Neuroscettici
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Neuroscettici

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Neuroscettici

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Siamo sicuri che la crisi italiana, il declino della classe media, gli stipendi che non bastano ad arrivare a fine mese, l'aumento del numero dei poveri siano tutti problemi riconducibili alla moneta unica e ai vincoli che ci pone Bruxelles? Per capire il fenomeno del "neuroscetticismo" occorre addentrarsi nel fantasioso mondo della propaganda no euro, andare a smontare uno per uno gli argomenti dei "profeti" sovranisti che descrivono il paradiso di un ritorno alla lira e di un'Italia finalmente fuori dall'Unione. Perché la "traversata" sarebbe un disastro e non è vero che l'unica soluzione rimasta per essere competitivi è la deflazione salariale. Non è vero che la riconquistata sovranità ci renderebbe totalmente liberi e ci permetterebbe di risolvere tutti i problemi stampando moneta. Non è sempre vero che chi ha una valuta nazionale sta meglio di noi (basta guardare a lavoratori e classi medie negli USA e in Gran Bretagna, per non parlare del Venezuela). E non è vero nemmeno, come sostengono alcuni politici e sedicenti economisti, che possiamo fare a meno degli investitori stranieri e pensare all'autarchia in un mondo finanziario irrimediabilmente globalizzato. Leonardo Becchetti ci spiega come districarci tra bufale più o meno "primitive"e leggende infondate o inconsistenti, fornendoci una cassetta degli attrezzi efficace per difenderci dalle suggestioni sovraniste e populiste di chi, spesso solo per conquistare consenso elettorale, promette o forse minaccia la grande "fuga" dall'Unione politica e monetaria. Strumenti utili ad avanzare proposte concrete e soluzioni percorribili per i problemi dell'Italia, e infine lanciare un manifesto per un'Europa nuova, solidale, sostenibile, generativa, felice.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858696231
Argomento
Economia
1

Breve e dolorosa storia recente per capire perché l’Europa non scalda i cuori

Il terremoto della crisi finanziaria globale e Roosevelt che non arriva…

Tutto è iniziato quando, dopo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008, i nuovi Roosevelt si sono fermati sull’altra sponda dell’Atlantico, creando le premesse per la futura crisi dell’eurozona che investirà la Grecia nel 2009 e l’Italia nel 2011, garantendo argomenti e munizioni all’antieuropeismo montante dei nostri giorni. Grecia e Italia hanno le loro gravi responsabilità ovviamente (la Grecia in primis, che a fine 2009 annuncia di aver truccato le carte e confessa un rapporto deficit/PIL del 13,5 per cento, quasi dieci punti in più di quanto dichiarato al momento della nascita dell’euro), ma sarà la combinazione tra le debolezze dei due sistemi-Paese e le mancanze delle politiche macroeconomiche dell’eurozona a creare la tempesta perfetta.
Negli States, origine ed epicentro del cataclisma finanziario globale, tutto nasce dal tentativo sempre più arduo di soddisfare un imperativo del capitalismo: consumare di più, guadagnando però sempre di meno. L’onda lunga della globalizzazione ha infatti iniziato da tempo a erodere salari e stabilità dei ceti medi per via della concorrenza dell’«esercito di riserva» dei lavoratori dei Paesi poveri ed emergenti. Per reggere la competizione, da noi calano i salari e diminuiscono le tutele, intaccando il potere d’acquisto dei lavoratori e la qualità di vita. L’economia per funzionare ha però assoluto bisogno della crescita dei consumi della classe media. L’imperativo si può quindi soddisfare in un unico modo: acquistando a debito. Il settore dove il problema lentamente si accumula, per poi esplodere nel 2008, è quello dei mutui per la casa. Il sogno dei cittadini americani (lontani dai nostri standard, con una quota di oltre 70 per cento di proprietari di prima abitazione) è di avere una casa di proprietà, malgrado la forte mobilità territoriale li porti a cambiare residenza più volte nella loro storia lavorativa. Il sistema finanziario escogita un sistema all’apparenza geniale per soddisfare questo insopprimibile desiderio: anche i clienti più a rischio (quelli che dispongono di meno garanzie) possono accendere un mutuo grazie al passaggio dal modello «origina e tieni» (originate to hold) al modello «origina e distribuisci» (originate to distribute). Le banche che accendono il mutuo, infatti, a stretto giro si liberano di ogni responsabilità (lontano dagli occhi – e dal portafoglio –, lontano dal cuore) rivendendolo a intermediari finanziari, che lo impacchettano mettendo assieme mutui più e meno rischiosi. Gli intermediari costruiscono su questi pacchetti attività finanziarie derivate (derivati del credito), poi ceduti in quantità ingenti ad altre banche o altri intermediari nell’illusione che l’aggregato dei mutui su cui tali attività fondano i propri introiti sia meno rischioso delle parti che lo compongono.
Solo per avere un’idea delle grandezze interessate, pensiamo che al momento della crisi il valore dei derivati del credito, sommato a quello di altri strumenti finanziari sofisticati usati per assicurare i proprietari dei derivati (credit default swap), era pari a 24 volte il PIL mondiale. Il gioco non sembra così pericoloso a quelli che l’hanno inventato perché l’idea alla base del sistema è che nel pacchetto del derivato del credito il rischio insolvenza mutui sia diversificato, e pertanto minore. Per fare un esempio pratico, un po’ come in una salciccia dove si mettono parti di carne di qualità più o meno pregiata nella speranza che l’insieme «tenga» e l’insaccato non produca danni a chi lo ingerisce. Rischio diversificato significa, in concreto, che se qualcuno dei mutuatari fallisce gli altri continueranno a pagare perché non c’è correlazione di rischio o contagio tra i diversi mutuatari. E dunque il derivato del credito sta in piedi.
L’errore che nel 2008 scatenerà la crisi sta proprio in quel dunque. Ricordo in quegli anni che anche nell’accademia si cercava disperatamente un modello per calcolare le correlazioni di rischio tra mutui, così come lo si è individuato nel caso dei prezzi di titoli azionari. Se un mutuatario non è più in grado di pagare, qual è la probabilità che il problema investa anche un altro mutuatario? Nessuno era in grado di stabilirlo e riusciva veramente a calcolarlo, nonostante le numerose tesi di dottorato assegnate su questo spinosissimo tema.
Col senno di poi, oggi possiamo dire che il rischio tra i singoli mutuatari è risultato molto più correlato di quanto pensassero gli ideatori dei derivati del credito. Quando nel 2008 scoppia la bolla speculativa dei prezzi degli immobili, il valore delle garanzie dei proprietari dei mutui crolla in blocco. Non fallisce uno solo o pochi mutuatari, mentre gli altri continuano a pagare: falliscono tutti insieme, o quasi. Il motivo è che tutti i mutuatari avevano messo a garanzia del prestito ricevuto quella parte di casa già di loro proprietà, acquistata non a debito ma con soldi propri. Quando dunque la bolla dell’immobiliare scoppia, l’effetto sul valore delle garanzie dei mutuatari è immediato e diffuso. Il valore dei derivati del credito crolla e improvvisamente gran parte degli intermediari del credito si ritrova con enormi perdite di bilancio. Le banche si scoprono proprietarie di una gran quantità di immobili (o parti di immobili) lasciati a garanzia dai mutuatari. E li mettono in vendita in blocco. Si calcola che nel giro di un anno negli Stati Uniti vengono messe in vendita un numero di case pari a quelle della città di Roma. L’aumento eccessivo di offerta fa crollare ulteriormente il prezzo delle abitazioni, abbassando il valore delle garanzie dei mutuatari non ancora falliti, in un avvitamento verso il basso che sembra non avere fine.
Questo negli Stati Uniti. E da noi?
L’Italia all’inizio della crisi sembra quasi un’isola felice. L’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti ricorda con orgoglio che le nostre banche si dedicano prevalentemente ai prestiti a famiglie e imprese, e non all’investimento speculativo nei derivati del credito. Le perdite (con l’eccezione di Unicredit, la banca più pesantemente coinvolta) sono molto limitate. È il momento nel quale il sistema tesse le lodi delle banche locali, cooperative, e il rapporto dei saggi commissionato dall’Unione europea (rapporto Liikanen) elogia la «biodiversità bancaria». Le banche locali di piccola taglia sembrano allora migliori di quelle «troppo grandi per fallire», che sono sia istituti di credito sia banche d’affari. Il ministro adotta inoltre uno stratagemma per risolvere i casi più critici: se prima della crisi le attività finanziarie (inclusi i derivati del credito) erano valutate a prezzo corrente di mercato (un prezzo stracciato dopo lo scoppio della crisi) ora si passa al valore di libro (ovvero il prezzo di acquisto). Con questo tocco di bacchetta magica un derivato del credito comprato a 100 e che oggi vale 5 torna a valere 100. Proprio come oggi il governo applica lo stesso principio (valutazione al prezzo di acquisto e non al prezzo di mercato attuale) per cercare di ridurre l’effetto della crescita dello spread sui bilanci delle banche (piene di titoli di Stato il cui valore scende proporzionalmente alla crescita dello spread). Questo stratagemma dà alle banche il tempo di leccarsi le ferite con accantonamenti progressivi delle perdite spalmati nel corso degli anni.
Il grande errore che si commette in Europa in questa fase, come abbiamo già detto, sta nell’aver fermato Roosevelt sull’altra sponda dell’Atlantico. Gli Stati Uniti hanno una tradizione di animal spirits esuberanti, propensione al rischio e spericolatezza (un approccio che può appunto generare delle crisi), ma anche una rapidità di reazione che consente agli USA di impostare subito correttamente la ricetta per risolvere la crisi. La moneta distrutta con i fallimenti di banche e imprese viene immediatamente rimpiazzata con il quantitative easing, un programma di forte espansione monetaria promosso dal governatore della FED Ben Bernanke (un economista formatosi proprio sulla storia della crisi del 1929 che conosce bene la ricetta rooseveltiana e sa che la gravissima recessione degli anni Trenta era stata causata non tanto dallo shock iniziale della crisi di borsa quanto dal ritardo di risposta alla distruzione di moneta causata da quello shock). Le crisi finanziarie nascono per i motivi più vari e possono essere rovinose. Le ricette per risolverle hanno quasi sempre un punto in comune (nel 1929 come ottant’anni dopo): stampare molta moneta per sostituire quella distrutta dalla crisi ed evitare che il Paese precipiti in una spirale recessiva senza sbocco. Ma tutto questo non basta. Il segretario al Tesoro Harry Paulson, di concerto con il governatore della FED Ben Bernanke e il presidente George Bush, non si scompone e vara già nel 2008, assieme al quantitative easing, una politica fiscale espansiva che porta temporaneamente il rapporto deficit/PIL ben oltre le nostre colonne d’Ercole di Maastricht del 3 per cento e avvia un piano (TARP, Troubled Asset Relief Program) di riacquisto dei derivati del credito a prezzi stracciati con una partnership pubblico-privato. L’economia del Paese riprende così fiato in tempi rapidi ma, nonostante la prontezza della risposta, ci vorranno più di sei anni (settantacinque mesi per l’esattezza) per tornare ai livelli di occupazione precrisi.
In Europa la reazione delle politiche economiche non è così rapida, anche perché la crisi ha impatti differenti nei diversi Paesi membri. Irlanda, Regno Unito, Francia, Belgio e Olanda sono tra i più colpiti, e l’UE consente l’intervento pubblico per salvare banche e altri intermediari finanziari direttamente o tramite garanzie. Roosevelt non approda in Europa perché il quantitative easing, la politica monetaria espansiva attuata dalla Banca centrale, da noi non arriverà se non dopo sette lunghi anni. A non volerla sono in particolare i tedeschi, che si trovano nell’invidiabile condizione di piena occupazione e fondamentalmente non ne hanno bisogno. In quei sette lunghi anni che intercorrono tra lo scoppio della crisi finanziaria globale e l’arrivo del quantitative easing della BCE, le economie del Sud dell’eurozona cominciano a boccheggiare. La domanda interna, senza il sostegno di politiche fiscali e monetarie accomodanti come quelle varate oltreoceano, s’indebolisce fortemente e Paesi come l’Italia entrano in recessione. Sono sette anni di bibliche vacche magre, che ridurranno il nostro reddito pro capite di quasi il 23 per cento, peggiorando lentamente ma inesorabilmente la situazione delle banche che avevano tenuto botta alla crisi dei derivati. Le sofferenze degli istituti di credito (leggasi: prestiti alle imprese non restituiti) gradualmente aumentano mettendo in crisi i bilanci e aggravando ulteriormente la debolezza dell’economia.
È in questi anni in cui l’Italia (insieme a Grecia, Portogallo, Spagna) soffre e aspetta Godot che si alimenta e cresce il sentimento antieuropeista. La sensazione è che Bruxelles abbia abbandonato a se stessi i Paesi del Sud Europa o, ancora peggio, come accade nel caso della Grecia, si preoccupi solo di varare piani di salvataggio mirati esclusivamente a recuperare le ingenti risorse prestate dalle banche dei Paesi del Nord alle aziende locali nel momento dell’euforia e delle vacche grasse (qui occorre anticipare un concetto semplice: l’origine di ogni crisi finanziaria è sempre l’eccesso di prestito. Siamo abituati a pensare che non erogare un prestito a chi è in sofferenza sia un atto moralmente disdicevole, mentre molto spesso è immorale erogarlo quando il beneficiario non ha i requisiti per restituire i fondi ricevuti).
Sono gli anni in cui la grande maggioranza degli economisti fa di tutto per farsi ascoltare, ma con risultati molto limitati. Si parla continuamente di «battere i pugni sul tavolo» e si usano le metafore più fantasiose per descrivere la situazione. L’esempio che uso spesso per descrivere quel periodo di frizione tra gli interessi dei diversi Paesi dell’Unione è di stampo ciclistico: la Germania è un po’ come Pantani che sale sullo Stelvio con un gruppo di cicloamatori. Invece di «tirare» il gruppo con pazienza per aiutare i singoli improvvisati scalatori a raggiungere la cima, a un certo punto stacca il gruppo con il suo passo e i cicloamatori restano inchiodati a valle boccheggianti.
Le metafore sono come le teorie, sempre imperfette e falsificabili, ma sono utili per ragionare. Forse la distanza tra Germania e Paesi del Sud Europa non è proprio uguale a quella tra Pantani e un gruppo di cicloamatori, ma l’immagine rende l’idea.

I giorni dell’incubo dello spread

A tre anni dall’origine della crisi finanziaria globale (fine 2011) eccoci di fronte a un’altra crisi, quella dello spread. Sono i giorni in cui questa parola entra nelle case di tutti gli italiani. Ormai è una definizione arcinota, ma vale la pena riprenderla: lo spread è la differenza tra il tasso d’interesse su un titolo di Stato italiano e il tasso d’interesse su un titolo di Stato tedesco di eguale durata. Quella a cui tutti guardiamo è la differenza tra titolo italiano e tedesco a dieci anni, anche se potremmo in principio misurare lo spread su durate diverse. Misura dunque la differenza di rischio tra i titoli dei due Paesi, perché in finanza non esistono pasti gratis e a un rendimento più elevato corrispondono rischi maggiori.
Tornando per un attimo a oggi e aiutando a chiarire il concetto, il motivo della salita dello spread all’indomani della nascita del governo giallo-verde è dettato dal timore di una possibile uscita dall’euro dell’Italia. Se questo un giorno avvenisse i possessori di titoli pubblici italiani avrebbero il timore di vedersi restituire il proprio denaro in neolira svalutata e non più in euro. Prevedendo questo rischio, chiedono per comprare titoli pubblici italiani tassi d’interesse più elevati. Lo spread che si gonfia è un problema per molti motivi. Primo, vuol dire che lo Stato italiano deve pagare di più per finanziare il proprio debito pubblico, sottraendo risorse ad altre destinazioni (istruzione, sanità eccetera) o coprendo la differenza con maggiori tasse. Il debito pubblico italiano è un macigno che supera a oggi il 130 per cento del valore del PIL (più di 2200 miliardi di euro) e viene rinnovato all’incirca ogni sette anni. Nel 2011 eravamo (solo!) al 115 per cento. Questo vuol dire che l’aumento dello spread di 100 punti base (se corrisponde a un aumento di 100 punti base del costo del debito, ovvero a un punto percentuale di tasso d’interesse) valeva allora circa 17 miliardi in sette anni. Il problema dello spread infatti diventa aggravio per le finanze pubbliche nel momento in cui viene emesso nuovo debito e i nuovi titoli vengono acquistati a tassi d’interesse più elevati. Se l’intero ammontare del debito si rinnova completamente in sette anni, è su sette anni che dobbiamo spalmare gli effetti dello spread (ipotizzando, ovviamente, che il valore dello spread resti agli stessi livelli per tutta la durata di quell’intervallo).
Il secondo motivo, e questo riguarda l’Europa come sistema, è che la politica monetaria dell’eurozona (necessariamente unica perché una è la Banca centrale) evidentemente non agisce allo stesso modo nei diversi Paesi. Per colpa dello spread una stessa politica monetaria della BCE che in Germania genera tassi d’interesse bassi e dunque facilita l’erogazione del credito dalle banche alle imprese produce nel Sud dell’eurozona – e quindi in Italia – tassi d’interesse molto più elevati, che rendono il credito più caro.
Ma i problemi non si fermano qui. Come ricordato da molti commentatori in questi ultimi mesi, esiste una correlazione inversa tra tasso d’interesse e prezzo (valore) di un titolo. Pertanto, se lo spread sale, il valore di un BTP nel portafoglio di risparmiatori e banche si riduce. Poiché le banche italiane hanno in portafoglio quantità elevate di BTP, il valore dei loro patrimoni scende, mettendole in difficoltà. Tutti questi elementi fanno capire che lo spread elevato è una specie di «febbre» dell’economia italiana. Per un po’ e per livelli non troppo elevati (come quelli attorno a 300 di fine 2018) si può anche tollerare, ma a lungo andare l’organismo si debilita.
Lo spread, su questo punto torneremo, non è un complotto della finanza globale, come alcuni vorrebbero far credere. Le cose stanno in modo molto più semplice. Chi ci finanzia vuole un rendimento e sa di correre un rischio (ogni Paese, come è successo più volte nella storia, può finire in bancarotta, e non restituire nulla ai proprietari dei titoli). Se pensa che il rischio sia maggiore, l’investitore chiederà tassi d’interesse più alti, o comunque sarà più restio ad acquistare i titoli. Pertanto in condizioni di domanda scarsa i prezzi dei titoli scenderanno e il tasso d’interesse promesso sul mercato ai possibili compratori aumenterà. Lo spread dunque non è altro che il termometro della fiducia nei confronti della solvibilità del Paese che emette i titoli (confrontato con la pietra di paragone, la Germania, per definizione ritenuta più solida e affidabile in termini di finanza pubblica). In realtà, nei momenti di crisi finanziaria lo spread tra Italia e Germania aumenta per due motivi: sale il rischio percepito verso i titoli del debito italiano, e c’è la corsa alle attività finanziarie più sicure, per esempio i titoli di Stato tedeschi, che abbassa ulteriormente il tasso su tali titoli, spostando verso il basso la base dello spread (allargando così il divario).
Non credo che i lettori di questo libro siano così giovani da non aver vissuto e non ricordare i giorni della crisi dello spread, quando si erano superati i 500 punti. Sono stati momenti di grande ansia per il Paese, in cui tutti gli organi d’informazione monitoravano compulsivamente il dato. L’Italia aveva una grave malattia e lo spread segnava, come il mercurio nel tubicino di vetro, l’alzarsi della temperatura. E tutti noi avevamo gli occhi incollati sul termometro.
In quei giorni convulsi del 2011 l’Italia sembra sull’orlo del baratro. Si rispolverano i piani di emergenza più fantasiosi, immaginando che l’autarchia possa essere una via d’uscita. L’Italia, si dice, in fondo ha il paradosso di avere una grande ricchezza privata a fronte del pesante indebitamento pubblico. Il rapporto tra ricchezza e reddito degli italiani è superiore a 7, tra i più alti de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione in tre atti
  4. 1. Breve e dolorosa storia recente per capire perché l’Europa non scalda i cuori
  5. 2. Il fantastico mondo dei no euro
  6. 3. Comunicare l’Europa, in Europa: la macchina della propaganda
  7. 4. Il terreno dello scontro: deficit e debito
  8. 5. Manifesto per un’Europa generativa e felice
  9. Ringraziamenti
  10. Note
  11. Copyright