Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
da Saluterò di nuovo il sole
Anni fa, quando arrivava la primavera a Teheran, gli zingari scendevano dalla montagna con le braccia cariche di rami di gelso bianco. Anche i bambini tenevano i rami in equilibrio sulla testa o stretti al petto. Le zingare avevano gli occhi neri e indossavano fazzoletti a colori vivaci e gonne ampie che sfioravano la terra. Erano sempre scalze. I gelsi che portavano dalla montagna erano dolci, rotondi e duri. Quando la gente vedeva le zingare arrivare, correva in strada ad accoglierle, e più l’inverno era stato lungo e freddo, più la gente era felice di rivederle. In tutte le strade, in tutti i vicoli le zingare ricevevano monete, perché era l’anno nuovo, l’epoca della generosità, del perdono e della speranza.
Quando arrivò la primavera quell’anno, chiunque fosse passato per Teheran avrebbe visto la promessa di un nuovo inizio guardando il monte Damavand. I prati delle colline erano fitti di papaveri, tulipani e giacinti; i platani erano carichi di nuove foglie; i venti che soffiavano dalle montagne ripulivano l’aria fumosa. Avevo perso mio marito, mio figlio e c’era mancato poco che perdessi anche la vita. Quel che restava, l’unica cosa sopravvissuta, che era anche quella che sentivo più forte, era il desiderio di scrivere. Ero triste, e non mi sarei mai liberata di quella tristezza, ma non avevo più paura.
«Eccoci qua» disse Leila precedendomi nella stanza.
Dopo aver lasciato la Clinica Rezayan, Leila mi aveva portato a casa sua. Aveva preparato una stanza per me di fronte alla sua. Era piccola ma luminosa, con un letto in legno, un cassettone, una piccola scrivania e una sedia. In un armadio trovai una vestaglia di seta e un paio di pantofole in tinta; ben presto ci sarebbe stata anche una fila di bei vestiti, camicette e gonne. Dalla finestra riuscivo a vedere oltre il muro di cinta del giardino, oltre le spalliere dei rampicanti e gli alberi, verso le montagne.
Quella prima notte Leila rimase con me finché non mi addormentai. Quando riaprii gli occhi, era completamente buio. Andai fino in camera di Leila, dove rimasi finché lei non mi disse che avevo dormito per due giorni di seguito, poi mi addormentai di nuovo.
Un pomeriggio, quando l’effetto delle pillole cominciò a svanire e mi sentii più in forze, Leila mi prese sottobraccio e mi fece fare il giro della casa, mostrandomi tutte le stanze, dal salotto alla cucina, finché non arrivammo in biblioteca. C’erano libri ovunque, in bilico sui tavolini, impilati in ogni angolo.
Sentivo che mi guardava mentre esaminavo la stanza. «Spero che ti troverai bene qui» disse. «Il bagno è in fondo al corridoio. La mia governante arriverà fra poco e se hai fame o sete puoi chiederle di portarti qualcosa. Tornerò verso le quattro, anche prima se il mio appuntamento finisce presto. Va bene, Forugh?»
Annuii. «È perfetto» dissi. «Grazie.»
Sprofondai in una poltrona di pelle accanto alla finestra e rimasi a lungo ad ascoltare il silenzio. L’unico rumore era il vento leggero contro le finestre. Era un silenzio diverso da quello della Clinica Rezayan. Lì era opprimente e carico di terrore e dolore. Qui invece era piacevole, mi rilassava, alleviava le mie paure.
«Hai fame?» mi chiese Leila quando riapparve sulla soglia più tardi, stirando le braccia sopra la testa con il movimento languido di un gatto. Mi sembrò strano che non fosse una domestica a preparare la cena, ma mi bastò vedere come accendeva un fiammifero sulla stufa per capire quanto amava cucinare. Mi sedetti su uno sgabello e la guardai. Gli scaffali in cucina erano stipati di scodelle e caraffe, barattoli di miele, aromi e spezie, caraffe di vino. Di tanto in tanto Leila si voltava verso di me per sottolineare un’osservazione o valutare la mia reazione al suo racconto. La sua presenza mi intimidiva e per lo più rimasi in silenzio, ad ascoltare e a guardarla.
