Sbagliare da professionisti
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Sbagliare da professionisti

  1. 224 pagine
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Perché si sbaglia? Come si sbaglia? Si sbaglia in modi diversi in ambiti diversi (nella scienza, nel mondo aziendale, nella comunicazione)? E che cosa hanno in comune gli errori che portano a un tragico incidente aereo, quelli che conducono al fallimento di un nuovo prodotto o di una potenziale innovazione, il rigore sbagliato che costa la sconfitta in una finale della Coppa del Mondo di calcio? Dal flop dei Google Glass a quello ciclico della videotelefonia; dal più grande abbaglio nella storia dello spettacolo al fallimento più colossale della Silicon Valley; dall'errore di comunicazione che aprì una breccia nel muro di Berlino agli errori di battitura costati milioni di dollari, Massimiano Bucchi parte da storie avvincenti e inaspettate per invitarci a riflettere sul nostro rapporto con gli errori. Perché studiare gli errori, quelli capitali, memorabili, epici o quelli più banali e quotidiani, significa parlare soprattutto del nostro modo di guardare agli errori, di comprenderli e interpretarli, di riconoscere che, in fondo, siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i nostri sbagli.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858695180

Errori e incidenti

1977, il disastro di Tenerife

Errori e incidenti come «formaggio svizzero»
Aeroporto Los Rodeos, isola di Tenerife, domenica 27 marzo 1977. Tra le 13,10 e le 13,45 sulla pista atterrano due Boeing 747. Sono entrambi voli charter. Il primo, dell’americana Pan Am, è addirittura lo stesso velivolo che ha effettuato, sette anni prima, il primo volo commerciale di un 747, all’epoca il jet civile più grande. Il secondo è un aereo dell’olandese KLM, con a bordo 234 passeggeri e 14 membri dell’equipaggio. Nessuno dei due aveva previsto di atterrare a Tenerife, ma l’aeroporto di Las Palmas, sull’isola di Gran Canaria, è stato chiuso dopo l’esplosione di una bomba piazzata dai separatisti. Il volo Pan Am, con a bordo 380 passeggeri, aveva chiesto di attendere la riapertura di Las Palmas, ma l’autorizzazione gli è stata negata.
Il comandante del volo KLM è il comandante Jacob van Zanten. Pilota espertissimo, responsabile dell’addestramento piloti per il 747, figura nota anche al grande pubblico giacché il suo volto compare nelle campagne pubblicitarie della compagnia. Nel piccolo scalo ormai congestionato dal traffico, i due aerei si trovano a pochi metri l’uno dell’altro. Entrambi hanno fretta di ripartire. La normativa olandese sui tempi massimi di volo per l’equipaggio è cambiata da poco ed è divenuta più rigida. Se non riparte entro poche ore, il volo KLM rischia di dover fare un’altra sosta obbligata e la compagnia di doversi accollare il pernottamento di personale e passeggeri. Attorno alle 16 gli equipaggi ricevono la notizia che l’aeroporto di Las Palmas è riaperto. Per guadagnare tempo a Las Palmas in vista del successivo rientro ad Amsterdam, van Zanten decide all’ultimo momento di anticipare il rifornimento di carburante. Questa operazione costringe il volo Pan Am, già pronto per il decollo, a restare dietro al KLM. Nel frattempo le condizioni meteo peggiorano, la nebbia cala sull’aeroporto. Poiché il normale percorso è bloccato, le istruzioni della torre di controllo prevedono che il KLM compia una svolta a 180 gradi sulla pista di decollo e attenda qui il via libera. Il Pan Am seguirà lo stesso percorso fino alla terza uscita, e qui svolterà a sinistra per lasciare libera la pista al decollo del KLM (fig. 1). Ma la nebbia porta il Pan Am a mancare l’uscita C3 e a procedere verso la successiva. Contemporaneamente il KLM si trova in posizione di decollo all’estremità della pista, il muso rivolto verso il Pan Am. Impaziente di partire, van Zanten avvia i motori.
A questo punto, poiché finora non c’è stato tempo di farlo, il primo ufficiale del KLM chiede l’autorizzazione per la rotta (altitudine, direzione). Qui avviene un’altra incomprensione: comunicando quest’autorizzazione di rotta (che non è ancora l’autorizzazione al decollo), la torre utilizza imprudentemente il termine take-off, decollo. Subito dopo la torre precisa: «Ok. Standby for take-off. I will call you», «Ok, aspettate a decollare, vi richiamo». Ma la comunicazione della torre si sovrappone a quella del primo ufficiale del KLM: la causa è un fenomeno noto come eterodina, che può verificarsi nelle comunicazioni in VHF quando due microfoni sono attivati simultaneamente. Al KLM sentono solo la parola «Ok» seguita da un fruscio. Quelle comunicazioni preoccupano il Pan Am, che precisa: «Stiamo ancora rullando sulla pista». Al che la torre risponde: «Avvisateci quando siete usciti dalla pista». Impegnati nelle manovre di decollo, van Zanten e il primo ufficiale non prestano attenzione a questa comunicazione. Se ne accorge solo il secondo ufficiale, che chiede un chiarimento, ma il comandante lo rassicura subito, la pista è libera.
Fig. 1 (da PATRICK SMITH, The True Story Behind the Deadliest Air Disaster of All Time, «The Telegraph», 27 marzo 2017).
