Siberia - 71°
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Siberia - 71°

  1. 320 pagine
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Siberia - 71°

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Informazioni sul libro

L'impresa che Simone Moro ha portato a termine nell'inverno del 2018 è emblematica di tutta la sua eccezionale carriera e, allo stesso tempo, segna una svolta. In oltre trent'anni di alpinismo, infatti, Moro ha scelto di non concentrarsi sul cosa - vetta, quota, record… - ma sul come. Ovvero sul senso di confrontarsi con la Natura. Un senso che ha trovato in due parole: "freddo" ed "esplorazione". Le ascensioni in invernale gli hanno sempre consentito di inoltrarsi, oltre che nei luoghi, anzitutto nell'intimo di se stesso. Si spiega così perché Moro, scoprendo per caso che la Yakutia, in Siberia, è la regione abitata in cui si raggiungono le temperature più basse del pianeta, abbia deciso d'impulso di andare a conoscerla per poi salire sulla sua cima più alta, il Pic (o Gora) Pobeda. In questo libro emozionante si dipana il suo racconto che ha il sapore di un'avventura di Jules Verne o delle cronache di un grande esploratore. Non è banale preparare il viaggio in questa terra remotissima e mal collegata, per penetrare nella quale occorrono compagni motivati, una particolare attrezzatura per difendersi dal gelo e una guida che conosca le popolazioni locali. Ma arrivandovi le sorprese superano la fantasia: distese di ghiaccio percorse da camionisti solitari, immense foreste, e anche tanta vita - cercatori d'oro e cacciatori di pellicce -, tanta "gelida normalità" - chi vende al mercato pesce che si congela direttamente sul banco, chi non avendo un box riscaldato tiene il motore dell'auto acceso per tre mesi consecutivi - e tanta Storia, come quella dei gulag e della orrorosa Strada delle ossa. Naturalmente, con Simone Moro e Tamara Lunger, non può mancare infine la conquista mozzafiato del Pic Pobeda, una vetta di 3003 metri che, tra il freddo e la difficoltà, li mette più alla prova di alcuni ottomila himalayani, coronando magnificamente un'impresa che è una grande esplorazione del mondo e anche di sé.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858694381
Categoria
Viaggi