Fu una cena semplice, a base di pesce e riso pilaf con aromi freschi. Ripulii due piatti. Era strano farsi servire, ma Leila lo faceva con una tale disinvoltura, con così poche cerimonie, che sembrava un’appendice naturale alla nostra conversazione.
Dopo ci sedemmo a gambe incrociate accanto al fuoco, ognuna con una tazza di tè zuccherato fra le mani, e lei mi raccontò qualcosa di sé.
«Mio padre era un principe Qajar» cominciò. «Un anno andò a sud per placare una sommossa in uno dei possedimenti della sua famiglia. Quando tornò, portò con sé una nuova moglie, mia madre.» Si mise in bocca una zolletta di zucchero, bevve un sorso di tè e proseguì. «Aveva sessantatré anni, nove mogli, varie decine di figli ed era l’unico erede di suo padre. Lei aveva tredici anni, gli occhi neri e la pelle olivastra ed era una Bakhtiari di provincia.»
Mentre parlava mi guardai intorno. I vivaci tappeti di lana, le due spesse file di braccialetti d’oro ai polsi di Leila, i suoi piedi scalzi e la massa di riccioli scuri: tutte eredità della tribù di sua madre.
«Tua madre com’era?»
«Aveva un carattere dolce ma a modo suo era coraggiosa. Quando le altre mogli la snobbavano, lei non se ne curava. Faceva sempre quel che voleva e mi ha lasciata molto più libera delle altre bambine. Mio fratello Rahim e io eravamo gli unici gemelli dell’harem. Quando eravamo piccoli mi seguiva dappertutto come un cagnolino, cosa che diventò un piccolo problema quando per lui arrivò il momento di iniziare gli studi.»
«Come mai?»
Lei sorrise. «Ogni volta che arrivava un istitutore, Rahim rifiutava di separarsi da me, e allora andavo con lui. Credo di aver imparato più di mio fratello... le lezioni piacevano molto di più a me, specialmente quelle sulla poesia. C’è stato un periodo, sarà durato un anno, in cui ho copiato a mano tutte le poesie di Sa’adi. Le altre mogli di mio padre trovavano ridicolo educare una figlia come se fosse stata un principe, ma credo che mia madre fosse contenta di dare scandalo tra tutte quelle pie donne.»
«E tuo padre la incoraggiava?»
«In un certo senso. A quel punto era talmente vecchio che non si rendeva quasi conto di quel che faceva lei. Poi, quando avevamo tredici anni, lui morì.» Esitò, aggrottando la fronte. «E mia madre morì un anno dopo. Era così giovane. Non riuscivo a spiegarmelo. E non ci riesco nemmeno adesso.» Scosse appena la testa e vidi che il dolore era ancora vivo. Si schiarì la voce e proseguì. «Rahim fu mandato all’estero, in collegio. Fu una cosa crudele spedirlo così lontano, ma la famiglia aveva fatto la sua scelta e non c’era niente da fare.»
«E per te cosa decisero?»
«Il matrimonio,» disse lei «cos’altro potevano decidere?»
«E ti sei sposata?»
Lei scosse la testa. «No, anche se in un certo senso volevo sposarmi, o almeno essere corteggiata. Il problema era che a nessuna delle altre mogli di mio padre interessava organizzare il mio matrimonio. Tanto per cominciare avevano le loro figlie di cui occuparsi. E quindi passò un anno, poi un altro...»
«Come sei finita a vivere qui...» mi schiarii la voce e aggiunsi: «Da sola?».
«Non sono mai andata molto d’accordo con le altre mogli di mio padre, e senza mia madre e con Rahim in Inghilterra rimasi davvero da sola. A diciotto anni mio fratello e io abbiamo ereditato dei soldi. Erano soprattutto soldi suoi, ma... questa storia te la racconterò un’altra volta. Comunque lui ha ereditato anche questa,» indicò la casa con un gesto «ma visto che non gli serviva, eccomi qua.»
Bevve un ultimo sorso di tè e mi spiegò che quando aveva deciso di non vivere nella tenuta di famiglia e di trasferirsi, oltretutto senza prima sposarsi, i suoi familiari l’avevano giudicata egoista e sfacciata. Vivere da sola era una decisione audace per una donna, senza precedenti. Il suo comportamento scandalizzò tutti: la sua risposta fu di ignorarli. Era talmente occupata con le sue traduzioni e i suoi obiettivi letterari che si accorse a malapena della loro disapprovazione, e questa fu la sua ribellione più temeraria.
«Potevo vivere per loro oppure per me stessa» concluse. «La scelta non è stata difficile.»
Volevo farle altre domande sulla sua vita, ma per il momento mi accontentai di chiederle da quanti anni viveva in quella casa.
«Otto.»
«È un posto bellissimo.»
«Sì, sembra di stare ancora in campagna anche se siamo a Teheran, vero?»
Annuii. La posizione isolata della tenuta mi aveva già colpito quando ero venuta a trovarla la prima volta, ma ora ne vedevo i vantaggi con più chiarezza. Se una donna voleva vivere da sola e aveva i mezzi per farlo, era proprio il posto ideale.
Versò altre due tazze di tè e io mi resi conto che ora toccava a me parlare. Avevo la sensazione che Leila sapesse o immaginasse cosa mi era successo nell’ultimo anno: erano state scritte tante cose di me sui giornali, e anche se erano per lo più stupidaggini, alcune erano innegabili. Ma da dove cominciare?
«Ho lasciato mio marito» dissi. Poi, dopo un istante, aggiunsi: «E mio figlio».
«Sì,» disse lei piano «l’ho sentito dire, ma non sapevo quanto fossero pettegolezzi.» Posò la mano sulla mia e la strinse. «Dimmi com’è successo.»
Esitai un momento, poi mi schiarii la voce e cominciai a parlare. Le dissi tutto, del mio matrimonio e della separazione da Parviz, del tradimento di Nasser e del rifiuto di mio marito di farmi vedere Kami se non avessi smesso di scrivere e non fossi tornata ad Ahwaz. Le descrissi la Clinica Rezayan e quello che mi era successo lì.
Fu la prima persona alla quale confidai tutto. Ci volle molto tempo. A tratti esitavo. A un certo punto, mentre parlavo di Kami e del dolore della sua mancanza, dovetti fermarmi. Leila andò silenziosamente in cucina e tornò con una ciotola di gelsi bianchi. Mi ascoltò senza dare giudizi, facendo una domanda ogni tanto, ma soprattutto mi lasciò parlare, e rimase in silenzio quando non ci riuscivo.
«Sei una donna coraggiosa» disse quando finii.
«Anche se quello che ho fatto mi è costato mio figlio?»
La guardai con ansia, aspettando la sua risposta. Volevo che lei mi prendesse la mano e mi rassicurasse: certo, lo ero, anche se mi era costato mio figlio. E non avevo sbagliato ad abbandonare mio marito. E non ero né pazza né senza cuore. Ma lei non mi dette né torto né ragione. Mi ascoltò e basta.
In quel momento fu quasi sufficiente.
Però c’era una domanda che ancora mi tormentava, e quella mi sembrò l’occasione giusta per porla. «È da quando sono arrivata qui che voglio sapere una cosa.»
«Sì?» chiese lei, inarcando un sopracciglio.
«Quando sei venuta a portarmi via da...» Cercai la parola giusta per descrivere la clinica. «Da quel posto,» dissi alla fine «come hai fatto?»
Lei sorrise appena e si strinse nelle spalle. «C’è sempre un modo. Perfino nel nostro paese... no, specialmente nel nostro paese... c’è sempre un modo.»
«Soldi?» chiesi.
Lei non rispose, confermando la mia idea.
«In questo caso sono in debito con te.»
«No, non è vero. Non parliamone, per favore. L’unica cosa che voglio sapere è: cosa farai ora che sei libera?»
Aprii la bocca, ma le parole non uscirono. Che cosa avrei fatto ora? Non ne avevo la minima idea. Non avevo un posto dove vivere, né una famiglia che mi volesse. Anche se avessi avuto dei soldi, nessuno avrebbe mai affittato una casa a una donna sola. Chinai la testa e nascosi il viso fra le mani.
Lei mi prese per i polsi e mi allontanò dolcemente le mani, poi mi guardò negli occhi. «Ti riposerai, azizam» disse, posandomi la mano sulla spalla. «Per ora rimarrai qui e non farai altro che riposare.»
Il quinto giorno venne a trovarmi Puran.
«Oh, Forugh!» esclamò quando mi vide.
Corse verso di me, si chinò sulla poltrona dov’ero seduta e ...