Caro Epicuro,
è di felicità che oggi vorrei parlarti. Concetto che, più di altri, tutti credono di avere ben chiaro nel proprio immaginario. Tutti, anche quelli che non si sono mai avvicinati alla filosofia, pensano infatti di sapere cosa voglia dire essere felici. E, soprattutto, cercano concretamente di esserlo. La tua stessa filosofia, Epicuro, che altro è, in fondo, se non un grandioso tentativo di descrivere la via che può portare noi tutti a essere felici? Ma che cosa vuol dire, davvero, essere felici? E, posto che sia possibile dare una definizione della felicità, può essa bastare per essere, poi, realmente felici? Prima di te, era stato Aristotele a sottolineare la difficoltà di ogni possibile definizione della felicità. È, forse, facile inquadrare che cosa concretamente ci faccia felici: un viaggio o un regalo, un incontro o un successo. Ma quando poi, interrogati, dobbiamo spiegare che cosa davvero sia la felicità che con quei mezzi abbiamo raggiunto, ecco, allora iniziano le difficoltà. Sta in ciò, forse, il paradosso della felicità: possiamo più o meno facilmente identificare i mezzi che ci portano a essa, intesa come un fine. Ma non riusciamo mai a spiegare che cosa sia quel fine, quale sia la sua natura.
Vorrei, Epicuro, partire da una tua indicazione, che mi pare preziosa: tu dici che il fine ultimo a cui tutti – filosofi e non – tendiamo è la felicità. Addirittura, molto tempo dopo di te, nel 1776, la “Dichiarazione d’Indipendenza americana” sancirà un diritto, inesistente prima d’allora, alla felicità.
Seguendo la tua filosofia, la felicità consisterebbe nel piacere. Quest’ultimo, però, non deve essere inteso – come troppo spesso oggi si fa – nel senso di un godimento smisurato e trasgressivo. Tutto il contrario. Il vero piacere, quello che procura la felicità, è il piacere misurato, che nasce da una condizione di assenza di dolore. Così concepito, il piacere che porta alla felicità non è – per fare alcuni esempi concreti – bere senza misura o mangiare fino all’eccesso: è, invece, bere e mangiare quel tanto che basta, per rimuovere quei dolori specifici che sono, appunto, la sete e la fame. La felicità, dunque, dovrebbe coincidere con un piacere in negativo, tale cioè da corrispondere con l’assenza di dolore.
Mi trova molto d’accordo questa tua concezione, per così dire, misurata del piacere. Non sono, tuttavia, sicuro che sia di per sé sufficiente a chiarire cosa in concreto sia la felicità. Mi spiego. È chiaro che, per essere felici, dobbiamo trovarci in una stabile condizione di assenza di dolore. Ma questo davvero basta per essere felici? Forse, potremmo dire che è condizione necessaria, ma non sufficiente.
A questa condizione di assenza di dolore, mi sentirei di aggiungerne un’altra, forse meno facilmente definibile: siamo felici quando raggiungiamo la nostra pienezza d’essere; ossia quando sentiamo che abbiamo raggiunto, anche con l’assenza di dolore di cui dici, uno stato di equilibrio con noi stessi, con gli altri e con il mondo in generale. Per essere felici, dunque, non basta non provare dolore, proprio come non è sufficiente vivere: occorre vivere bene, con un’intensità che noi stessi avvertiamo come piena e, dunque, tale da non farci desiderare nulla di più e nulla di meno di ciò che effettivamente abbiamo, di ciò che realmente siamo. In effetti, la felicità è un concetto davvero particolare: sfugge necessariamente a una definizione universale, che cioè sia valida per tutti allo stesso modo. E questo non solo perché, come dicevo, la felicità c’è quando sentiamo di essere felici (non potremmo, in altri termini, essere oggettivamente felici senza sentire soggettivamente di esserlo). Accanto a questo motivo, ve n’è un altro: ciò che fa sì che io mi senta realizzato appieno non vale necessariamente anche per te.
La felicità implica, quindi, una sua specifica componente soggettiva: che fa sì che ciascuno possa essere felice a suo modo, diversamente dagli altri. Per questo, infatti, ciascuno cerca di essere felice inseguendo i propri sogni e i propri progetti, che sono, per l’appunto, i suoi.
Caro Epicuro,
vorrei oggi trattare di un argomento che, da sempre, allieta il cuore degli uomini, pur essendo anche, non di rado, fonte di sofferenza. Intendo l’amore, a cui tu, con la tua teoria, non mi pare – permettimi – abbia attribuito il giusto peso. A tuo giudizio, infatti, l’amore coinciderebbe con una passione capace di generare turbamento nel nostro animo. L’innamorato – tu sostieni – si strugge e soffre, rivelandosi decisamente più vulnerabile di quanto non sia usualmente.
V’è del vero in ciò che dici, certo. E, tuttavia, mi pare che il tuo argomento, così attento alle conseguenze negative, trascuri le gioie dell’amore. Non è forse vero che, da innamorati, raggiungiamo uno stato di grazia che normalmente ci è sconosciuto? Quando amiamo, siamo certo più vulnerabili, come tu dici: ma, oltre a ciò, conquistiamo un grado di felicità e di pienezza d’essere in nome del quale siamo disposti a sopportare di buon grado anche i turbamenti e le cosiddette “pene d’amore”.
Che cos’è, dunque, l’amore?