PARTE QUARTA

Alla scoperta dell’Arcipelago Gulag

Con le provviste ce la cavammo piuttosto in fretta, così ne approfittammo per farci accompagnare da Vladimir al museo del posto dove erano conservati fossili e reperti antichi e dove veniva narrata la storia locale, comprese le vicende dei Gulag. Questi territori della Siberia orientale furono, purtroppo, teatro di una triste pagina della storia dell’Unione Sovietica e dell’umanità intera. I Gulag, definiti campi di lavoro correttivi per il recupero di criminali di ogni sorta, in realtà si rivelarono a tutti gli effetti campi di lavoro forzati, utilizzati come strumento di repressione degli oppositori politici, soprattutto sotto Stalin. Sorti nelle regioni più inospitali – tra cui il Grande Nord siberiano, la Siberia orientale – crebbero in maniera esponenziale con le purghe staliniane tra il 1937 e il 1953.
Avendo cominciato a sperimentare sulla nostra pelle le condizioni ambientali estreme e il famoso freddo di quei luoghi, che per tanti uomini avevano rappresentato una condanna definitiva, eravamo desiderosi di saperne di più di questo triste capitolo della storia locale.
Il museo era ospitato all’interno di una piccola casetta lungo la solita strada ghiacciata. Come nei negozi dove eravamo appena stati, anche qui l’entrata vera e propria era anticipata da un’anticamera per evitare di disperdere il tepore ogni volta che qualcuno entrava. Per lo stesso motivo entrambe le porte di questo locale di passaggio erano contornate da stracci e sacchi fissati ai bordi tramite dei chiodi. Si trattava di un sistema antispiffero molto rudimentale ma che funzionava, permettendo il massimo della coibentazione al minimo costo e senza l’impiego di alcuna tecnologia.
All’interno ci venne incontro una signora tarchiata sulla sessantina, seguita da ragazza, di trent’anni più giovane, ma con una corporatura simile.
Il museo contava quattro o cinque stanze, ognuna delle quali era dedicata a un argomento differente. Oltre ai cimeli dei Gulag, vi erano conservati anche minerali, animali imbalsamati, dipinti, libri… La signora non ci parve troppo intenzionata a parlarci subito dei Gulag e preferì mostrarci prima le altre sale. Alle pareti c’erano, immancabili, alcuni dipinti che ritraevano i volti di Stalin e di Lenin, ma mi colpirono maggiormente i telegrafi e i vecchi telefoni stipati in un angolo, unici mezzi di comunicazione all’epoca dei trasferimenti forzati dei prigionieri politici e di coscienza, e del conseguente piano di urbanizzazione, atto a favorire la creazione di insediamenti permanenti in queste aree per lo sfruttamento delle risorse minerarie, forestali e degli animali da pelliccia. Per attuarlo servivano ovviamente vie di comunicazione e per la loro costruzione il regime sovietico si servì di manovalanza gratuita: i prigionieri dei Gulag. In un’altra stanza erano conservati alcuni indumenti e attrezzature usati sia in miniera sia in superficie dai deportati che rendevano ancor più palese lo sforzo titanico richiesto loro per decenni per la messa in opera di una infrastruttura mastodontica come l’unica strada che attraversa tutta la Siberia orientale fino a Magadan, città portuale sul mare di Ochotsk. Viene chiamata anche Strada delle ossa, a causa delle migliaia di vittime morte durante la sua realizzazione. I detenuti, infatti, erano costretti a lavorare in condizioni inumane – il freddo rigido d’inverno, l’umidità e le zanzare d’estate – a cui si aggiungevano la malnutrizione e le torture, una combinazione di fattori che provocava fino a 60 morti al giorno. I cadaveri venivano sotterrati sotto l’impiantito stradale assieme ai materiali di scarto prodotti nell’avanzamento dei lavori attraverso la taiga: ecco spiegata l’origine del sinistro nome.
La signora ci raccontò che alcuni prigionieri si procuravano apposta delle mutilazioni a una mano, un braccio o un piede proprio per evitare di dover lavorare in superficie, soprattutto d’inverno, dato che indossavano soltanto le giacche in cotone imbottite di ovatta che potemmo osservare con i nostri occhi, essendone conservati alcuni esemplari nel museo. Per noi, vestiti con giacche e pantaloni da 8000 metri, scarpe super tecniche, era difficile immaginare come queste persone potessero aver resistito anche solo un giorno là fuori, tra l’altro senza attrezzi di lavoro adeguati, visto che avevano solo semplici picconi, pale e carriole per costruire la strada, lunga circa 2000 chilometri, che collega Jakutsk a Magadan.
In funzione per quasi quarant’anni, i Gulag furono a tutti gli effetti dei campi di concentramento dove il tasso di mortalità dichiarato dal regime stalinista era attorno al sette per cento, dato che sembra ormai poco verosimile e ampiamente inferiore a quello reale. La responsabile del museo sottolineò che molto spesso i detenuti erano disposti a tutto pur di non dover affrontare le temperature polari delle attività all’esterno ed essere destinati invece ai lavori insalubri nelle miniere d’oro: sotto terra la temperatura restava costante intorno ai quattro e cinque gradi mentre fuori arrivava a meno 60, meno 70 gradi. In entrambi i casi la mortalità era alta, all’esterno per fattori climatici, nelle miniere per incidenti tecnici e crolli. La donna ci informò infine che i Gulag erano 130, di cui ben 33 solo nella regione in cui ci trovavamo.
Ascoltammo con attenzione lo scenario apocalittico che ci descrisse nel corso della visita, ne fummo parecchio impressionati. Rimane una pagina di storia allucinante che rispetto ad analoghe di prigionia è stata finora poco raccontata e conosciuta.

