
Al centro del paese, fin dall’873, c’è una bella pieve, all’interno della quale si trova una statua lignea del XV secolo che raffigura san Paolo, il santo patrono, che dà anche il nome alla pieve stessa.
Ora, c’è da dire che molti abitanti di Vico Pancellorum, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, erano emigrati per sostenere le famiglie, come svariati milioni di italiani. Anche chi non era emigrato all’estero conduceva una vita nomade, in quanto molti vichensi erano rinomati stagnini e la loro manodopera era richiesta in molte parti d’Italia. Allora, mettersi in viaggio per cercare lavoro, pur rimanendo in Italia, era una gran bella avventura. Soprattutto per chi partiva con poco altro che i quattro stracci che aveva addosso.
Si tramanda che gli uomini di Vico Pancellorum decisi ad andare a cercare fortuna all’estero, prima di partire, passassero in chiesa per affidarsi, con le preghiere e con le suppliche, alla protezione di nostro Signore, e anche alla protezione di san Paolo. Si narra, ancora, che prima di uscire dalla chiesa, dopo essersi lungamente raccolti in preghiera, genuflessi davanti all’altare maggiore, si inginocchiassero una seconda volta dietro la statua del santo e, con un coltellino, incidessero il legno ricavandone una piccola scheggia. Questa veniva poi riposta in un astuccio di stoffa preparato appositamente dalle donne del paese e benedetto dal pievano. Una volta infilato in tasca e attaccato con un bottone alla stoffa dei pantaloni, lo avrebbero portato con sé per tutta la durata di quello che sentivano come una specie di esilio. Sapevano bene che la scheggia di legno ricavata dalla statua del santo non avrebbe fatto miracoli ma, del resto, non era neanche nelle loro intenzioni chiederne.
Intendiamoci: si trattava di gente dalla schiena dritta, e se qualche volta era possibile vederli ricurvi in avanti era solo a causa delle fatiche del lavoro. La maggior parte di loro non si piegò neanche durante il Ventennio fascista, nel quale subirono le angherie del regime. Alcuni furono anche deportati nella Germania nazista e non fecero mai ritorno a casa. Una stele, in paese, li ricorda.
Chi partiva era cosciente di aver scelto una via faticosa, dagli esiti incerti, e piena di ostacoli e pericoli, morte compresa. Ma l’alternativa non c’era.
In quella scheggia c’erano tante cose.
Anzitutto una compagnia che sarebbe stata sempre con loro. La compagnia – lo dice la parola stessa – accompagna, sta accanto alla persona nelle vicende della sua vita. Non si sostituisce a lei. Quando si fa compagnia a un malato non si toglie la sua sofferenza, lo si accompagna in essa, gli si dà una mano nell’affrontarla.
Poi c’era il legame con le tradizioni familiari e del borgo nel quale erano nati ed erano diventati uomini. Anche questo legame li aiutava a vivere. E se induceva in loro un sentimento di nostalgia, magari venato di malinconia, anch’esso li aiutava ad andare avanti, a testa alta, perché sapevano, o speravano, che un giorno sarebbero tornati.
C’era anche la fede. In loro non si traduceva nell’invocazione: “Aiutami a fare questo, aiutami a fare quello”, ma, semmai, nell’invocazione più coraggiosa e responsabile: “Dammi la forza per affrontare questo o quest’altro”. Non smarrivano il loro senso di responsabilità neanche nel loro rapporto con Dio: anche in esso conservavano la dignità e la forza maturata nella vita aspra dei campi, nei castagneti e nei noceti.
Era alto il numero dei migranti che, anche da Vico Pancellorum, avevano raggiunto gli Stati Uniti, ma anche il Canada, i paesi dell’America Latina – soprattutto il Brasile e l’Argentina –, e perfino l’Australia, in particolare dalle zone rurali più povere. Si è calcolato che tra il 1820 e il 1914 dall’Europa emigrarono quarantotto milioni di persone.
Ermanno fu uno di loro. Era un contadino e, solo per comprare il biglietto di andata, di terza classe, dovette vendere il mulo, un pezzo della casa – il piano di sopra – e la stalla. Il biglietto del bastimento appartenente alla compagnia marittima Navigazione Generale Italiana, che lo avrebbe portato a Ellis Island – l’isoletta alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, principale punto di ingresso dei migranti negli Stati Uniti –, costava circa 150 lire; a quel tempo corrispondevano a più di cento giornate lavorative di un bracciante agricolo.
Prima di partire – così era negli accordi – dovette improvvisarsi muratore per costruire una scala, alla meno peggio, che permettesse ai futuri proprietari di salire in casa. Nelle quattro stanzette al piano di sotto rimasero, infatti, la moglie, i tre figli e la suocera, rimasta vedova, che abitava con loro. Dovette adempiere a una serie notevole di pratiche perché, dopo il 1911, gli Stati Uniti avevano imposto una regolamentazione molto più rigida nell’accoglienza degli immigrati europei. Ermanno non aveva mai visto il mare e, partendo d’inverno, avrebbe dovuto affrontare trenta giorni di navigazione al freddo – e quello era il meno –, all’umidità – e anche a quella c’era abituato –, ma, soprattutto, con il mare mosso. La navigazione transoceanica non era certamente il battesimo dell’acqua più adatto per il nostro contadino.