Credo lo si potrebbe anzitutto definire come desiderio di totalità: o, più precisamente, come desiderio di superare la parzialità e la non completezza che ciascuno di noi, da solo, è. L’amore è, allora, la verità del due: è quel sentimento mediante il quale facciamo esperienza dal punto di vista del due di quelle cose a cui, fino a quel momento, eravamo abituati dalla prospettiva dell’uno. Amando, ci apriamo e ci lasciamo attraversare dall’altro: con lui instauriamo una relazione che colma la nostra mancanza d’essere. Contro quel che oggi così spesso si ripete, ciascuno di noi non basta a se stesso: solo mediante l’altro si completa e raggiunge la pienezza d’essere che mai potrebbe conquistare, se rimanesse solo. La nostra vita, in effetti, non acquista senso compiuto solo quando ci completiamo con l’“altra metà” che, da sempre, cercavamo?
Platone, prima di te, l’ha espresso magnificamente con un mito: un tempo l’essere umano era un intero completo, perché si era due in uno. Invidiosi di tanta perfezione, gli dèi dell’Olimpo spezzarono in due quell’unità. Da quel momento, ciascuno, avvertendo con nostalgia la mancanza dell’altra metà con cui un tempo formava un intero perfetto, la cerca disperatamente. E, se è così fortunato da trovarla, non se ne stacca più: le sta tanto vicino, notte e giorno, perché vuole ricostituire l’unità duale che un tempo si era.
L’amore, Epicuro, è una potenza straordinaria o, come dice Platone, è un dio che merita i massimi onori: quando c’è, siamo disposti a compiere le imprese più eccezionali. Non solo perché, amando, siamo spinti ad andare oltre noi stessi, a tendere in ogni modo verso l’amato, con cui desideriamo unirci e, così, completarci. Ma anche perché è, di tutte, la sola realtà che ci permetta di sopravvivere oltre la morte. A tal punto che, forse, la parola latina amor, da cui deriva il nostro “amore”, rimanda ad a-mors, “togliere la morte”: amando, gli umani diventano come gli dèi, immortali e sempre uguali a se stessi.
Noi umani, che siamo mortali, possiamo imitare gli dèi con l’amore. Come? Amandoci e generando nell’amore, procreando e lasciando un essere ogni volta nuovo – frutto del nostro amore – che prenda il posto di noi, che invecchiamo e moriamo. Tale e tanta è la potenza dell’amore.
Caro Epicuro,
ci hai insegnato che essa non deve essere temuta. Perché, in fondo, quando c’è lei non ci siamo noi, e fintantoché ci siamo noi, lei non c’è. Alludo alla morte, che potremmo anche intendere come l’inappellabile fine di tutte le cose. Morendo, infatti, finisce ogni nostra possibile esperienza del mondo. E cessiamo d’essere. Non so fino a che punto il tuo argomento sia persuasivo, anche se capisco bene i motivi etici che ti hanno indotto a elaborarlo: la morte è la realtà che più ci spaventa. E pensare, come fai tu, che in verità mai la incontriamo, può essere di grande conforto.
Ma che cos’è, davvero, la morte?
Nel suo senso più generale, penso la si possa concepire come il punto finale di quella lunga frase che, con le sue virgole e le sue parentesi, con i suoi punti esclamativi e i suoi interrogativi, è la nostra vita. È il viaggio finale e senza ritorno, un salto nell’abisso da cui nessun viaggiatore è tornato per raccontarci cosa realmente accada quando non siamo più. Per chi, come te, ritenga che non vi siano altre realtà oltre quelle materiali del mondo, essa è davvero la fine di tutto. Diversamente, per chi, come i cristiani, crede in un aldilà, essa è un passaggio: non fine di tutte le cose, dunque, ma inizio di una nuova vita, ancora più piena e più autentica di quella trascorsa su questa terra.
In effetti, una cosa è certa: dell’intero creato, siamo i soli viventi che abbiano coscienza della morte. E, con essa, del nostro stesso stato di condannati, che solo ignorano il giorno dell’esecuzione. Trascorriamo l’intera nostra vita come una più o meno lunga preparazione alla morte, della quale siamo consapevoli. Sembrerebbe, a un primo sguardo, una vera e propria condanna: non solo moriamo, ma addirittura sappiamo che quello è, inaggirabilmente, il nostro destino.
Ma il sapere di dover morire ci pone, davvero, in una condizione peggiore rispetto agli altri viventi, che pure, come noi, muoiono, ma non vivono con la coscienza di questo inevitabile evento? A me pare che, forse, il sapere di dover morire sia ciò che determina la nostra condizione privilegiata: non è, forse, solo la piena coscienza del fatto che disponiamo di un tempo limitato, dai confini precisi e invalicabili, a fare sì che possiamo progettare la nostra vita, attribuendole un senso compiuto? Se noi possiamo attribuire un senso preciso all’esistenza, ciò dipende, in fondo, proprio dal fatto che essa figura come un segmento delimitato, con un inizio e con una fine: al quale, per ciò stesso, possiamo assegnare quel senso compiuto (denso di progetti e aspettative, di sogni e di speranze), che, invece, sarebbe impossibile ove non vi fosse, ben chiara nel nostro immaginario, l’idea della fine. È per questa ragione, in effetti, che, prima di te, Omero, nei suoi poemi, rappresenta perfino gli dèi dell’Olimpo come invidiosi della condizione umana. L’immortalità dei divini impedisce loro di assegnare un senso compiuto al loro esistere: ciò che, invece, possono fare i mortali.
La morte, dunque, non deve essere temuta: e non dovrebbe esserlo nemmeno qualora, dopo di essa, come tu ritieni, non vi fosse più nulla. Al suo cospetto, conviene assumere – impiego l’immagine del poeta Lucrezio – il contegno di chi, dopo un lauto banchetto, si alza pienamente appagato o del tutto insoddisfatto: in ogni caso, può ben dirsi contento di prendere congedo dalla tavola.
Caro Epicuro,
tra i valor...