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Storie di coraggio, lealtà e speranza

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Storie di coraggio, lealtà e speranza

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Informazioni sul libro

Dopo il successo del suo primo libro, Fatti il letto, bestseller n. 1 del New York Times, che ha venduto oltre un milione di copie, l'ammiraglio William H. McRaven torna con storie eccezionali di coraggio ed eroismo vissute durante la sua carriera come Navy SEAL e comandante delle Operazioni Speciali. McRaven è stato coinvolto in alcune delle missioni più rischiose della memoria recente, tra cui la cattura di Saddam Hussein, il salvataggio del capitano Richard Phillips e l'incursione per uccidere Osama bin Laden. Ma gli eventi raccontati hanno come protagonisti anche uomini e donne sconosciuti che hanno compiuto azioni eroiche e straordinarie, capaci di toccare il cuore e far riflettere. Quello che emerge in questo secondo, avvincente libro è un un modo di affrontare gli ostacoli, le difficoltà, i conflitti che insegna a ognuno di noi qual è il vero senso della solidarietà, della lealtà, dell'amicizia. Con il piglio narrativo e la capacità di rivelare grandi verità sulla natura umana che hanno reso il suo primo libro un fenomeno editoriale, McRaven torna a ispirare i suoi lettori con empatia e saggezza in pagine indimenticabili.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858523872
1