Non aveva soldi a sufficienza per raggiungere, da Vico Pancellorum, il porto di Genova, dal quale si sarebbe imbarcato. I pochi che aveva in tasca avrebbe dovuto conservarli per i primi giorni di permanenza negli Stati Uniti, per mantenersi in attesa di trovare qualcosa da fare: avrebbe accettato qualsiasi lavoro. Si decise, allora, a chiedere un passaggio a un camionista della valle, un tal Piero conosciuto al circolo del paese, il quale, caricatolo sul cassone assieme a montagne di frutta e verdura – e copertolo alla meglio assieme agli ortaggi –, lo portò fino a Chiavari, dove avrebbe consegnato la merce per poi ripartire e tornare a casa.
Da lì Ermanno raggiunse Genova a piedi. Due giorni di cammino dei quali uno sotto una pioggia scrosciante. Durante questo tragitto non levò mai la mano di tasca: stringeva la scheggia con tutta la forza che aveva. Iniziò lì, sotto la pioggia, e con il solo biglietto di andata, a provare un senso di solitudine mai provato prima. Lì, in quello stesso tragitto, in un attimo, avvertì intorno al suo cuore una sensazione di freddo, unita a uno spaesamento generale così forte che riusciva a fatica a distinguere le cose e le persone che andava incontrando sul suo cammino; gli sembrò – a un tratto – che il buio che gli aveva invaso l’anima avesse finito per togliergli anche la vista. Tutto d’un colpo avvertì nitidamente il vuoto del salto che aveva fatto. Ora era solo, circondato da nulla e da nessuno. Il contrario di come aveva vissuto fino a quel momento. Aveva una sola certezza: da quella scheggia sarebbero arrivati la forza e il calore che gli avrebbero consentito di affrontare quella avventura; bisognava solo crederci e aspettare.
Comunque, in qualche modo, arrivò al porto. La pioggia aveva cessato di battergli addosso; sulla banchina lo raggiungeva perfino qualche raggio di sole. Non ebbe problemi a sistemarsi nella cuccetta e non ebbe bisogno della bagagliera: aveva con sé una valigina striminzita, misera nell’aspetto quanto nel contenuto. Aveva lasciato i suoi vestiti, a casa, per i figli; la moglie ne avrebbe usato la stoffa cucendo dei vestitini per loro. Sarebbe rimasto, come molti altri, con gli stessi vestiti addosso per tutto il viaggio. Non dovette separarsi dalla moglie e dai bambini sulla nave – uomini e donne, infatti, viaggiavano in dormitori diversi –, perché il distacco era avvenuto in una giornata di sole – almeno quella – nel piccolo borgo.
I pasti li consumava a coperta accovacciato sulle scale, all’umido e sballottato dai flutti del mare. I viaggiatori sembravano tanti mendicanti ammassati fuori da un ospizio o da una mensa dei poveri, approntata da qualche ordine religioso. A Ermanno, in questi momenti, si stringeva il cuore più che in ogni altro. Pur venendo infatti da una famiglia povera, era pur sempre una famiglia di contadini dove qualcosa a tavola non era mai mancato, e dove la tavola apparecchiata, soprattutto per la cena, significava che la giornata di lavoro era finita, e che da lì in poi ci sarebbe stato spazio solo per il calore degli affetti. Era una famiglia serena.
Un medico dell’epoca, Teodorico Rosati, descrive così i dormitori: «L’impressione di disgustosa ripugnanza che si ha nel scendere in una stiva dove hanno dormito degli emigranti è tale che, provata una sola volta, non si dimentica più. L’emigrante si sdraia vestito e calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano orine e feci; i più vomitano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’hanno ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, quando non lo si cambia, ciò che accade spesso, è lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente».
Non c’è che dire, per Ermanno il salto fu veramente enorme. Tra la serenità dei suoi boschi, della sua vigna e del suo orto e la confusione del bastimento la distanza era incolmabile. Mai avrebbe potuto immaginare – neanche lontanamente – qualcosa di così diverso dal mondo nel quale aveva vissuto i suoi primi trentacinque anni di vita. Lui, che era sano, era anche ignaro dei pericoli di malattie che si potevano prendere in quella situazione, dalle gastroenteriti alle bronchiti, e che, in parecchi casi, potevano complicarsi fino a provocare la morte. I servizi medici a bordo erano quelli che erano e le condizioni igieniche, unite alla massa di persone, spesso accalcate, rendevano l’ambiente particolarmente rischioso per il diffondersi di morbi vari.
Una notte in cui non faceva particolarmente freddo, anche l’oceano, dopo giorni e giorni di tempesta, sembrò essersi calmato. Era quasi una tavola. Ermanno convinse un responsabile della stiva-dormitorio, un tale Giuseppe, a farlo salire in coperta per respirare un po’ d’aria fresca e rivedere uno spicchio di cielo. Giuseppe era fiorentino ed Ermanno, usando il suo buon senso contadino, pensò che, facendo leva sul fatto che venivano dalla stessa regione e aspiravano la “c” quasi allo stesso modo, magari gli avrebbe concesso quel lusso, e così, in effetti, fu.
Lo spazio è una cosa strana. A casa, a Vico Pancellorum, Ermanno finiva per mettersi sempre nello stesso angolino, nella stanza del caminetto, con una credenza da un lato e una madia dall’altro. Gli piaceva stare lì, accovacciato su una seggiola, neanche tanto grande, e godersi quel poco di riposo dopo le abituali dodici ore di lavoro quotidiano. Lo chiamava “il cantuccio”. Nella sua mente, senza neanche rendersene conto, aveva ricreato, anche nella cuccetta, il suo cantuccio. Quando stava lì, prima di provare a prender sonno, sbottonava dalla tasca il suo astuccio con la scheggia, lo teneva con tutte e due le mani e metteva le braccia conserte al petto, quasi a proteggerla e a proteggersi in essa.
Nell’abbraccio di quella piccola scheggia c’era tutto: i suoi bambini, sua moglie, i genitori che aveva perso da tempo, quel brav’uomo di suo suocero che gli aveva insegnato a fare il contadino e sua suocera che era la chioccia dei suoi figli. C’era la chiesa del piccolo borgo, c’era il Padre Eterno – così gli aveva insegnato a chiamarlo il suo babbo –, c’erano le messe della domenica e le tombolate al circolo ricreativo, c’erano le partite a briscola e a tressette con gli amici del borgo, c’era l’odore del bosco, dei castagni e dei noci, c’era la nebbiolina delle prime ore del giorno quando andava a sistemare l’orto e a cogliere i pomodori, c’era il fumo dei fuochi accesi per bruciare i sarmenti dopo la vendemmia. C’era l’abbraccio di sua moglie, nel loro letto, coperti con degli imbottiti tanto pesanti quanto inefficaci, con lo scaldino riempito con le braci prese dal caminetto ardente attaccato al trabiccolo, un’intelaiatura di legno che si metteva sotto le coperte. C’era tutta la storia della sua famiglia, tutte le cose che aveva imparato a fare, e a non fare, per rispettare le tradizioni imparate nel borgo natale, le gioie e i dolori, le pene e le speranze. Ma più di ogni altra cosa c’era la sicurezza di avere tra le mani qualcosa su cui poteva contare e che, alla fine, non rendeva i sacrifici insopportabili e vani. Insomma, qualcosa per cui valeva la pena vivere e che illuminava il passato che era in lui, il presente che doveva affrontare e il futuro da vivere ancora con la sua famiglia, una volta tornato nel borgo natio.
Macinava questi pensieri quando in lontananza, a intermittenza, tra le nebbie che si alzavano sull’acqua dell’oceano, gli sembrò di intravedere delle luci. Erano quelle di Ellis Island, dove il giorno dopo sarebbe sbarcato e avrebbe iniziato questa sua nuova vita negli Stati Uniti, a 6.643 chilometri da Vico Pancellorum. Solo, con la sua scheggia in tasca. Sicuro che un giorno l’avrebbe riportata nell’antica pieve, dove gli piaceva pensare che san Paolo fosse rimasto ad aspettarlo.
Ermanno in tasca aveva una vera scheggia di legno, ma in Italia, per quasi tutto il corso del Novecento, molti uomini e molte donne hanno portato, se non nelle loro tasche almeno nelle loro menti e nei loro cuori, una scheggia ideale che li ha accompagnati nella loro vita. Ermanno era nato e cresciuto in una famiglia cattolica e in una terra dove le tradizioni cristiane avevano radici profonde. Ma nello stesso borgo e nella valle c’erano famiglie, come in molti altri borghi e città italiane, dove gli ideali avevano radici diverse: comuniste, socialiste, e altre ancora. Era difficile che qualcuno rimanesse al di fuori di queste grandi famiglie politiche e culturali.
È stato detto che il Novecento è stato il secolo delle ideologie. Certo, le ideologie avevano i loro difetti, sono state spesso fonte di divisioni che – quando hanno mostrato il loro volto più radicale – sono sfociate anche nella violenza. Ma non c’è dubbio che le culture diverse, con il loro risvolto anche politico, sociale e perfino ricreativo (basti pensare agli oratori o alle associazioni cattoliche e, dall’altra parte, alle Case del popolo o all’Arci, l’associazione culturale e ricreativa italiana nata dal PCI), abbiano offerto a tante generazioni un punto di riferimento.
A Ermanno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. COSA RISCHIANO I NOSTRI FIGLI
  4. Introduzione
  5. 1. Con una scheggia in tasca
  6. 2. Una generazione intrappolata nella Rete? Il mondo virtuale al posto di quello reale
  7. 3. Incapaci di filtrare. La cultura dei nativi digitali
  8. 4. La politica e i nativi digitali
  9. 5. Nativi digitali e lavoro. Tante occasioni, poche certezze
  10. 6. Che fare
  11. 7. La filosofia della pelle d’oca
  12. Ringraziamenti
  13. Per saperne di più
  14. Copyright