In nome di quale mistero insondabile, di quale incommensurabile ingenuità, l’uomo del ventunesimo secolo si condanna a fingere la più grande sorpresa ogniqualvolta l’odio bussa alla sua porta?
L’odio lo assale dall’esterno così come lo rode nell’intimo. Ha già vissuto, direttamente o indirettamente, e i suoi genitori prima di lui, e prima ancora i genitori dei suoi genitori, guerre di proporzioni gigantesche, rivoluzioni totali e terribilmente sanguinose, e persino genocidi, eventi tipici del secolo che lo ha visto nascere e crescere. Da dove viene dunque la sensazione di esserne immune? Non può accadere qui! Non può accadere a me! Povero bipede senza piume e senza memoria! L’11 settembre 2001, nelle prime ore di una mattinata newyorchese gli americani contano migliaia e migliaia di vittime, assassinate improvvisamente, gratuitamente. Senza motivo. Si trovavano semplicemente là, in quel luogo, al lavoro, al bar, neri, bianchi, gialli, addetti alle pulizie e banchieri, per scoprirsi di colpo in balìa della volontà di uccidere, senza appello e capace solo di colpire nel mucchio.
I cittadini degli Stati Uniti, scioccati e sbalorditi, rimasero stupefatti nel constatare che la maggioranza dei cittadini del mondo manifestava una compiacente comprensione nei confronti degli autori del massacro. Soltanto un brandello di decenza impedì ad alcuni di applaudire. Ciò nondimeno ci fu chi espresse la propria soddisfazione. Qualche esteta si lanciò persino in dotte elucubrazioni sul gigantesco fuoco d’artificio che aveva appena inghiottito un buon numero di suoi simili. Perché tanto odio?
Passati tre anni e dopo una guerra in Iraq, quegli stessi americani hanno scoperto che alcuni loro concittadini, in uniforme, non nascondevano più la propria soddisfazione nell’infliggere, con tanto di foto-ricordo, umiliazioni e sevizie a prigionieri indifesi, ridotti a nullità, al rango di animali, nudi e anonimi. Ah! Il volto ridente di Lyndie England! La sbarazzina soldatessa tiene al guinzaglio un maschio arabo costretto a muoversi a quattro zampe! Si mette in posa davanti all’obiettivo, con il pollice alzato in segno di vittoria e un bel sorriso, tra le inferriate di Abu Ghraib. La trovata ha successo e riesce a passare ai posteri; il suo umorismo macabro viene sbattuto in prima pagina su tutti i quotidiani, e sconvolge il mondo intero. Quanto al comando militare americano, ha quanto meno tollerato, se non incoraggiato, sevizie moralmente intollerabili, politicamente controproducenti e strategicamente assurde. Il che gli costerà caro.
Offesa, l’opinione pubblica d’oltre-Atlantico e poi del mondo intero scopre, o meglio riscopre, che l’odio, lungi dal tenersi lontano dalla società civile, non chiede di meglio che risvegliarsi in ogni individuo, uomo o donna che sia. Di fronte all’ignominia, i più avveduti non si accontentano di semplicistiche spiegazioni che attribuiscono alla fatalità dei combattimenti, all’imitazione di una brutalità loro estranea o a un attacco di panico l’improvvisa trasformazione dei soldati americani da intrepidi liberatori in aguzzini.
Spingendo la curiosità oltre il consueto, alcuni giornalisti2 fanno notare come la guerra in Iraq non sia altro che una situazione favorevole, la manifestazione contingente di una pulsione che la oltrepassa e la precede. Anche in tempo di pace, l’ordinamento carcerario americano è costellato di palesi sevizie, di cui normalmente le persone per bene non vengono a conoscenza. Non è necessario aver letto Michel Foucault per intuire che la crudeltà portata alla luce nelle prigioni militari ha di eccezionale soltanto la pubblicità e l’indignazione che suscita. Non unicamente militare né tanto meno esclusivamente americano, oscuramente ma equamente condiviso, ogni giorno l’odio ci parla. Oggi lo fa per mezzo di attentati, di ostaggi e di ricatti.
Un attentato può considerarsi riuscito soltanto se lascia un segno nella mente dei superstiti. Far impazzire il borghese: era già questo l’obiettivo della “propaganda mediante i fatti” predicata un tempo dai nostri Ravachol parigini quando una granata lanciata contro il Café Terminus, interrompeva le partite di carte e il languore dei valzer. Esattamente come oggi, anche durante la Belle Époque il terrorista voleva vincere, non convincere. Se colpisce nel mucchio e massacra a caso esseri innocenti e inoffensivi, ecco che la sua azione ha successo, non perché fa riflettere, ma perché impedisce di riflettere. Sbalordisce. Poco importano le idee, poco importa il pretesto, «il saggio ammucchierà una quantità di dinamite sufficiente a far saltare in aria il pianeta. Quando andrà in pezzi... sarà una soddisfazione per la coscienza universale, che peraltro non esiste». Così Anatole France riassumeva ironicamente il credo nichilista dei bombaroli del suo tempo. Attualmente, però, la versione laica e dilettantesca di Émile Henry non è più di moda, ora furoreggia quella teologica.
L’orizzonte di Hiroshima
L’attualità si annuncia spietata. La potenza del disumano e l’efficacia dell’odio mutano pericolosamente. Una generazione alle prese con l’ecologia e impegnata a “uscire dal nucleare”, si ritrova improvvisamente e a sua insaputa spinta verso un orizzonte ben più pericoloso di quello che aveva sognato di esorcizzare. È nuovamente costretta a pensare l’impensabile e ad abbandonare l’era della bomba H per passare a quella delle bombe umane.
Prima o poi, volenti o nolenti, le nostre categorie mentali e morali saranno sconvolte. Dopo Hiroshima, per mezzo secolo l’inaudita capacità di mettere fine all’avventura umana è rimasta appannaggio di una, poi due e infine sette potenze nucleari. Cinque miliardi di esseri umani, moderatamente preoccupati, si sono dedicati alle proprie occupazioni delegando, democraticamente o meno, ad alcuni “grandi” la cura suprema della loro sopravvivenza. Purtroppo, questa generale, quanto comoda, spensieratezza appare ormai del tutto fuori luogo: dopo l’11 settembre, ciascuno sa quello di cui chiunque potrebbe essere capace. L’apocalittica facoltà di fischiare la fine della partita, un tempo privilegio degli dèi, poi monopolizzata dalle superpotenze, è ormai alla portata del grande pubblico.
Se, armati di un semplice, taglierino, io, tu, lei o lui possiamo dirottare un aereo e farlo precipitare sul Pentagono, nessuna centrale nucleare può essere considerata al sicuro. Il potere devastatore, in mano ai detentori dell’arma “assoluta”, non ha più nulla di esclusivo e finisce nelle mani di tutti.
Soltanto due generazioni ci separano dalla lezione di Hiroshima, lezione che nel corso dei decenni si è tentato di neutralizzare. Sul momento, sotto la spinta della inaudita drammaticità dell’evento, Sartre si lanciò in affermazioni gravi che oggi dobbiamo reiterare: «La comunità che possiede la bomba atomica si è posta al di sopra della natura, poiché è responsabile della vita e della morte: bisognerà che ogni giorno, in ogni istante, permetta di vivere»3. Questa responsabilità, assolutamente nuova, è definitiva: vale anche dopo Manhattan; si impone a chi crede e a chi non crede. «L’assoluto è sceso sulla terra con la voce del terrore», fa eco il filosofo cristiano Jean Guitton, amico di Paolo VI. L’evento, decisivo quanto la morte sulla croce, divide in due la storia. «Ormai la metafisica e la morale non sono più relegate nelle coscienze dei singoli; non dipendono più dalle religioni; lasciano i recessi segreti delle coscienze e degli oratori, entrano nell’esperienza, nella politica, nelle questioni internazionali, nelle conquiste strategiche. L’evidenza sostituisce la fede. Pericolo di morte: queste parole sono scritte (invisibilmente) ovunque4.»
Questa inquietante condizione umana, da allora irreversibilmente dotata del potere di fare a pezzi il mondo, è definita dalla sua capacità universale di omicidio, e dunque di suicidio. A caldo, Sartre continua affermando: «Non c’è più specie umana... dopo la morte di Dio, ecco che si annuncia la morte dell’uomo». Molto presto però se ne dimentica e i motivi di consolazione abbondano; l’equilibrio del terrore tempera le angosce delle persone, persino le angosce dei filosofi. L’abitudine ad affacciarsi sull’orlo dell’abisso sembra rendere irragionevoli; la prospettiva dell’annientamento totale, uguale per i blocchi rivali, raggela gli ardori bellicosi. Tra i “grandi”, ma soltanto tra loro, la guerra diventa “fredda”.
La possibilità di una pace dissuasiva, fondata sul rischio condiviso, era appesa a un filo, quello di una fragile ipotesi che Sartre e i suoi contemporanei speravano fosse acquisita. «La bomba atomica,» scriveva «non è a disposizione del primo venuto, bisognerebbe che il folle intenzionato a usarla fosse un Hitler.» Su questo assioma ottimista, mezzo secolo ha costruito la sua pace interiore ed esteriore; di qui l’enorme sconcerto quando una simile, beata, certezza è andata in frantumi. Le bombe umane di Manhattan hanno preso in contropiede l’euforica ipotesi dissuasiva. Sì! Una capacità di distruzione di dimensioni nucleari è ormai a portata di mano del primo venuto. Sì! Una volontà di devastazione che non ha nulla da invidiare ai sogni nazisti si accanisce sui civili e fa del massacro di innocenti il proprio obiettivo supremo. Hitler fornito con scatola di montaggio, do it yourself.
Come contenere, far ragionare, neutralizzare una bomba umana? Un tempo, il terrorismo doveva fare i conti con tutta una serie di misure approntate con cura: repressione poliziesca, interventi economici e sociali, metodi pedagogici. Oggi invece una sfida senza frontiere chiama in causa hic et nunc le nostre ragioni di vita, le nostre speranze di sopravvivenza e il nostro coraggio di fronte alla morte. Ci educa, più che farsi educare; interroga ciascuno nel suo rapporto con gli altri, con il mondo, con se stesso; è diventata il nostro problema filosofico numero uno.
Disillusione freudiana
La storia contemporanea si snoda attorno a fratture del tutto inattese e l’11 settembre non è che l’ultima di questo genere. Rivelazioni così forti da togliere il fiato fanno sì che il volto pallido della condizione umana diventi troppo sconvolgente, troppo agghiacciante per essere percepito e riconosciuto in tempi normali. Poco numerosi, ma decisivi, alcuni momenti di verità, di “rivelazione”, cortocircuitano le opinioni correnti. Le tradizioni cedono di fronte a una folgorazione più forte di loro. Si dice allora che l’evento scoppia come un fulmine a ciel sereno. Si parla dunque di tempesta, poi di naufragio. In retrospettiva, queste povere metafore traducono male l’irresistibile infatuazione delle giornate dell’agosto del 1914, che videro sprofondare nell’abisso un’Europa e una Belle Époque smaglianti, incoscienti, tranquille.
La dichiarazione di guerra, l’inatteso entusiasmo, la mobilitazione gioiosa sconvolsero totalmente le strutture materiali, economiche e sociali del vecchio continente; il borghese ne fu toccato nel corpo e nello spirito, ne fu scosso nelle convinzioni e nella fede. Lo sbalorditivo rovesciamento dei valori venne alla luce soltanto dopo l’inizio delle ostilità, a poco a poco.
Già dal 1915 Freud fu tra i primi a denunciare la spaventosa “disillusione”, il rifiuto «di tutti i vincoli cui ci si sottomette in tempo di pace». La “rabbia cieca”, che la nostra civiltà cova nell’intimo, a sua insaputa «rovescia tutto ciò che le sbarra la strada, come se dopo di sé l’umanità non dovesse avere né avvenire né pace»5.
Tocca all’inventore della psicanalisi scoprire, nel più profondo della condizione umana, un’enigmatica «pulsione di morte». Scava in silenzio, al di là del piacere, acquattata sotto i brucianti languori e le furberie dell’Eros.
Quattro anni dopo, nonostante la pace sia stata firmata, non si è risolto nulla.
Come dovette apparire sciocco l’anteguerra ai mutilati e ai reduci delle trincee! Non era più possibile scrivere, poetare, filosofeggiare e far politica “girando a vuoto” come prima della guerra.
Il «temps perdu» era davvero perso, irrimediabilmente perso. E coloro che si ostinarono ad aggrapparsi ai buoni sentimenti, addormentati nei più profondi recessi dell’animo umano, in meno di vent’anni furono spazzati via. «I fessi!» sussurra garbatamente Daladier, osannato per aver salvato “la pace” cedendo alle prepotenze della Germania nazista. La tempesta del 1914-1918 aveva prodotto soltanto pezzi di verità. La storia avrebbe ripetuto con maggior crudeltà i suoi tragici avvertimenti.
L’uomo senza volto
Appena terminata la seconda guerra mondiale, torna immediatamente a galla il bisogno di pensare “contro” il proprio passato. Rivista di riferimento durante gli anni Cinquanta, «Temps modernes» avrebbe dato il la a un’intera generazione, fino a dilaniarsi attorno ad assiomi indicati dai due direttori della pubblicazione, Merleau-Ponty e Sartre. Già nel primo numero della rivista, Merleau-Ponty sotterra del tutto irrispettosamente, senza fiori e senza bandiere, i maîtres à penser che avevano cullato i suoi sonnambolici studi. «Ci si invitava a ritrovare il momento in cui la guerra di Troia poteva ancora non avere luogo... Sapevamo che i campi di concentramento esistevano, che gli ebrei erano perseguitati, tuttavia queste certezze appartenevano all’univer...