The greatest generation

Fontainebleau, Francia
1960

Socchiusi appena la porta a vento e sbirciai nella grande stanza piena di fumo. Jean Claude, il barista francese giovane e alto, si affaccendava tra i tavoli prendendo le ordinazioni degli ufficiali americani che affollavano il club di venerdì sera.
Oltrepassai la porta e avanzai a quattro zampe fino a un punto proprio dietro il bancone. Lì ero nascosto agli sguardi ma potevo vedere tutta la sala.
Il club degli ufficiali americani si trovava nel cuore di Fontainebleau, in Francia, ed era un edificio a tre piani costruito in stile provenzale con modanature ornate, scale curve, un piccolo ascensore a gabbia e grandi dipinti di Napoleone, Luigi XVI e innumerevoli scene di battaglia.
Per me, che avevo cinque anni, il club era un posto speciale. C’erano corrimano su cui scivolare, armadi in cui nascondersi e corridoi da attraversare di corsa. Vagabondavo liberamente, con una spada immaginaria in pugno, combattendo pirati e prussiani, nazisti e russi.
Usando i passaggi nascosti dell’edificio, ero in grado di muovermi dalla cucina al bancone completamente inosservato. Il montavivande, che collegava la cucina al primo e al secondo piano, serviva per evitare il personale, le mie due sorelle (che avevano l’incarico di tenermi fuori dai guai: con scarso successo, potrei aggiungere), i miei genitori e il gran numero di altre persone al corrente del fatto che mi aggiravo furtivo per i corridoi tutto solo.
Anche se era un circolo americano, erano benaccetti ufficiali di tutti i paesi alleati. Quegli uomini, imponenti nelle loro uniformi, avevano il portamento e la sicurezza inconfondibile dei vincitori della Seconda guerra mondiale.
Erano passati quasi quindici anni dalla fine del conflitto, ma la Francia era ancora in fase di ricostruzione e gli europei guardavano alla North Atlantic Treaty Organization per essere protetti dai sovietici. Il braccio militare della NATO era il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE), a cui era assegnato mio padre, e la ragione per cui vivevamo in Francia.
Mentre mi spostavo dall’altro lato del bancone, Jean Claude mi scorse e mi lanciò quell’occhiata, un’occhiata che avevo già visto centinaia di volte. Ti vedo, diceva. Ma nel suo sguardo c’era sempre una scintilla. Come tutti gli uomini più grandi, apprezzava la malizia infantile e intuivo che avrebbe desiderato tornare bambino anche lui. Pensavo a Jean Claude come al mio protettore, il custode dei miei segreti, il Watson del mio Holmes.
Mio padre era seduto a un tavolo ovale dalla parte opposta della sala insieme ad altri tre uomini. Indossavano tutti l’uniforme da ufficiale dell’aeronautica: camicia azzurra, cravatta scura leggermente allentata attorno al collo e una giacca blu scuro con ali argentate sul petto.
Insieme a papà sedevano “Easy Ed” Taylor, “Wild Bill” Wildman e “Gentleman Rod” Gunther, tutti colonnelli, tutti piloti di caccia.
Ed Taylor teneva le mani sollevate una dietro l’altra a mimare l’attacco da parte di un Messerschmitt tedesco. Dalle labbra gli penzolava pigra una sigaretta e interrompeva il racconto solo per sorseggiare lo scotch dal bicchiere che aveva accanto al gomito. Ed era uno dei pionieri dei velivoli a reazione, e a un certo punto era stato l’uomo più veloce del mondo nel volo aereo. Aveva un nonsoché alla Hemingway, con un’inclinazione per il teatrale, una passione per il buon whiskey e il bisogno di riempire ogni minuto della propria vita con qualcosa di eccitante. Pilota di caccia durante la Seconda guerra mondiale e in Corea, avrebbe prestato servizio in Vietnam e avrebbe concluso la carriera come veterano di tre guerre. Beveva forte, fumava Camel senza filtro, adorava combattere e sembrava apprezzare tutti quelli che conosceva.
Ed era sposato con Cordelia, o Cordie, come la chiamavano tutti. Originaria del Texas, Cordie era la presidentessa del club delle mogli e amava far baldoria quanto il marito. Il loro matrimonio, che durò più di cinquant’anni, era una lotta costante tra l’amore per il combattimento di Ed e un bisogno di normalità domestica. La spuntò sempre il primo.
Anche Bill Wildman aveva prestato servizio nel teatro europeo durante la guerra, ma come il resto degli uomini adesso pilotava una scrivania allo SHAPE. Bill era sposato con la moglie che tutti preferivano, Ann. Ann era la donna più bella di Francia: piccola, formosa, intelligente, l’anima di tutte le feste.
Rod Gunther era un gentiluomo del Sud ingrigito prematuramente, con la parlata strascicata e un talento per far sentire speciali quelli che gli stavano intorno. Sua moglie Sadie e le loro tre figlie facevano praticamente parte della mia famiglia. Io avevo una cotta per la minore, Judy, e pensavo di piacerle finché non misi per sbaglio un petardo nel suo cappello anziché in quello di mia sorella Nan. Non so perché, ma in seguito il romanticismo svanì dal nostro rapporto.