Fig. 1 (da PATRICK SMITH, The True Story Behind the Deadliest Air Disaster of All Time, «The Telegraph», 27 marzo 2017).
A questo punto al Pan Am hanno già intuito il pericolo, e tentano disperatamente di spostare l’aereo verso sinistra. In quel momento le luci del KLM lanciato verso il decollo si stagliano minacciose verso di loro, a soli settecento metri di distanza. Ormai impossibilitato a interrompere il decollo, con il velivolo appesantito dal pieno di carburante, van Zanten tenta all’ultimo momento di passare sopra l’altro aereo. Vi riesce con il carrello anteriore, ma quello posteriore e i motori si schiantano contro l’apparecchio americano, aprendolo come una scatoletta. Dopodiché il KLM piomba a terra e i suoi serbatoi pieni si incendiano. A causa della nebbia, i controllori di volo impiegano diverso tempo a realizzare la portata del disastro appena avvenuto; impreparati a gestire un’emergenza di quella portata, i responsabili dell’aeroporto chiedono a taxi e automobilisti di portarsi sul luogo per aiutare i soccorsi. Nessuno è sopravvissuto sul KLM, mentre dal Pan Am si salvano incredibilmente 54 passeggeri e 7 membri dell’equipaggio. Con un totale di 583 vittime, è il più grande incidente della storia dell’aviazione. Per una tragica ironia della sorte, quando alla KLM ricevono la notizia dell’incidente, pensano subito di mandare van Zanten a indagare sull’accaduto, finché non scoprono che era proprio lui il comandante del volo.
Chi sbagliò? Quale errore condannò gli oltre cinquecento passeggeri dei due voli? La commissione d’inchiesta individuò in van Zanten il principale responsabile, colpevole di aver affrettato il decollo senza autorizzazione e di aver ignorato i dubbi dei suoi collaboratori. Un’analisi più approfondita, tuttavia, rivela che diversi fattori contribuirono a causare l’incidente.
In primo luogo, anche se aveva grande esperienza, van Zanten negli ultimi dieci anni si era occupato soprattutto di addestramento e di questioni organizzative, perdendo l’abitudine alla routine delle manovre in situazioni reali. In più, la sua notorietà e il suo alto livello gerarchico scoraggiarono gli altri ufficiali dal sollevare ulteriori obiezioni alle sue manovre (il primo ufficiale era stato abilitato su quel tipo di aereo proprio da lui). A questo si aggiungono altri fattori di contesto. Van Zanten era sotto pressione per ripartire il prima possibile ed evitare così un’ulteriore sosta; il personale dello scalo di Los Rodeos non aveva l’esperienza e la preparazione per gestire all’improvviso una simile densità di traffico internazionale e aerei così grandi. Le condizioni meteo aggravarono la situazione, rendendo di fatto impossibile il monitoraggio degli aerei in un aeroporto che non disponeva del radar di terra. Problemi di comunicazione (fraintendimenti linguistici e inconvenienti tecnici) contribuirono a peggiorare un quadro già altamente problematico.
Lo psicologo James Reason descrive metaforicamente simili situazioni come l’allineamento di varie fette di formaggio con i buchi (fig. 2).41 Di per sé, le conseguenze di un errore (ovvero un buco in una delle fette) possono essere trascurabili. Il problema, o in questo caso l’incidente, avviene quando «buchi» diversi si allineano contemporaneamente e le fette allineate possono essere trafitte da parte a parte.
Da sola, infatti, una delle condizioni (il comportamento imprudente del comandante KLM, la situazione meteorologica, i fraintendimenti comunicativi, l’inadeguatezza dello scalo e del personale) non sarebbe stata sufficiente a provocare un simile disastro. Tutte insieme, invece, condussero alla catastrofe. Una conseguenza di una simile analisi è che focalizzarsi sugli errori individuali e sulla responsabilità personale può essere seducente per media e opinione pubblica, o perfino necessario in ambito giudiziario; non aiuta però le organizzazioni a comprendere la natura sistemica di gran parte degli incidenti e quindi a prevenirli, limitando le conseguenze degli errori individuali, giacché è impossibile eliminarli del tutto.
Fig. 2 (da JAMES REASON, Human Error: Models and Management, 2000).
Fig. 2 (da JAMES REASON, Human Error: Models and Management, 2000).
Mantenendo l’analogia con le fette di formaggio allineate, si può quindi tentare di prevenire gli incidenti:
  • aumentando il numero di fette (ovvero moltiplicando i livelli di controllo);
  • riducendo il numero dei buchi, o restringendone l’ampiezza (progettando sistemi e procedure per ridurre le possibilità di errori individuali);
  • segnalando agli operatori quando i buchi si stanno allineando.42
Dopo lo choc del disastro di Tenerife, il trasporto aereo introdusse significativi cambiamenti organizzativi e procedurali proprio in queste direzioni: «Ridondanza progettuale e moltiplicazione dei livelli di difesa».43 Furono ulteriormente standardizzate, tra l’altro, le modalità di comunicazione, richiedendo a ciascun operatore di ripetere le istruzioni ricevute, evitando espressioni generiche o potenzialmente ambigue come «Ok». Un accorgimento relativamente semplice e a costo zero che avrebbe potuto contribuire a salvare, in quella domenica di marzo, centinaia di vite.

