Non dire una bugia
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Non dire una bugia

  1. 368 pagine
  2. Italian
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Non dire una bugia

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Informazioni sul libro

Il nuovo thriller dell'autrice de LA RAGAZZA NEL PARCO

Quando il tuo sguardo è offuscato dall'amore, la verità è la cosa più difficile da vedere. Ellie Hatcher si è trasferita a New York da poco, e da poco lavora come detective al NYPD. Non ha ancora molta esperienza sul campo, ma il passato le ha già insegnato molto: a Wichita, nel Kansas, è cresciuta con un padre poliziotto che ha dedicato tutta la vita alla caccia di un serial killer, fino a morire in circostanze mai chiarite. Forse assassinato. O, forse, suicida. Anche se Ellie per molti anni si è rifiutata di crederlo.
Un suicidio accertato sembrerebbe invece il caso a cui sta lavorando adesso. Julia, una ragazza di sedici anni, figlia di una ricchissima famiglia dell'élite newyorchese, viene ritrovata nella vasca da bagno con le vene tagliate, nella splendida casa dei suoi genitori nell'Upper East Side. Nonostante il biglietto di addio, alcuni elementi - prime fra tutti le testimonianze di chi la conosceva bene - fanno pensare che non si tratti di un atto volontario. In questi casi Ellie sa di dover seguire il suo istinto, che le farà scoprire ben presto che Julia non era affatto la persona che sembrava. La detective sarà costretta ad ammettere che dietro il suicidio di una ricca adolescente annoiata c'è una storia più complessa e oscura. Perché, a volte, basta una semplice bugia per allontanarci da quelli che ci vogliono bene, e da noi stessi. E Julia, di bugie, ne aveva dette parecchie.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858524572
PARTE PRIMA

Julia

1

Nuovi inizi
Confessioni di una sopravvissuta
3.14 DEL MATTINO
Sono passati vent’anni, eppure alle 3.14 di questa notte ho urlato nel sonno. Probabilmente non me ne sarei accorta se non fosse stato per la leggera gomitata di mio marito, l’uomo stanco e paziente che deve accontentarsi di fare congetture sulla causa dei continui incubi di sua moglie, dato che lei non gli ha mai fornito una vera e propria spiegazione.
Ho notato dell’incertezza sul suo viso stamattina. Sorseggiava un caffè ormai quasi freddo, io me ne sono versata una tazza fumante al bancone e ho portato a tavola la caraffa per offrirgli un secondo giro. Ma la sua incertezza non era dettata dall’impossibilità di comprendere il motivo delle mie grida notturne – quello è un sentimento che non lo abbandona mai –, quanto piuttosto dal non sapere se sollevare o meno la questione. Devo chiederle qualcosa? O è meglio non scavare, lasciare che certe cose restino al loro posto?
In quel momento ho provato uno slancio di affetto per lui. Perché mi ama abbastanza da preoccuparsi, e si preoccupa abbastanza da lasciare che il non detto resti tale. Così, anche se avrei preferito sfogliare il giornale e commentare con lui i titoli più interessanti prima di vederlo scappare al lavoro, gliel’ho detto.
Ho urlato nel sonno alle 3.14 perché vent’anni fa – più di metà vita fa – un uomo entrò nella mia camera e cambiò per sempre la mia infanzia. Non lo sentii aprire la porta, ma percepii la sua presenza. Forse fu il sottile fascio di luce che penetrava nella stanza dal corridoio insieme al suono dei suoi passi. O forse semplicemente il fatto che sapevo da mesi che quel momento – una notte o l’altra – sarebbe arrivato. Quando aprii gli occhi lui era lì. Un ospite sgradito, ma non inatteso.
Mi aspettavo che dicesse qualcosa, che offrisse una debole scusa per essere entrato nella mia camera, o persino che tentasse una frase di approccio trita e ritrita, come se avessimo una relazione segreta. Invece non disse niente. Percorse in silenzio i quattro passi che separavano la porta dal letto. Evidentemente non valevo nemmeno qualche parola.