Quando Ed Taylor finì di raccontare la sua storia, con una mano in picchiata verso il ripiano del tavolo, tutti gli uomini scoppiarono a ridere, anche se sapevo che l’avevano già sentita. Mio padre fece un tiro dalla sigaretta, la spense nel posacenere e attese la storia successiva.
Tra gli uomini intorno al tavolo, mio padre era il più riservato, anche se questo non significava granché. Papà adorava raccontare storie esattamente come gli altri. Aveva l’aspetto di un divo del cinema, come dicevano spesso le donne a mia madre (anche se io non riuscii mai a capire come lei prendesse quel complimento).
Aveva i capelli corvini, resi ancora più neri dalla punta di brillantina che metteva ogni mattina, un naso pronunciato, una lieve fossetta sul mento e occhi azzurro acciaio che scintillavano quando sorrideva; e sorrideva spesso.
Con il suo metro e ottanta era alto ma non torreggiante. Da giovane era stato un atleta notevole e al Murray State Teachers College del Kentucky aveva primeggiato nel football, nel baseball e nella corsa su pista. Si mantenne all’università giocando d’azzardo sui battelli del Mississippi, insegnando tennis alle “vecchie signore” e gareggiando contro i purosangue del Kentucky: uomo contro animale. Eccezionalmente veloce per la sua epoca, correva le cento iarde in 9,8 secondi. A quella velocità riusciva a battere la maggior parte dei cavalli sulla breve distanza (sessanta iarde) e spesso scommetteva qualche dollaro contro gli allevatori locali per dimostrarlo.
Dopo l’università giocò due stagioni da professionista nel football con i Cleveland Rams. Il football rendeva bene ma, quando iniziò a profilarsi l’eventualità della guerra in Europa, lasciò il football e andò in California per arruolarsi nell’Army Air Corps.
Anni dopo, quando gli chiesi perché si fosse arruolato, disse che da bambino aveva visto i soldati marciare per le strade della sua città natale, Marston, nel Missouri, e salire a bordo di un treno che li avrebbe portati nelle trincee in Francia. Suo padre, medico militare, era uno di quegli uomini. Seppe in quel momento che voleva fare il soldato.
Dopo aver frequentato la scuola ufficiali dell’aeronautica al Brooks Field di San Antonio, Texas, fu assegnato al 309th Fighter Squadron, 8th Air Force. Il 309th faceva parte del primo contingente inviato nel Regno Unito. All’epoca gli americani stavano ancora lavorando per costruire un caccia capace di competere con il Messerschmitt tedesco nel combattimento aereo. Perciò, quando arrivarono in Inghilterra, a papà e agli altri piloti furono assegnati Spitfire britannici.
Gli Spitfire, con un’aerodinamica agile e dotati di potenti motori Rolls-Royce e nuove armi, erano in grado di tener testa ai tedeschi. Papà pilotò uno Spitfire per tutta la guerra, combattendo nelle campagne in Nordafrica, in Sicilia, a Salerno e infine durante lo sbarco in Normandia.
Durante la guerra registrò due uccisioni confermate, ma nel 1943 fu abbattuto sopra la Francia. La saga della sua fuga e del ritorno in Inghilterra fu raccontata molte volte mentre eravamo in Francia non da papà, che di rado parlava degli anni della guerra, ma dal partigiano francese che lo aveva aiutato a scappare e adesso abitava vicino a noi alla periferia di Parigi.
Jean Claude comparve all’improvviso dietro il bancone. Prese un bicchiere, lo riempì per metà di Coca-Cola e poi aggiunse una robusta dose di succo di ciliegia. «Un Roy Rogers», annunciò, mi allungò il bicchiere e io sedetti a gambe incrociate dietro il bancone mentre lui preparava altri drink e andava a servire i clienti. Di lì a poco arrivarono mia madre e le altre mogli.
Mentre le donne prendevano posto, Jean Claude si diresse al tavolo per prendere le ordinazioni. Chinandosi per ascoltare, lo vidi indicare con la testa nella mia direzione.
Traditore.
Mia madre si girò, sorrise e mi chiamò con un cenno.
Misi giù il Roy Rogers, corsi al tavolo e le saltai in braccio. Lei mi strinse forte e mi diede un bacio sulla guancia. Aveva sempre un tenue sentore di profumo e crema detergente. Riesco a sentirlo ancora oggi.
Rod Gunther mi accarezzò i capelli tagliati a spazzola (“come gli astronauti…”) e con la sua voce tranquilla mi disse: «Billy, ragazzo mio, cos’hai combinato stasera?».
Era un invito a raccontare una storia, a partecipare alla conversazione degli adulti, a provare ad accostare le mie avventure a missioni di bombardamento sulla Francia, combattimenti aerei in Nordafrica, marce con Chiang Kai-shek o un ballo con il vicepresidente Nixon (la preferita di mia madre). Le storie occuparono il resto della serata e quando ogni tanto gli uomini dicevano qualcosa di troppo “adulto”, mia madre mi copriva le orecchie.
