Nuvole barocche
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Nuvole barocche

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

È sabato mattina e Genova si sta risvegliando da una notte di tempesta gelida. La pioggia ha smesso di cadere e il vento che soffia da est inizia a diradare le nubi lasciando intravedere i colori dell'aurora. Ma non è il cielo ad attirare l'attenzione di un uomo in tenuta da jogging, quanto piuttosto un cumulo di stracci che giace sulla passeggiata a qualche decina di metri da lui.
Mezz'ora dopo, il Porto Antico è invaso da poliziotti e agenti della Scientifica. Il ragazzo è riverso a terra, il volto tumefatto, indosso un cappotto rosa shocking con cui, la sera prima, non era passato inosservato alla festa che si teneva lì vicino a sostegno delle unioni civili. Si tratta di Andrea Pittaluga, studente universitario della Genova bene e nipote di un famoso architetto. Quando arriva sul posto in sella alla sua Guzzi, il vicequestore aggiunto Paolo Nigra ha già detto addio alla sua giornata di riposo e messo su la proverbiale faccia da poker che lo rende imperscrutabile anche ai suoi più stretti collaboratori. Quarant'anni, gay dichiarato, nel constatare il feroce accanimento sulla vittima Nigra fatica a non pensare a un'aggressione omofoba. Negli ultimi tempi non sono mancati episodi preoccupanti, da questo punto di vista. I primi sospettati, però, hanno un alibi e la polizia arranca nel tentativo di trovare altre piste. Nigra è a mani vuote, una condizione che non gli dà pace. Lo sa bene Rocco, il suo compagno, che ne sconta il malumore, sentendosi rinfacciare per l'ennesima volta la scelta di tenere nascosta la loro relazione.
Il rischio che, questa volta, la giustizia debba rimanere senza un colpevole è reale. A meno di sospendere il giudizio e accettare il fatto che a dominare il destino degli uomini non sia altro che il caos.

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858521878

1

Il vento carico di acqua gelida soffiava sulle onde di un mare increspato e nero, raggiungeva la costa, spazzava l’acciottolato e il cemento del porto, batteva contro il muro dei palazzi antichi e sibilava nei vicoli, facendo vibrare le corde dei panni e percuotendo le imposte chiuse.
Il cassiere di supermercato cinquantenne Ermenegildo Bianconi si svegliò pochi minuti prima delle sei e ascoltò la pioggia battere sugli scuri. A quel rumore, il metodico Bianconi sbuffò. L’idea di andare a correre con la pioggia non gli piaceva, però nemmeno per un secondo prese in considerazione la possibilità di rinunciare.
Ogni mattina, prima dello spuntare del giorno, Bianconi usciva di casa e si faceva la sua corsetta al Porto Antico, almeno tre o quattro giri intorno ai Magazzini del Cotone, e non c’erano acqua, vento o tempesta di ghiaccio che potessero impedirglielo. Per lui era come per altri prendere il caffè: la sua giornata non partiva, se non con una mezz’oretta almeno di jogging.
Al supermercato, come ogni sabato mattina, aveva il turno delle otto e zero-zero, si attenne quindi al suo ottimo ruolino di marcia. Alle sei in punto si chiuse in bagno e, per quanto consapevole che, pochi minuti dopo, la sua faccia sarebbe stata abbondantemente sciacquata dalla pioggia, la lavò con dovizia. Alle sei e sette minuti infilò le scarpette, i calzoncini, la maglietta in tessuto tecnologico traspirante, il k-way incerato rosso e scese le scale.
Mentre correva con il cappuccio calato sulla fronte e l’acqua negli occhi, intuì che intorno non c’era nessuno. Le già poche anime che a quell’ora facevano esercizio con lui, visto il clima funesto, avevano deciso tutte di starsene a casa. Bianconi spese qualche pensiero per compatirle e compiacersi della propria irriducibilità.
Il vento soffiò una raffica micidiale, che per un attimo spazzò via la pioggia e fece tintinnare gli alberi delle imbarcazioni ormeggiate. Nel grigio diffuso, a palpebre strette, da quella folata Bianconi capì che presto avrebbe smesso di piovere. Continuò quindi a correre, la fronte bassa, lo sguardo puntato sull’apparizione intermittente dei piedi. Buttò un occhio all’orologio impermeabile e calcolò il tempo restante; i minuti da dedicare alla doccia, quelli per la colazione, quelli per la corsa in scooter al supermercato. Ogni dettaglio era incastrato alla perfezione, con oltre dieci minuti di margine per eventuali imprevisti. Alzò gli occhi per controllare. Il vento veniva da est, dove si iniziava a intravedere uno spicchio di cielo libero e colorato dall’aurora.
La cosa, quella cosa dai colori strani, che se ne stava là a terra, a qualche decina di metri da lui, Bianconi la notò quando smise del tutto di piovere.
Sulle prime pensò a un cumulo di stracci, poi a un barbone addormentato. Ma nemmeno i barboni, si disse, per quanto barboni e magari alcolizzati, si sarebbero messi a dormire a terra sulla passeggiata di un porto in una notte di tempesta gelida.
Decise quindi di rallentare e avvicinarsi. Entro quindici minuti al massimo avrebbe dovuto prendere la via di casa. Non riusciva a capire cosa avesse davanti, ma una volta esclusa l’ipotesi barbone fu abbastanza certo che si trattasse di semplici oggetti, forse immondizia o roba che doveva essere imbarcata su uno degli yacht ormeggiati lì in fila.
Poi vide.
Vide un braccio e una mano. Vide tutto il resto. Le gambe fasciate da qualcosa di stretto ed elastico, il cappotto di un rosa brillante.
«Signorina!» urlò. «Dio, Dio, Dio. Sta male?»
In un attimo fu sul corpo, senza esitare afferrò la spalla e diede uno scossone. Una bolla d’aria si formò davanti alla faccia riversa a terra, nella pozza di pioggia e sangue.
«È viva!» strillò Bianconi a nessuno. «Aiuto, aiutatemi!» urlò ancora, stavolta in direzione degli yacht, sperando che almeno lì ci fosse qualcuno.
Con una manata si liberò la testa dal cappuccio antipioggia. In un lampo di lucidità maledisse l’abitudine di non portarsi dietro il telefonino quando correva. Si guardò intorno in cerca di forme umane. Nessuno. Rivoltò il corpo sulla schiena. Il braccio sinistro piroettò nell’aria e schiaffeggiò una pozzanghera. Bianconi si bloccò nel vedere il viso.
Non si era aspettato che potesse esserci un ragazzo, dentro quegli abiti. Ma non fu tanto questo a bloccarlo, quanto la necessità di capire se davvero respirasse ancora.
E sì, respirava. Una sottile striscia di schiuma biancastra scorreva dall’angolo della bocca lungo la guancia, con un sibilo sottile e un risucchio quasi impercettibile. Gli occhi erano gonfi al punto da non far capire se fossero chiusi o aperti.
«Merda» sussurrò Bianconi. Il ragazzo doveva avere più o meno vent’anni. «Merda» ripeté.
Guardò in lontananza, in direzione della piscina estiva e poi dalla parte opposta, per vedere se arrivasse qualcuno. Il cielo continuava ad aprirsi, sotto le spinte di un vento sempre più forte che, ora, faceva sbattere e schioccare le bandiere sugli alberi degli yacht.
«Gesù Cristo,» esclamò Bianconi «ma dove cazzo siete finiti, tutti?» Poi infilò le mani nelle tasche del ragazzo alla ricerca di un telefono. Al suo posto trovò soltanto un portafogli zuppo, un mazzo di chiavi, un pacchetto di sigarette decomposto da acqua e sangue.
La luce aumentava. Nel chiarore, Bianconi sfiorò la guancia del ragazzo. Aveva frequentato delle lezioni di primo soccorso, anni prima, ma in quel momento non gli veniva in mente niente di utile. Aveva paura di muoverlo, aveva paura di provocare qualche danno irreparabile.
«Tranquillo» provò a dire, con la voce che tremava. «Non so se mi senti, ma stai tranquillo. Ci sono qua io» disse.
Il ragazzo tossì leggermente.
«Tranquillo, tranquillo» continuò a ripetere Bianconi, e gli posò le mani sul petto. Fu allora che sentì qualcosa di diverso.
Gli pareva che il corpo si stesse irrigidendo in qualche maniera irrimediabile. Le labbra sembravano perdere colore. Senza pensare a nulla, Bianconi passò il dorso della mano sulla bocca del ragazzo per ripulirla, dopodiché la aprì per bene e si abbassò per soffiarci dentro.
Soffiò e soffiò, nonostante il fiato corto, poi posizionò le mani sul torace e spinse a ripetizione, cadenzando il ritmo. Alzò la testa per un istante, ansimando, e non poté fare a meno di balbettare: «Ecco. Guarda. Arriva qualcuno».
Era una donna. Sbucò dall’angolo dei Magazzini del Cotone saltellando su scarpe da jogging gialle, un attimo prima che apparisse anche il sole tra le nuvole.
Bianconi si sbracciò e strillò: «Ohi! Aiuto! Presto!».
La donna non reagì. Procedeva in corsetta leggera senza cambiare ritmo. Negli auricolari aveva Arisa a tutto volume ed era molto miope: quello che le sembrò di vedere da lontano era solo una ragazza in tuta rosa che faceva addominali sdraiata a terra, mentre un uomo accanto sventolava le braccia per fare stretching.
La donna si chiamava Carla Silingardi. Aveva la coda di cavallo che ballonzolava, 57 anni, le labbra al botulino e una massa adiposa contro cui combatteva da quarant’anni.
In attesa che si avvicinasse, Bianconi si abbassò di nuovo sulla bocca del ragazzo. Il corpo non reagiva. Non si sentiva nessun respiro. Bianconi lo colpì al petto direttamente con il pugno della mano destra. Poi si decise.
La donna era a non più di venti metri, quando Bianconi le arrivò addosso come un tir. Carla Silingardi emise un urlo acuto, di puro terrore. Poi subito si afflosciò tra le sue braccia, immediatamente arresa al destino della vittima, convinta di essere aggredita.
Bianconi cercò di tirarla su, di spiegare: «C’è un ragazzo che sta male. Presto. Chiami un’ambulanza».
Ma Carla Silingardi non sentiva niente, anche perché stava gridando con tutta la sua forza: «Mi lasci stare, la prego! Mi lasci! Non ho soldi!».
«Belìn» sbottò Bianconi. «Giusto la più rincoglionita di Genova, doveva passare» disse. E poi rivolgendosi di nuovo a lei: «Dammi ’sto telefono, Cristo».
«Prenda» sibilò la Silingardi. «Lo prenda. Ma non mi faccia del male, la prego.»
Bianconi afferrò uno smartphone magenta ricoperto di perline. Accese lo schermo, gli apparve la richiesta di una password. Si voltò ancora: «Sbloccalo!» urlò alla donna, che però intanto si era rannicchiata a terra, la testa sulle ginocchia. «Ma vaffanculo» sbottò Bianconi, un attimo prima di avvistare sul piccolo schermo l’icona per le chiamate di emergenza.
Appena sentì partire i primi squilli, si voltò e corse di nuovo verso il ragazzo. Lo raggiunse, si abbassò. Tenne il telefono con la destra, mentre con la sinistra e un ginocchio provava a continuare il massaggio cardiaco.
«Pronto?» disse, mentre i suoi occhi increduli seguivano Carla Silingardi tirarsi su con un balzo e correre via a tutta velocità.
L’ambulanza arrivò dopo venti minuti. I paramedici trovarono Bianconi in ginocchio, esausto accanto al corpo del ragazzo, insieme a un paio di altre persone che nel frattempo erano arrivate per caso.
Il vento continuava a soffiare, ma il cielo adesso era quasi limpido. La pioggia della notte aveva ripulito l’aria, e il porto e la città in lontananza erano uno spettacolo.
«Era ridotto molto male» disse uno dei paramedici a Bianconi, poco dopo, allontanandolo dal corpo ancora a terra. «Non c’era speranza di salvarlo, mi dispiace.»
«Lo portate via? Cosa fate?»
«Noi non possiamo più fare niente. Abbiamo chiamato la polizia. Stanno arrivando.»