Avrei voluto gridare, colpirlo, fargli male. Ma era come se una parte del mio cervello avesse già deciso per me... Anzi, mi sentivo come se una decisione fosse stata presa per entrambe: la me in quella stanza e la vera me, che assisteva alla scena dall’esterno. Né io né lei avremmo gridato. Non ci saremmo difese. Avremmo fissato la sveglia sul comodino e aspettato che quella notte finisse.
Ricordo di aver guardato quei numeri rossi e squadrati, di aver riflettuto su come si poteva comporre ogni cifra illuminando varie combinazioni di sette linee dritte che formavano due quadrati uno sull’altro. E in quel momento sul display si leggeva “3.14”. Le tre e quattordici del mattino.
Le stesse cifre che questa notte, dopo la gomitata di mio marito, si prendevano gioco di me dal comodino. Quando me ne sono accorta, ho pensato che avrei preferito che mi lasciasse gridare senza svegliarmi, in modo da concedermi di non rendermi conto che, malgrado sia passato così tanto tempo, il mio corpo e la mia mente appartengono ancora, almeno in parte, a quell’uomo e a quella notte.
Sono passati vent’anni da quando ho guardato fisso quella sveglia. Dieci da quando ho sposato un uomo disposto a sorvolare sulla mia occasionale tendenza a scoppiare a piangere mentre facciamo l’amore. Sette mesi da quando ho pensato di essermi ripresa abbastanza da iniziare questo blog. Centoquarantatré post sulle mie esperienze da sopravvissuta. Settantaduemilaottocentonovanta parole, non che stia tenendo il conto.
Ed è bastato svegliarmi gridando alle 3.14 di questa mattina per sentirmi di nuovo una vittima.
Ma al mio amato, dolce marito che stava finendo il caffè prima di andare al lavoro non ho raccontato tutto questo. Sono riuscita a dire soltanto: «Ho fatto un brutto sogno, tesoro. Penso che fosse legato alle cose che mi sono successe da piccola».
E poi, dopo averlo salutato con un bacio e averlo guardato scendere le scale della nostra villetta con la ventiquattrore in mano, sono salita di sopra. Ed eccomi qua seduta alla scrivania, adesso, a mettere nero su bianco la verità che nemmeno dopo vent’anni ho il coraggio di confessare alle persone che mi amano.
Come aveva scritto nel suo ultimo intervento, erano passati sette mesi da quando aveva aperto il blog. Nuovi inizi. Confessioni di una sopravvissuta. Persino il titolo trasudava autocompiacimento.
Non c’era da stupirsi se si era presa la briga di contare i post e addirittura il numero di parole che aveva scritto. Era proprio da lei. Superba. E altezzosa.
Il blog era anonimo, ma questo particolare lettore sapeva perfettamente chi era l’autrice che da sette mesi si era dedicata a produrre ben, se il calcolo era esatto, 72.890 parole di spazzatura egocentrica spacciata come scrittura terapeutica. Il lettore raggiunse i commenti in fondo alla pagina, ignorando le prevedibili osservazioni dei trogloditi indubbiamente depressi e in sovrappeso che seguivano le cazzate di quella donna: «Resisti, ragazza»; «Un passo alla volta»; «Grazie per la tua onestà».
Quelli erano i peggiori: i post che ringraziavano l’autrice solo perché si era illusa di essere adesso diventata una donna forte e consapevole, e perché aveva convinto una schiera di persone ancora più patetiche di lei a leggerla e ammirarla.
Il lettore fissò lo spazio bianco dedicato ai nuovi commenti, poi iniziò a scrivere:
Se pensi che quella notte di vent’anni fa sia stata brutta, aspetta solo di vedere cosa ho in mente. Non ricorderai più soltanto un orario sull’orologio. Forse un giorno sul calendario, se sei fortunata. Forse una settimana. O magari ti terrò impegnata per un mese. Ma una cosa è certa: non vivrai abbastanza da riuscire a raccontarlo.
Lo scrittore batteva così forte sulla tastiera che non sentì i passi che si avvicinavano finché sullo schermo non apparve il riflesso di un altro volto.
Era troppo tardi.