Nei tre anni che passammo in Francia, le serate del venerdì al circolo degli ufficiali erano un rito. Le storie di combattimento aereo, la vita al fronte e le fughe rocambolesche alimentavano il mio desiderio di avventura.
Alla fine del 1963 papà ebbe un leggero infarto (legato alle sigarette e al whiskey Jim Beam, disse il medico). Si riprese, ma la nostra famiglia fu riassegnata alla Lackland Air Force Base di San Antonio per essere vicini all’ospedale Wilford Hall Air Force. Ed, Cordie e i quattro figli dei Taylor vivevano poco distante, ad Austin, e per molti anni ci tenemmo in contatto con i Gunther e i Wildman.
In Texas i miei genitori si fecero nuovi amici, e insieme a loro arrivarono storie nuove e migliori. C’era il colonnello David “Tex” Hill, uno dei membri originari delle Tigri Volanti, che aveva prestato servizio con il generale Claire Chennault in Cina. Tex era la crème dei militari a San Antonio. Alto, cortese, affabile, era un pilota leggendario sia nella storia dell’aeronautica che della Marina, con più di ventotto uccisioni confermate. Lui e sua moglie Maize entrarono a far parte della nostra famiglia allargata di amici e della vivace scena sociale che gravitava intorno ai militari negli anni Sessanta.
C’erano anche Jim e Aileen Gunn. Promosso colonnello a venticinque anni e abbattuto una settimana dopo in una missione di combattimento sopra la Romania, Jim era riuscito a fuggire da un campo di prigionia di Bucarest nascosto nella pancia di un Messerschmitt pilotato da un membro della famiglia reale rumena.
Era quasi morto assiderato mentre il caccia non pressurizzato attraversava le Alpi diretto in Italia, ma dopo l’atterraggio si era ripreso, aveva contattato i militari americani e aveva riferito loro l’ubicazione precisa del campo di prigionia. Soltanto un giorno, e l’aviazione tedesca avrebbe bombardato il campo, nella speranza di cancellare le prove degli abusi. Settant’anni dopo ricevette la Silver Star per il suo eroismo.
Oltre a Tex Hill e Jim Gunn c’era il maggiore Joe McCarthy, che durante la guerra aveva lavorato per i servizi segreti americani, il colonnello Bill Strother, un pilota di bombardieri decorato, e Bill Landley, l’unico generale del gruppo. Erano tutti membri delle famiglie con cui crebbi. Le loro mogli, rispettivamente Betty, Ann e Martha, erano come vicemadri e spesso, soprattutto nel caso di Ann Strother, mi raccontavano barzellette sconce e storie da adulti a un’età che mia madre non avrebbe approvato.
Quelli trascorsi alla Lackland Air Force Base furono anni di caccia al piccione in autunno, caccia al cervo in inverno, bridge per le donne, poker per gli uomini, golf un weekend sì e uno no, frequenti puntate sulla costa del golfo per pescare, e altre storie. Non so bene come gli uomini riuscissero a portare a termine qualunque lavoro, ma ero un bambino, ai miei occhi faceva tutto parte dei ritmi della vita, e mi piaceva un sacco.
Come tutti gli uomini e le donne della loro generazione, erano figli della Prima guerra mondiale, avevano vissuto gli anni della Depressione e gli uomini avevano tutti combattuto nella Seconda guerra mondiale e in Corea. Erano dei sopravvissuti. Non si lamentavano. Non davano la colpa ad altri della loro malasorte. Lavoravano sodo e si aspettavano lo stesso dai figli. Tenevano molto alle loro amicizie. Lottavano per il loro matrimonio. Non facevano mistero del loro patriottismo e, anche se non erano ingenui riguardo alle colpe degli americani, sapevano che nessun altro paese al mondo teneva in così grande considerazione il loro servizio e il loro sacrificio. Sventolavano la loro bandiera con orgoglio e senza scusarsi.
Ma io sono convinto che ciò che rese questa generazione tanto grande fosse la capacità di accettare le difficoltà e trasformarle in storie di vita piene di risate, autoironiche, indimenticabili e talvolta incredibili. Mio padre mi diceva sempre: «Bill, è tutto come lo ricordo». Le storie contenute in questo libro sono come io ricordo la mia vita. Credo che adesso potrei sedermi a quel tavolo a Fontainebleau… e raccontare una storia o due.
2

Operazione Vulcano

San Antonio, Texas
1966

Rimisi in posizione il coltello caricato a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. FAI LA DIFFERENZA
  4. Nota dell’autore
  5. 1. The greatest generation
  6. 2. Operazione Vulcano
  7. 3. La vita è meravigliosa
  8. 4. L’unico giorno facile era ieri
  9. 5. La mano di Dio?
  10. 6. Un gorilla entra in un bar
  11. 7. I fantasmi di Tofino
  12. 8. Pirati americani
  13. 9. Seconde occasioni
  14. 10. Uomo rana volante
  15. 11. 1600 Pennsylvania Avenue
  16. 12. L’asso di picche
  17. 13. Ricercato vivo o morto
  18. 14. Ostaggio in alto mare
  19. 15. Caccia all’uomo
  20. 16. La prossima greatest generation
  21. 17. Lancia di Nettuno
  22. 18. Il saluto finale
  23. Ringraziamenti
  24. Copyright