Julie faceva il punto della giornata con la squadra. Seduti attorno al tavolo di plastica davanti al loro prefabbricato ricoperto di disegni di bambini, i volontari ascoltavano attentamente le informazioni sulle ultime trovate amministrative per far rimanere la Giungla un campo provvisorio e non una città fuori controllo.
«La domanda di allaccio all’acqua calda nelle docce è stata di nuovo respinta dalla prefettura. Siamo nel cuore dell’estate, la situazione è ancora gestibile, ma quando arriverà l’inverno si ammaleranno tutti, e siccome siamo quasi in uno spazio chiuso basterà che uno di loro si buschi un raffreddore perché l’indomani starnutisca tutta la Giungla.»
«Se aggiungiamo i casi di malaria, di scabbia, di tigna, più le altre porcherie rifilate dai topi e dai cani randagi, qui è un vero laboratorio per studenti di medicina» scherzò uno dei volontari di Care for Calais.
«E le cose non miglioreranno» assicurò un altro. «La ditta di pulizie si rifiuta di venire a svuotare i bagni chimici. Dicono che è disumano. Con ottanta cessi, ossia uno per centoventicinque persone in media, bisognerebbe passare due volte al giorno anziché due volte alla settimana. Nel frattempo, i migranti hanno trasformato in cesso una parte della foresta. Quella accanto ai poliziotti, ovviamente. È una soluzione temporanea.»
«Purtroppo non è il problema più urgente» aggiunse Julie. «La prefettura ha fatto una nuova domanda di distruzione di tutti i negozi della Giungla per gravi infrazioni relative all’igiene alimentare. Non sia mai che con l’acqua calda e i negozi il campo diventi un luogo minimamente vivibile!»
«Già» continuò lo stesso volontario, «alla prefettura sta bene che crepino qui, ma non che si becchino una gastrite. È ridicolo.»
«Non è ridicolo, è un caso disperato. Nessuno vuole capire che indipendentemente dallo sfacelo della Giungla qui ci saranno sempre nuovi arrivi.»
Julie stava per concludere la riunione quando scorse Adam rispettosamente in attesa all’ingresso del loro accampamento. Diede alla squadra le ultime istruzioni sulle pratiche in corso e chiuse il suo classificatore. In disparte, si aggiustò discretamente i capelli e raggiunse il siriano con il sorriso sulle labbra. Adam porse la mano mentre lei si avvicinava per dargli un bacio sulla guancia, e l’equivoco li bloccò a metà strada, un po’ a disagio.
La sera già calava e qua e là si accendevano i primi falò alimentati con grossi rami e ceppi. Tagliare legna e farla bruciare era una delle attività principali.
«Domani devo incontrare qualcuno in città» annunciò Adam.
«Bene, hai trovato un’occupazione fuori dal campo?»
«Qualcosa del genere.»
«Vedo che segui i miei consigli. Rimanere impegnato per non lasciare il posto alla noia. Vuoi che ti dia un passaggio?»
«Sì, se non ti disturba. Ma vorrei soprattutto non far vergognare la persona che vado a trovare. Avere abiti puliti. Somigliare a qualcosa di diverso da un migrante. Se incontrassi me stesso in queste condizioni non mi rivolgerei nemmeno la parola.»
«Mah, mi sembri molto…» cominciò Julie.
Preferì non terminare la frase e scomparve nella roulotte per rovistare tra gli ultimi indumenti offerti dal Soccorso cattolico. Tornò con una camicia bianca, un paio di jeans e scarpe da ginnastica blu.
«Non sono sicura della misura, ma non ho niente di meglio.»
Adam la ringraziò e si mise d’accordo con lei sul luogo dell’appuntamento per il giorno dopo, davanti all’ingresso del campo. Julie accettò scrutando da sopra la spalla con aria complice.
«E anche il piccolo farà parte della passeggiata?»
Adam si girò e fissò per alcuni secondi Kilani, seduto per terra a gambe incrociate, intento a tracciare con un dito forme e segni nella sabbia. Anzitutto una freccia, poi una specie di cerchio o uno zero, prima di cancellare tutto con il palmo della mano.
«Sì, non lo lascio da solo» confermò.
Adam passò una parte della notte al centro di ricarica dei cellulari, vicino all’accampamento delle donne. Aveva aspettato tre ore prima che si liberasse una presa e altre due ore per avere la batteria al massimo. Kilani aveva resistito per un po’ di tempo, poi si era addormentato, schiena contro schiena con Adam. Più tardi il siriano lo aveva preso fra le braccia e deposto nella sua tenda.
* * *
Al mattino, sistemato comodamente sul sedile posteriore, Kilani rimase per tutto il tragitto con il naso incollato al finestrino. Adam capì che probabilmente aveva lasciato la Giungla solo per andare all’ospedale. Quando il vecchio catorcio di Julie passò davanti all’imponente torrione di Calais, Kilani storse il collo per vederne la sommità. Superarono una rotonda nei cui pressi si era insediato un chiosco di patatine fritte i cui effluvi raggiunsero l’abitacolo attraverso uno dei finestrini aperti. La bocca di Kilani si riempì di saliva. Per lui era un giorno incredibile.
Su richiesta di Adam, Julie si fermò davanti al commissariato di mattoni rossi.
«Non mi aspettavo questo tipo di attività. Sei sicuro che sia l’indirizzo giusto?» si stupì la donna.
Adam non rispose e a sua volta scrutò l’edificio di tre piani che si era immaginato più presentabile, per essere un commissariato francese.
«Puoi lasciarci qui, Julie, ritorneremo a piedi.»
«La Giungla è a più di cinque chilometri, lo sai?»
«Ne ho fatti seimila per arrivare qui» rise Adam posando la mano su quella della volontaria.
Turbata, Julie arrossì lievemente e aspettò che scendessero dalla macchina per accendere una sigaretta e ritornare al campo profughi.
Adam mandò un messaggio e aspettò, preoccupato, la risposta di Miller. La presenza di un migrante in attesa davanti al commissariato avrebbe potuto contrariarlo terribilmente. O forse Adam lo avrebbe messo a disagio di fronte ai colleghi, o forse ancora Bastien non avrebbe neppure risposto. L’arrivo del tenente, con la mano tesa e un sorriso sincero, mise fine ai suoi timori.
«Adam, che piacere! Cosa vieni a fare in città?»
«Vederti, ecco cosa vengo a fare. Preferisci che ci allontaniamo un po’ dal tuo ufficio?»
«E perché? Dai, entra. C’è una sala d’attesa con alcune sedie, là staremo meglio. Di’ al piccolo di seguirci.»
Precisazione inutile, dal momento che Kilani non si sarebbe allontanato di un centimetro dal suo protettore. Una volta nell’atrio, la centralinista del commissariato, una donna sulla cinquantina dalla pinguedine materna, li guardò con aria distratta prima di scorgere il musetto di Kilani, che dava l’impressione di scoprire un nuovo pianeta. Si piazzò davanti al distributore di bibite e dolci dell’ingresso, alto il doppio di lui. Di fronte alle luci e ai colori aggressivi delle confezioni di caramelle appoggiò le mani sul vetro e guardò uno dopo l’altro i chewing-gum, i biscotti e le barrette di cioccolato senza riuscire a capire di cosa avesse più voglia. Era così vicino a quelle leccornie che il suo alito faceva piccoli cerchi di vapore sul vetro. La centralinista si sciolse all’istante.
«Ma chi è questo angioletto nero? È suo, tenente?»
«È un amico, Clarisse» rispose Bastien sorridendo. «Vuole dargli un’occhiata mentre discuto?»
Adam, sapendo che Kilani era titubante di fronte agli estranei, gli si accoccolò accanto.
«Vuoi restare qui con la signora?»
Il ragazzino guardò la signora in questione, i dolci, poi di nuovo la signora, e annuì con un grande sorriso. Adam capì che nella vita del bambino i bianchi non erano percepiti come minacce.
«Bene, che cosa vorresti, ometto? Mostramelo con il dito» gli disse Clarisse.
Adam si accomodò su una sedia della sala d’attesa del commissariato, di fronte al tenente Miller. Gli porse il suo cellulare, il cui schermo mostrava già il cadavere del libico con le due ferite.
«Ti avevo detto che era un omicidio.»
«Visto così, è difficile negarlo» confermò Bastien. «E sembra anche un lavoro da professionista. Due colpi, entrambi letali. Non ha avuto via di scampo.»
«È quello che riserva la mafia afghana a chi si mette sulla sua strada.»
«Nonostante i morsi dei cani avvenuti post mortem, immagino che anche il medico legale avrebbe concluso che si tratta di un omicidio. Ma non cambia nulla. Ti ho già detto che non indaghiamo nella Giungla.»
«Se non ti dà fastidio che nel tuo Paese ci sia un posto dove si può uccidere senza nessuna conseguenza, forse le altre foto t’interesseranno un po’ di più. Scorri le prossime sei.»
L’indice di Bastien scivolò sullo schermo del telefono.
«Mi dici cosa sto guardando?»
«Un No Border mi ha chiesto di frequentare la moschea salafita della Giungla in cerca di un imam integralista che inciterebbe i migranti a non andare in Inghilterra ma a rimanere sul vostro territorio. Dovrebbe essere uno di questi sei uomini.»
Bastien tornò all’inizio della galleria e osservò le fotografie con maggiore attenzione e un’aria sempre più dubbiosa che ad Adam non sfuggì.
«Lo vedi anche tu?» gli chiese il siriano.
«Sì. Vedo che non quadra con l’idea che mi faccio di un integralista.»
«Esatto. Dunque, qui abbiamo un ragazzo che non ha niente del poliziotto e che mi dà informazioni su certi musulmani che frequenterebbero una moschea salafita, sbarbati di fresco, bevitori di alcol e senza abiti religiosi.»
«Sembra quasi che facciano il possibile per non somigliare a quello che sono.»
«Che ne deduci?»
«Non sono un agente dei servizi segreti e questa è una storia un po’ grossa per me. Anche per te, del resto. Mi chiedo però perché t’interessi tanto alla cosa.»
«È irritante» sbuffò Adam. «Non sei il primo a cui devo dare spiegazioni. Ho trascorso sedici anni in una squadra di lotta contro la criminalità, una squadra anticrimine, come si dice in Francia. E mi chiedi perché indago su un morto?»
Bastien non seppe cosa obiettare a quell’argomento.
«Poi ho trascorso gli ultimi quattro anni a correre rischi, combattendo contro un presidente assassino e terroristi religiosi, e ora tu mi chiedi perché mi preoccupo vedendo uomini del genere che arrivano nella Giungla dove li aspettano i membri di una moschea salafita? Credi che per me un attentato fuori dalla Siria sia meno ripugnante? O che un omicidio fuori dalla mia città sia meno drammatico? Faccio quello che è giusto e tu faresti lo stesso, no?»
«Rischio di deluderti, ma non ne ho idea.»
«Allora vuol dire che ancora non ti conosci. Fatto sta che dovresti contattare i tuo...