Eco della tragedia sul Nanga Parbat

Dopo il lungo periodo in cui erano stati offerti incentivi economici ai russi che si trasferivano nella Siberia orientale, ora si assisteva a un costante spopolamento. Così, fatta eccezione delle grandi città come Jakutsk e Magadan, gli altri centri andavano di anno in anno svuotandosi, assumendo la fisionomia di paesi fantasma. Ust-Nera ci appariva tra questi, nonostante l’estrazione mineraria fosse ancora fiorente.
A ogni modo nella cittadina i cellulari funzionavano ancora perché la copertura c’era, e dopo la visita al museo, mentre cenavamo nell’appartamento che ci era stato messo a disposizione, via messaggio ci arrivò la notizia del dramma che Tomek Mackiewicz ed Elisabeth Revol stavano vivendo sul Nanga Parbat durante il loro tentativo invernale di completare l’apertura della via identificata da Reinhold Messner e Hanspeter Eisendle nel 2000.
Le scarne notizie che ci raggiunsero preoccuparono molto me e Tamara, che avevamo conosciuto i due alpinisti. Quello che gli stava accadendo, bloccati a 7400 metri di quota, con Tomek che accusava gravi problemi alla vista e di congelamenti, costituiva una delle difficoltà drammatiche potenziali in cui si può incappare durante una scalata invernale. Quando si è completamente isolati, non c’è la condivisione dello sforzo con altre persone sulla stessa montagna e perciò farsi male o aver bisogno di aiuto è l’eventualità da scongiurare più di ogni altra. Questo pensiero mi fece riflettere anche sull’esplorazione che ci aspettava: eravamo diretti in un luogo remoto, forse ancora meno raggiungibile dai mezzi di soccorso dei colossi himalayani, nonostante si trovasse a una quota molto più bassa. L’elicottero più vicino infatti stazionava a Jakutsk, a oltre 1000 chilometri di distanza, e doveva fare i conti con difficoltà di rifornimento (inesistente lungo il tragitto che ci separava dalla cittadina) ed eventuali problemi meccanici legati alle temperature impossibili.
Per Tomek ed Elizabeth erano ore cruciali e drammatiche. Il polacco aveva ormai un amore quasi ossessivo per il Nanga Parbat e quello in corso era il suo settimo tentativo invernale, per Elisabeth il quarto. Entrambi conoscevano molto bene quella montagna, e questo mi faceva sperare che sarebbero riusciti a trovare il modo per scendere in autonomia e salvarsi.
Il giorno successivo, il 27 gennaio, ci svegliammo di buon ora, alle 6. Il programma della giornata prevedeva l’acquisto di alcuni prodotti e viveri che avevamo lasciato fuori dalla lista o che ci pareva di non avere in quantità sufficiente. Prima però dovevamo risolvere l’inconveniente del cash con cui pagare le nostre spese: li avevamo finiti e nei negozi locali non era possibile pagare con le carte di credito. Con Vladimir mi recai a uno dei due sportelli di prelievo della cittadina che scoprii non funzionare. Andammo allora al secondo, dove inserii la tessera, digitai il codice e la cifra che intendevo prelevare, ma, spiacevole sorpresa, apparve sullo schermo una scritta che dichiarava l’operazione non disponibile. Per qualche motivo a me ignoto la mia carta di credito fu bloccata e trattenuta nello sportello automatico. Una bella fregatura visto che era anche sabato, la banca era chiusa e non ne avrei ottenuto lo sblocco e la restituzione. Per fortuna ne avevo un’altra e, anche se a costi di prelievo molto più alti, riuscii a prelevare un piccolo ammontare, il massimo che era concesso giornalmente. Non avevo alternative del resto, ci trovavamo in una cittadina sperduta ai confini del mondo, nel fine settimana e non avevamo altro tempo disponibile.
Uscito, spiegai l’inconveniente ai compagni che mi aspettavano in auto e decidemmo di raccogliere tutto il denaro contante di cui ognuno poteva disporre allo sportello per terminare l’acquisto delle provviste mancanti. Stabilimmo anche di economizzare il più possibile per il prosieguo della spedizione. La cosa comunque non ci preoccupava più di tanto: era probabilmente l’ultimo luogo dove avremmo speso dei soldi, da lì in poi i problemi sarebbero stati alpinistici e di trasferimento. Delle spese di spostamento fino a Sasyr, dell’alloggio nel villaggio, del trasporto con le motoslitte fino alle case dei nomadi e tutto il resto, se ne sarebbe occupato il driver che ci stava venendo a prendere proprio da Sasyr e che, a spedizione completata, ci avrebbe riaccompagnato fino a Jakutsk. Nel capoluogo della regione, dove erano disponibili servizi pari a quelli offerti dalle città europee, sarebbe stato molto più semplice saldare i conti.
La vera preoccupazione di quel giorno però era raccogliere maggiori informazioni sulla vicenda di Tomek ed Elisabeth. Come detto, non era facile connettersi a internet, usavamo in hotspot la connessione al cellulare di Filippo, e le informazioni dunque ci giungevano solo tramite messaggini dagli amici a casa, che non le avevano di prima mano ma le prendevano via via dagli aggiornamenti stampa. Nella sintesi di quei messaggi: Elisabeth era stata costretta a lasciare Tomek in una tendina a oltre 7000 metri e da sola stava scendendo per salvarsi e cercare di organizzare una missione di soccorso per il compagno, impossibilitato a muoversi. Avevamo anche saputo che la spedizione polacca al K2, guidata dall’amico Krzysztof Wielicki, aveva già organizzato una missione di soccorso: Denis Urubko e Adam Bielecki erano già pronti per essere prelevati dagli elicotteri e trasportati al Nanga Parbat.

Una nuova sorpresa made in Poland

Tra l’arrivo di un messaggio e l’altro, finalmente incontrammo il nostro driver Pavel. Era lo stesso uomo che nel film The White Maze accompagnava i due sciatori freerider austriaci che avevano tentato di salire e poi di scendere in invernale il Pik Pobeda l’anno precedente: un giovanotto robusto, appassionato di arti marziali e di lotta. Era arrivato a Ust-Nera alla guida del suo furgoncino Uaz 4x4 grigio, che in quella regione pareva davvero un trend: tutti sembravano possedere lo stesso modello, identico perfino negli accessori e nel colore. L’Uaz è un mezzo spartano ma decisamente il migliore per muoversi dove le strade in genere sono piste sterrate, coperte di neve per la maggior parte dell’anno, che si trasformano in pantani acquitrinosi nella bella stagione. Pavel non parlava inglese, come quasi tutti là, perciò i saluti e i convenevoli vennero filtrati e tradotti da Filippo.
L’uomo ci informò subito che quell’inverno c’era traffico al Pobeda.
«In che senso traffico?» facemmo domandare a Filippo.
Ci spiegò che nelle case dei nomadi c’era già un polacco.
«Come un polacco?» dissi incredulo.
Per qualche caso del destino, ogni volta che ho in mente di mettermi alla prova con qualche invernale finisco per avere sempre a che fare con polacchi che, non mi stanco di ripetere, sono stati i miei ispiratori.
Così mi avevano raggiunto anche nella Siberia più profonda le vicende del polacco Tomek in difficoltà e i tentativi di salvataggio organizzati dalla spedizione polacca, guidata dal polacchissimo Krzysztof Wielicki. Mai più però avrei pensato che la sorte mi avrebbe fatto condividere proprio con un polacco quello che avevo scelto come nostro campo base, perché vicino a una montagna sconosciuta in un luogo ignoto ai più.
Cercammo di saperne di più. Pavel ci disse che era la seconda volta che quell’uomo si presentava all’accampamento dei nomadi in inverno. Scattava parecchie fotografie e diceva di essere lì per delle ricerche, ma non sapeva altro.
Nel pieno del nostro stupore per quella presenza inaspettata, il cellulare del nostro driver suonò: dall’altra parte c’era proprio lui con delle richieste da fargli. Pavel, infatti, faceva la spola tra Sasyr, il paesino di settecento anime dove abitava, e le baracche dei nomadi. Andava avanti e indietro con la motoslitta, e portava all’uomo tutto ciò di cui necessitava.
Dopo essersi fatto dire che cosa gli serviva, Pavel decise di passarmelo al telefono – il polacco parlava bene inglese e russo e non aveva bisogno di traduttori. Gli dissi chi ero, mi conosceva, e gli comunicai che eravamo in partenza da Ust-Nera, per tentare il Pik Pobeda in inverno. Lui mi fece i suoi sinceri auguri e accennò al fatto di trovarsi lì per realizzare una sua esplorazione in solitaria alla montagna. Visto che era solo, a quel punto, se ci faceva piacere, avrebbe rimandato di qualche giorno la sua partenza e ci avrebbe aspettato al campo base.
Maciej Besta, così si chiamava, non doveva essere un tipo tutto normale – del resto in molti dovevano pensare lo stesso di noi – per aver raggiunto la casetta dei nomadi, sperduta in mezzo al nulla, allo scopo di girare in solitaria e di raccogliere fotografie e non si capiva bene che dati. Quanto meno doveva essere un tipo insolito.
Avendo avuto problemi con le carte di credito e il bancomat per prelevare, decidemmo di connetterci nuovamente a internet attraverso il cellulare di Filippo prima di lasciare Ust-Nera, in modo da anticipare a Pavel parte delle spese tramite un pagamento in on banking. Dovemmo fare più tentativi, perché la connessione era pessima, ma alla fine ci riuscimmo.
Concludemmo quella giornata, con un giro poco fuori, su una piccola collinetta, per avere una visione dall’alto del paese e scattare qualche fotografia. Ust-Nera era avvolto da un mantello di nebbia ghiacciata. La temperatura, infatti, durante il nostro soggiorno si era mantenuta sempre intorno ai 50 gradi sotto zero, come mi aveva confermato il termometro portato dall’Italia, e fatto riparare a Jakutsk, il cui sensore avevamo posizionato all’esterno della finestra dell’appartamento in cui alloggiavamo.
In quei giorni, proprio per prendere sempre maggiore confidenza con il clima rigido, ci esponemmo al freddo ogni volta che ci fu possibile. Matteo Zanga ne approfittò anche per testare le apparecchiature. A parte i problemi riscontrati con il drone, tutto funzionava a pieno regime.