2

Ellie Hatcher era approdata a New York City con delle aspettative molto precise. Fuorviata dalle classiche immagini di Times Square, del Plaza Hotel e dell’Empire State Building, si aspettava luci abbaglianti, file di grattacieli altissimi, ampi marciapiedi brulicanti di uomini d’affari in completo scuro e ventiquattrore, e un sottofondo costante di clacson, sirene e martelli pneumatici.
Dopo averci vissuto per dieci anni, però, Ellie sapeva che quelle immagini erano solo uno stereotipo. Al di là della versione cinematografica della città, molti newyorkesi conducevano vite tranquille in strade silenziose, avventurandosi fra luci e rumori solo quando era strettamente necessario.
Quella mattina Ellie si trovava in Barrow Street, fra le vie alberate del West Village. Incastonato fra Washington Square Park e il fiume Hudson, il West Village era il quartiere dei sogni di Ellie, lontano anni luce dagli universi commerciali del Financial District e di Midtown, e protetto dai fumi di scarico e dal rombo dei motori dei pendolari frustrati in coda sui ponti o nei tunnel.
Ma quel giorno un diverso tipo di caos aveva trovato il modo di insinuarsi in quell’affascinante quartiere. Una forma di caos a cui Ellie si era abituata nel corso degli anni: macchine della polizia, furgoni, gente in uniforme che gridava nelle ricetrasmittenti, agenti in borghese e addetti della Scientifica impegnati a raccogliere prove materiali, persino un camion dei pompieri e un’ambulanza. La confusione e l’energia tipiche di una scena del crimine, completa di nastro giallo per separare la normalità dall’aberrazione.
Sentì i sussurri incuriositi dei pedoni mentre lei e il suo partner, J.J. Rogan, si dirigevano verso il perimetro delimitato dal nastro.
«Che succede? Stanno girando un film?»
«Law & Order, penso. Non la serie originale, quella l’hanno cancellata. Unità vittime speciali, invece, la girano ancora da queste parti. Forse però potrebbe essere il set di quella serie nuova, quella della bionda col cappello, hai presente?»
Un altro passante notò che lei e Rogan stavano mostrando i tesserini per superare il nastro. «Avete visto? Altro che film.»
«Ma non è la casa di Gwyneth Paltrow?»
«No, lei abitava sulla 4th Street, ma ha venduto qualche anno fa.»
Ellie capì il perché dei pettegolezzi immobiliari appena alzò lo sguardo sul palazzo dove erano stati convocati. Largo almeno il doppio rispetto alle altre villette unifamiliari dell’isolato, si sviluppava su quattro piani, più quello che sembrava un seminterrato.
Dalla porta di elegante vetro satinato si intravedeva un ingresso spazioso, più grande del salotto di Ellie. L’ambiente era completamente vuoto a parte un tavolo rotondo su cui spiccava un vaso stracolmo di tulipani freschi e, nell’angolo in fondo, una scultura che non avrebbe sfigurato al Metropolitan Museum of Art. Un camino e un lampadario di dimensioni ciclopiche completavano l’arredo.
«Accidenti» commentò Rogan.
Se si era meritato un “accidenti” di Rogan, che non si lasciava impressionare facilmente quanto la sua partner, quel posto doveva essere proprio notevole.
La donna che scese dalla scala sembrava nata per vivere in una casa del genere. Indossava pantaloni neri a sigaretta e una giacca asimmetrica marrone chiaro, un look casual e al tempo stesso sofisticato. Elegante caschetto sale e pepe, fresco di parrucchiere. Quando aprì la porta, però, i suoi occhi arrossati ricordarono a Ellie che non era lì per ammirare il suo stile di vita.
Le sembrò che lo sguardo della donna indugiasse sui loro vestiti. «Chi siete?»
«Sono Ellie Hatcher, detective del NYPD, signora.» Le porse la mano, ma la donna la sorprese afferrandole l’avambraccio.
«Grazie al cielo.» Ellie era convinta che stesse per trascinarla su per le scale, ma la donna li guidò verso un ascensore. Le pareti erano decorate con fotografie di episodi significativi della New York degli anni Settanta e Ottanta. Il proprietario di un bar che appendeva un cartello alla vetrina durante il blackout del 1977: NIENTE LUCE, NIENTE CIBO, MA LITRI DI ALCOL. Il concerto dei Ramones al CBGB. Senzatetto in fila al Bowery Mission. John Lennon circondato dalla folla a Central Park. L’ultimo concerto di Simon & Garfunkel. La 42nd Street quando era ancora costellata da una sfilza di hotel da quattro soldi e cinema porno. Un treno della metropolitana coperto di graffiti. Una New York che Ellie non aveva mai conosciuto.
La donna schiacciò il pulsante del quarto piano e l’ascensore partì cigolando.
«Dovete fare qualcosa. È mia figlia. L’ho trovata io. Nella vasca. Il sangue... L’acqua era così rossa, la sua faccia così bianca...»
«Mi dispiace tanto, signora, ma come mai lei è ancora qui?» Ellie si rese conto che la sua domanda doveva essere suonata un po’ fredda. «Voglio dire, di solito tendiamo ad allontanare la famiglia.»
«I vostri colleghi sono già di sopra, ma non stanno facendo niente. Ho sentito cosa si sono detti. Non sono mica sorda. Non mi credono. Dicono che è stata lei, che si è suicidata.»
Le porte dell’ascensore si aprirono su due agenti in uniforme, uno basso e grasso e l’altro alto e allampanato. Molto Stanlio e Ollio. Quando notarono i distintivi appuntati alle cinture degli ultimi arrivati assunsero un’aria prima allarmata e poi rassegnata.
«Cazzo.» L’agente magro parlò per primo, cercando di giustificare la loro presenza al piano di sopra mentre un civile si muoveva liberamente nel resto di una casa che, fino a prova contraria, era una scena del crimine. «Stavamo scendendo, aspettavamo l’ascensore. A quanto pare la signora ci ha battuti sul tempo.»
Rogan fece schioccare la lingua mentre i due gli passavano davanti. Conoscendolo, Ellie sospettava che gli sarebbe piaciuto assestare uno scappellotto a entrambi. «Uscite subito e date una mano a proteggere la scena» disse. «Hatcher e Rogan. Arrivati alle 11.27. Scrivetelo.» E colpì con l’indice il taschino sul petto del poliziotto grasso.
L’ascensore iniziò la sua discesa, sempre cigoland...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NON DIRE UNA BUGIA
  4. PARTE PRIMA. Julia
  5. PARTE SECONDA. Ramona
  6. PARTE TERZA. Casey
  7. PARTE QUARTA. Adrienne
  8. PARTE QUINTA. James Grisco
  9. PARTE SESTA. Quattro settimane dopo
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright