Il mondo è giovane ancora
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Il mondo è giovane ancora

  1. 304 pagine
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Il mondo è giovane ancora

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«In quest'epoca di disorientamento, abbiamo due certezze inconfutabili. La prima è che il mondo in cui oggi viviamo non è il migliore dei mondi possibili, ma è di sicuro il migliore dei mondi esistiti fino a oggi. La seconda è che l'opera creatrice dell'uomo è solo all'inizio del suo cammino e, per la prima volta nella storia dell'umanità, sta a noi proseguirla o interromperla per sempre.» È un viaggio quello che Domenico De Masi intraprende in queste pagine. Un percorso segnato da dieci svolte decisive, dieci diadi terminologiche e concettuali che puntano a individuare una meta e tracciare una rotta, capaci di trasformare la nostra timorosa navigazione a vista in progetto consapevole verso una ragionevole felicità. Punto di partenza è la certificazione sociologica del senso di smarrimento che caratterizza la nostra società, la prima in assoluto nata senza un preventivo modello di riferimento, sorta quasi per germinazione spontanea da quella che l'ha preceduta. Temi centrali per tutti quali la Longevità, il Lavoro, l'Impegno; concetti di natura sociologica come quelli di Classe e Genere, o più propri della psicologia come Paura e Felicità: un vocabolario indispensabile per orientarsi anche politicamente nel mondo che è già qui e che verrà, quel «mondo giovane ancora», per dirla con Giambattista Vico, che mai come oggi necessita di essere compreso, tradotto, e necessariamente riscritto. A oltre vent'anni da L'ozio creativo, De Masi, come allora in conversazione con Maria Serena Palieri, offre un'accurata e convincente istantanea del tempo che stiamo vivendo, un'inquadratura realistica e carica di speranza che descrive chi siamo e come saremo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858695548

Paura e coraggio

C’è una parola che ha fatto il suo ingresso nel nostro vocabolario durante le ultime stagioni e che ci accompagnerà nel prossimo futuro: è «percezione». È prassi ormai che perfino nelle previsioni meteorologiche, oltre ai dati reali, si parli di temperatura «percepita». Nelle ultime tornate elettorali, però, per la prima volta la «percezione» ha assunto anche il peso di un fattore imprescindibile per la politica: all’«insicurezza percepita» dai cittadini è stato dato lo stesso status – ruolo e dignità – delle cifre dell’Istat sulla disoccupazione. Alla «percezione» – a questa sfera fantasmatica del vivere – è legato uno dei grandi sentimenti sociali: la paura. Anzi, con tanto di maiuscola: la Paura. «La paura è ormai un punto fermo del discorso pubblico italiano, pilastro della nuova politica» ha osservato Ezio Mauro. Così è oggi ed è difficile che così non sia più, del tutto, nel nostro futuro prossimo…
Proviamo ad analizzarla: dove nasce la Paura? E sotto quali forme si presenta?
La paura è effetto e causa del disorientamento. Come è ovvio, oltre alla paura che deriva dal disorientamento, altre ve ne sono che derivano da fattori più concreti. Se hai il cancro non sei disorientato: sei terribilmente impaurito da una malattia micidiale che troppo spesso ha esiti letali.
Ma noi qui parliamo, appunto, di un sentimento di paura nei confronti del mondo: come «percezione» del nostro habitat.
Oggi pensiamo che la novità consista nella «percezione». Invece è il contrario: tra realtà reale e realtà percepita, nuova e recente è la prima, perché nel passato, mancando dati statistici e sistemi informativi tendenti alla precisione, la realtà di cui si parlava era tutta percepita, tutta immaginata. Per millenni il pressappoco ha prevalso sulla precisione e le convinzioni si sono formate non in base a dati certi e generali ma in base alla limitatissima esperienza diretta, immediata, amplificata dal «sentito dire», dagli stereotipi, dall’umana fragilità.
Quando è avvenuta la svolta?
Il discorso si farebbe lungo, cerco di sintetizzarlo. La società industriale, che iniziò a concretizzarsi verso la fine del Settecento, fu preparata dall’Illuminismo e, prima ancora, da quella grande rivoluzione mentale dovuta a Bacone in Inghilterra, Cartesio in Francia e Galileo in Italia. Più tardi lo storico della scienza e filosofo francese di origine russa Alexandre Koyré, morto nel 1964, avrebbe identificato in quella rivoluzione mentale il nostro passaggio dal mondo del pressappoco all’universo della precisione.
Come è noto, qualcosa di inspiegato impedì al mondo classico greco e romano di compiere progressi scientifici e tecnici pari a quelli che esso seppe realizzare nella letteratura, nella filosofia, nell’arte. Secondo Platone e Aristotele, tutto ciò che c’era da scoprire per migliorare la condizione pratica e la vita materiale degli uomini liberi era stato già scoperto. Per i lavori sgradevoli, noiosi e degradanti non vi era bisogno di macchine; bastavano gli schiavi. Tutti gli altri avevano un unico dovere: dedicarsi al progresso dello spirito e alla felicità della polis.
Questo punto colpisce. Come mai un popolo così colto e raffinato dette così poca importanza al progresso tecnologico?
Non lo sappiamo di preciso. Eppure varrebbe la pena di scoprirlo, dal momento che la questione, rovesciata, riguarda anche noi uomini del Duemila. Come mai – dovremmo chiederci oggi – noi dedichiamo tanta attenzione al progresso materiale e all’universo della precisione, trascurando così smaccatamente tutto ciò che riguarda il progresso dello spirito e il mondo del pressappoco? Come e perché l’attuale sviluppo tecnico non si accompagna a un parallelo sviluppo della convivenza civile e dell’umana felicità? Come e perché milioni di lavoratori, finalmente liberati dall’abbrutimento fisico, dotati di macchine portentose, incaricati di compiti intellettuali spesso persino piacevoli e ben remunerati, tuttavia vivono la propria condizione come stressante e insopportabile? Come e perché la conquista della precisione si è trasformata in assillo della puntualità, della produttività a tutti i costi, della competitività, delle scadenze, dei controlli, delle valutazioni, dei confronti? Come e perché il progresso materiale non si è tradotto in una qualità della vita molto migliore di quella attuale?
Comunque, per millenni l’umanità è vissuta all’insegna del pressappoco, del misterioso, del magico, inerme di fronte alle pestilenze, ai fulmini, alle invasioni, fatalisticamente considerate come ineluttabili. La sfera emotiva e la fantasia ci hanno aiutato a sopravvivere in tanta miseria, hanno colmato alla meno peggio i vuoti lasciati dalla sfera razionale e hanno spiegato gli accadimenti naturali e storici con congetture di natura fantasiosa, teologica, mitica, poetica. Quasi sempre quell’entità misteriosa che era il fato provocava più paura che speranza.
La paura che, ad esempio, accompagnò il passaggio di secolo nell’anno Mille?
Il richiamo a quell’evento e il paragone con esso ci torna particolarmente utile per storicizzare e ridimensionare le paure dei giorni nostri. Tutti gli attuali viventi di una certa età, io compreso, nella notte di Capodanno tra il 2000 e il 2001 hanno avuto la ventura di passare non solo da un secolo all’altro, come ad esempio era capitato tra il Settecento e l’Ottocento a Napoleone o a Beethoven, ma anche da un millennio all’altro, come capitò a Cesare Augusto, che governava Roma quando nacque Gesù Cristo, o a Ottone III che nell’anno Mille si trovava a reggere il Sacro romano impero.
Quando stava per avvicinarsi la fine del XX secolo, per vezzo, per gioco o per superstiziosa scaramanzia molti esprimevano qualche timore circa ipotetici disastri che avrebbero potuto segnare la notte del 31 dicembre 1999, ma in realtà nulla avvenne di inquietante e non vi furono comportamenti stralunati o disperati come quelli che generalmente vengono attribuiti ai nostri antenati dell’anno Mille. Anzi, le televisioni di tutto il mondo mostrarono piazze debordanti di folle scatenate, che trovavano in una scadenza così eccezionale la scusa per abbandonarsi, ebbre di champagne e di sensuale goduria, a festeggiamenti altrettanto eccezionali. Ciò non toglie che, fra qualche secolo, i nostri posteri potranno inventare e raccontare con tanto di prove fantasiose, ma spacciate per vere, che noi, terrorizzati dalle premonizioni, ci abbandonammo a mistici rapimenti e masochistiche penitenze.
Proprio così accadde con l’anno Mille che, a conti fatti, fu un anno come tutti gli altri. Ma otto secoli più tardi, nel periodo romantico, inventarono che i nostri lontani antenati avevano temuto a tal punto la fine del mondo da flagellarsi a sangue per salvarsi l’anima. Dunque l’idea che l’anno Mille fu accolto con terrore è una fake news creata a posteriori. Uno dei massimi storici del Medioevo, Georges Duby, si è incaricato di smascherare questa diceria e ha scoperto che solo qualche sparuto prete parigino farneticava sulla fine del mondo. Il monaco dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire che riferì questa notizia lapidariamente aggiunse: «Questi preti sono pazzi».
La paura dell’anno Mille, nella misura in cui storicamente si verificò, amplificava la difficoltà effettiva della vita in quell’epoca?
È probabile: ogni paura ha un appiglio sia pure debole e lontano con la realtà. Mentre noi oggi viviamo nella paura di essere annientati da un conflitto nucleare, che però dipende dall’uomo, alla fine del primo millennio gli esseri umani vivevano nel terrore di essere annientati dalla natura, che dall’uomo non dipende. Inondazioni, fulmini, epidemie, carestie causate dalla grandine, dalla pioggia e dalle cavallette sono tutte calamità che allora, molto più di oggi, sfuggivano all’intervento umano.
Già quattro secoli prima del Mille, Gregorio Magno descriveva così la situazione che era sotto i suoi occhi: «Ecco città spopolate, castelli distrutti, chiese incendiate, monasteri di uomini e di donne devastati, campagne desolate e ormai prive di chi le coltivi, località prima abitate dall’uomo ora ridotte a deserti senza padrone, a rifugio di fiere. Che cosa avvenga nelle altre parti del mondo, io non lo so. Ma qui dove noi viviamo, il mondo, più che annunciarci la sua fine, ce la fa già vedere». Nessuna persona perbene avrebbe mai osato uscire da casa senza scorta. Una donna sola per strada sarebbe stata considerata un’istigazione allo stupro, che peraltro era assai frequente. Un marito poteva ammazzare di botte sua moglie restando impunito; un signore poteva infilzare un suo servo senza subirne alcuna conseguenza legale.
Nel Medioevo la stragrande maggioranza della popolazione abitava in campagne assolutamente prive di servizi, devastate dalla siccità e dai predoni, ma anche nelle città la sopravvivenza era sempre minacciata dalle epidemie, dagli assedi, dall’igiene e dalle sommosse. Lo storico Sergio Ricossa scrive: «A città sudicie, con strade spesso non lastricate e accompagnate dai fossati di scolo, corrispondevano case fatiscenti e sovraffollate». E Georges Duby rincalza: «La gente viveva allora in uno stato di privazione materiale paragonabile a quello condiviso oggi dalle più povere tra le popolazioni dell’Africa nera». Il risvolto sanitario di tutto questo è che durante il Medioevo, ma anche nei secoli successivi fino ai giorni nostri, imperversavano le epidemie: basti pensare all’inaudita virulenza della peste nera che, nell’estate del 1348, sterminò un terzo di tutti gli abitanti d’Europa. È come se oggi, in soli quattro mesi, morissero in Italia 20 milioni di persone o in Europa 200 milioni. Ma anche più recentemente, tra il 1918 e il 1919, due successive pandemie, dette «febbre spagnola», infettarono nel mondo più di 500 milioni di persone e ne uccisero tra i 50 e i 100 milioni.
Dunque, nel Medioevo la paura aveva una base ben tangibile; la sua dipendenza dalla realtà era immediata. Ma la mente umana non si accontentava della dose di paura legittimata dagli accadimenti oggettivi: a essa aggiungeva la paura dell’inferno e la convinzione che i flagelli terreni fossero punizione divina per i peccati commessi dall’uomo. Insomma, gli esseri umani sentivano e tuttora sentono il bisogno di mistero, di credere nell’ignoto per ricavarne motivi e presentimenti di una paura più incontrollabile di quella provocata da cause concrete. Hanno bisogno di paura e ne sono tanto più soggetti quanto più sono ignoranti.
Nell’anno Mille la popolazione del pianeta era costituita prevalentemente da analfabeti. E, come ha detto il premio Nobel Amartya Sen, «l’analfabetismo e la mancanza di nozioni basilari di calcolo sono causa diretta di una situazione di vulnerabilità. L’incapacità di leggere e scrivere, di contare o di comunicare costituisce di per se stessa una privazione gravissima. Se un individuo si trova in questo stato a causa dell’analfabetismo e della mancanza di nozioni basilari di calcolo non è considerato da noi solo una persona “a rischio”, a cui potrebbe succedere qualcosa di terribile, ma, istintivamente, una persona a cui qualcosa di terribile è già successo».
È in base a tutte queste condizioni oggettive che i romantici si ritennero autorizzati ad attribuire ai nostri antenati dell’anno Mille comportamenti isterici, quelli sì del tutto inventati.
Che ruolo giocarono, all’epoca, i pregiudizi religiosi, politici e razziali?
Decisivo: all’inizio del Duecento gli ebrei erano trattati come lebbrosi e costretti a portare un distintivo, come nell’Europa nazista. Persino san Luigi, a chi gli chiedeva: «Con i musulmani, con gli ebrei, si potrebbe forse discutere?», rispondeva: «Con quella gente lì funziona soltanto un argomento: la spada. Bisogna infilzargliela nella pancia!».
Come e quando si è avvertito il bisogno di passare all’uso della ragione per analizzare il presente e prevedere il futuro?
Come ho accennato, furono l’Illuminismo e l’industrializzazione a collocare la ragione su un trono dal quale essa ha regnato prima con ottimismo e saggezza, poi via via con pessimismo e persino con tirannia: la tirannia della precisione, del «tutto programmato», del «tutto sotto controllo».
Ma andiamo con ordine, la tua domanda lo richiede. Come ho già ricordato, i Greci furono bloccati da un rifiuto mentale che impedì loro di conquistare i vantaggi della precisione attraverso la tecnologia. Secondo Koyré, gli ingegneri greci e romani, anche quelli sublimi come Ictino, Fidia o Vitruvio, non capirono l’importanza di potenziare e nobilitare l’esperienza e la destrezza (téchne) con la scienza (epistème), per tradurla in tecnologia. Perciò la loro azione resterà prescientifica.
Per gli ateniesi l’ostacolo maggiore al progresso tecnico fu determinato dal fatto che essi avevano un diverso approccio ai fenomeni fisici, a seconda che fossero celesti o terrestri. Mentre le sfere e il moto degli astri, assolutamente regolari, potevano essere descritti e calcolati geometricamente sulla carta, il mondo sublunare, questo mondo capriccioso e imperfetto in cui quotidianamente ci tocca vivere, secondo i greci sfuggiva a ogni legge e a ogni possibilità di misurazione precisa. Era possibile un’astronomia matematica ma non una fisica matematica. Avventurarsi nel mondo della precisione significava invadere lo spazio privilegiato degli dei, ingaggiare con loro un agone blasfemo, punibile così come lo furono, in modo esemplare, Icaro o Prometeo. Rinunziare al metro e all’orologio, alla misurazione rigorosa del movimento, del tempo, dello spazio, cioè delle dimensioni su cui si fonda la fisica moderna, significò rinunziare tout court al progresso tecnologico.
A chi è dovuto il salto dal pressappoco, dalla congettura, dalla superstizione alla precisione, alla razionalità, alla scienza?
In un mio libro precedente, Tag. Le parole del tempo, dedico un intero capitolo al concetto di precisione: prima di Galileo il fabbricante di occhiali non usava nozioni di fisica, perciò non era un ottico ma un artigiano; l’applicatore di sanguisughe non usava nozioni mediche, perciò non era un chirurgo ma un cerusico; l’orafo non usava né bilancia né termometro, perciò non era un chimico ma un alchimista. Galileo, invece, usa la fisica ottica per calcolare a tavolino lo spessore delle lenti e la distanza che deve intercorrere tra di esse; per lui il cannocchiale, prima di essere un prolungamento dei sensi, è una costruzione dell’intelletto.
La disponibilità di strumenti precisi ha consentito agli scienziati di raggiungere ulteriori gradi di perfezione, trasformando la tecnica in tecnologia, che non è altro che scienza incorporata nella tecnica. L’insieme di questi strumenti, e la scienza a essi sottesa, ha portato per la prima volta sulla Terra la precisione che gli antichi attribuivano soltanto agli astri nel cielo. Inoltre ha contribuito a trasformare profondamente il clima complessivo della società, imprimendo accelerazione e fiducia alla sua evoluzione. Su queste basi è fondato quel progresso che, di lì a poco, dispiegherà tutta la potenza della società industriale, fatta – scrive ancora uno storico della scienza come Koyré – di «strumenti che hanno la dimensione di officine e di officine che hanno la precisione di strumenti».
Come si arriva alla vittoria, almeno teorica, della realtà vera e reale sulla realtà presunta e percepita?
È stato l’Illuminismo a dare una seria batosta al mondo del pressappoco, tutto affidato alle spiegazioni fantasiose e alle informazioni approssimative. L’epoca dei Lumi ha rappresentato la grande rivolta del matematicamente certo sul vagamente percepito. Lo strumento principale di questa operazione rivoluzionaria fu l’Encyclopédie alla quale Denis Diderot, coadiu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mondo è giovane ancora
  4. Introduzione. di Maria Serena Palieri
  5. Disorientamento e progetto
  6. Longevità e vecchiaia
  7. Androginia e generi
  8. Digitali e analogici
  9. Lavoro, ozio
  10. Paura e coraggio
  11. Impegno e egoismo
  12. Classe e individui
  13. Intelligenza e sentimenti
  14. Felicità e leggerezza
  15. Avvertenza
  16. Copyright