2

Meno di un’ora dopo, il cielo sopra Genova era magnifico; nuvole barocche si rincorrevano lontane, verso l’orizzonte, svelando un azzurro totale. Un vento frizzante, poco adatto alla fine di aprile, increspava appena il mare scuro.
Nel piazzale, al di là dei nastri segnaletici che delineavano il perimetro, gli agenti tenevano lontani i passanti. Una piccola calca di funzionari e uomini della Scientifica, più il medico legale, lavorava intorno al cadavere. Nessuno, proprio nessuno, nemmeno i rari turisti, prestava attenzione al panorama da cartolina che si svelava oltre il mare; gli scheletri azzurri delle gru del porto, simili a giganteschi insetti preistorici, i colori contrastanti dei container ammassati su una nave, il colpo d’occhio della Lanterna.
L’assistente capo Marta Santamaria lanciò un’occhiata feroce ai curiosi che premevano addosso al nastro segnaletico, e fece un passo in avanti.
«State indietro. Non c’è niente da vedè» disse. «Vedere» si corresse subito. Poi si rivolse al collega: «Paolin, e aiutame, pure te. Mo che ce sarebbe da menà le mani te le tieni in saccoccia, eh?».
L’agente Paolin si irrigidì come sull’attenti, poi avanzò a petto in avanti accanto alla Santamaria e cercò di fare indietreggiare uno sconfortante numero di persone armate di cellulare, pronte a immortalare la scena del crimine.
Elia Evangelisti, il sostituto procuratore incaricato delle indagini, controllò l’orologio. «Siete riusciti a trovarlo?» chiese rivolto al commissario capo Musso.
«Sta arrivando, dottore» starnutì in risposta l’ispettore capo Giacomo Caccialepori, mentre tirava fuori dalla tasca del giubbotto un fazzoletto di stoffa a quadri dall’aria poco pulita.
«Ma non era Crispi, di turno?» Evangelisti aveva l’aria molto seria. Più del solito.
«È malato, dottore» replicò Musso.
«Anche Cocchi» puntualizzò Caccialepori. «Questa influenza sta facendo una strage. Un giorno piove, l’altro fa caldo, belìn, non ci si c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NUVOLE BAROCCHE
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. Epilogo
  32. Note e ringraziamenti
  33. Copyright