Destinazione Sasyr

Il giorno seguente, il 28 gennaio, partimmo alla volta di Sasyr, non appena caricato il famoso Uaz di Pavel che assieme al nostro equipaggiamento era nell’hangar riscaldato. Cercammo di sfruttare ogni centimetro e disporre al meglio i bagagli facendo attenzione a lasciare abbastanza spazio per chi si sarebbe seduto dietro. Avevamo stabilito di riservare a Matteo il posto davanti, posizione senza dubbio più favorevole sia per scattare foto fuori dall’abitacolo, sia per filmare noi all’interno durante il lungo viaggio – in linea d’aria erano 270 chilometri, ma la distanza reale era maggiore, e al chilometraggio si aggiungevano gli eventuali imprevisti legati alla natura dell’itinerario, piste di ghiaccio senza assistenza stradale, che non consentivano velocità elevate. Degli oltre 300 chilometri che percorremmo in un giorno intero di viaggio, a una velocità bassissima che in alcuni punti arrivava al massimo a 20-25 chilometri orari, i primi 150 furono lungo la Strada delle ossa. Dopodiché prendemmo una deviazione, procedendo lungo uno zimnik, che ci avrebbe condotti fino al villaggio di Sasyr.
Lasciammo in fretta dietro di noi la nebbiolina che avvolgeva il centro abitato e che si dissolse poche centinaia di metri fuori dalle ultime case. Oltre i nostri finestrini iniziarono a scorrere boschi, boschi e ancora boschi. Abetaie infinite ai lati di una strada che a malapena si intuiva, una lingua di neve battuta a differenza di quella vergine, soffice e immacolata, che ricopriva ogni cosa ai bordi della pista.
Le foreste cristallizzate, la luce tenue dell’inverno che rendeva i colori morbidi, fatta eccezione dell’azzurro del cielo e del candore della neve, davano al paesaggio attorno a noi un che di incantato, da fiaba, in grado di infondere una sensazione di estrema quiete.
In tutto il viaggio incrociammo soltanto due camion e avvistammo una macchina abbandonata, dalla quale partivano delle tracce di piedi che ci accompagnarono lungo il tragitto per una trentina di chilometri fino a una baracca: evidentemente il proprietario dell’auto era rimasto in panne e si era recato fin là camminando. Ci sono giornate, infatti, in cui nessuno percorre queste strade, perciò se non si vuole morire di freddo, uscire non è una buona idea, tanto meno sperare solo nel passaggio di qualcuno a cui chiedere aiuto se hai un problema. Pavel ci raccontò che pochissimi giorni prima due ragazzi, partiti da Ust-Nera, erano rimasti bloccati per un problema al motore. Al contrario del tizio delle orme, avevano preferito aspettare all’interno dell’abitacolo che qualcuno li soccorresse: li avevano ritrovati l’indomani, morti assiderati, a bordo dell’automobile. Pavel, insomma, ci fece capire che l’avventura del Pobeda stava anche in quegli spostamenti, dove di ovvio non c’era nulla: perché si trasformassero in tragedia bastava un’avaria, rimanere senza carburante nel luogo sbagliato, essere sorpresi da una bufera e perdere il tracciato della pista,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Siberia - 71°
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA
  7. PARTE QUARTA
  8. PARTE QUINTA
  9. PARTE SESTA
  10. PARTE SETTIMA
  11. PARTE OTTAVA
  12. Inserto fotografico
  13. Copyright