1983, il soldato russo, quelli americani (e la scarpa) che evitarono la guerra nucleare

L’importanza di riconoscere l’errore
Settembre 1983. Alla Casa bianca c’è Ronald Reagan, al Cremlino Jurij Vladimirovič Andropov. Le relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti attraversano una delle fasi più difficili dal secondo dopoguerra. Da ambo le parti è in atto una corsa allo sviluppo di arsenali missilistici. Il 1° settembre di quell’anno le forze sovietiche hanno abbattuto un jet civile coreano entrato nello spazio aereo dell’URSS, scambiandolo per un «aereo spia», causando la morte di tutti i 269 passeggeri, tra cui diversi cittadini americani. Ai livelli più alti della politica, dell’apparato militare e dei servizi segreti sovietici è sempre più diffusa la preoccupazione per un possibile attacco missilistico da parte degli Stati Uniti.
La notte del 26 settembre, il tenente colonnello dell’esercito sovietico Stanislav Evgrafovic Petrov, abitualmente impegnato in attività di analisi, sostituisce occasionalmente un militare nel turno di sorveglianza ai calcolatori che vigilano su possibili minacce di attacco nucleare nel bunker Serpukhov-15, a circa centotrenta chilometri da Mosca. Quindici minuti dopo la mezzanotte suona una sirena e compare sullo schermo un messaggio rosso di allerta: «Lancio». Secondo il sistema, un missile americano è in volo verso l’Unione Sovietica. La sirena parte di nuovo, segnalando un secondo, poi un terzo, un quarto e infine un quinto missile. L’allerta sui computer passa da «lancio» ad «attacco missilistico». Il tenente colonnello Petrov resta immobile a guardare lo schermo, come paralizzato, le dita a pochi centimetri dal telefono collegato con i vertici politici e militari. Ogni secondo perso potrebbe risultare decisivo. Dal momento dell’allarme, si stima che all’URSS rimangano circa dodici minuti per scatenare una controffensiva, e venticinque prima dell’effettivo arrivo dei missili americani sul territorio sovietico. Sarebbe il definitivo via libera a un conflitto nucleare potenzialmente devastante. «Sapevo perfettamente che nessuno avrebbe potuto correggere il mio errore, se mi fossi sbagliato» disse in seguito Petrov. Se l’allarme è fondato, non bisogna indugiare un istante. Se è infondato, attenersi scrupolosamente al protocollo, come hanno fatto i militari che hanno abbattuto il jet coreano, rischia di innescare per il mondo intero un conto alla rovescia inarrestabile e dalle conseguenze ben più drammatiche.
Ma qualcosa non quadra. Petrov sospetta che il sistema di allerta computerizzato, come è già successo, non sia affidabile. Gli addetti al radar di terra non riescono ad avvistare i missili americani. Ma a insospettirlo è soprattutto la scarsa consistenza dell’attacco: se davvero gli Stati Uniti volessero attaccare, non lo farebbero con una manciata, ma con centinaia di missili. Il tenente colonnello decide di discostarsi dal protocollo: chiama il quartier generale delle forze armate e segnala un malfunzionamento del sistema. I ventitré minuti successivi sono i più lunghi della sua vita. Solo a quel punto, non avendo avuto notizia di attacchi, Petrov ha finalmente la certezza di aver fatto la scelta giusta. Nei giorni successivi, in segno di gratitudine, i colleghi gli regaleranno un piccolo televisore portatile.
Ai vertici militari, tuttavia, nessuno gli dice grazie; anzi, nessuno deve sapere dell’incidente, perché significherebbe ammettere i limiti del sistema di monitoraggio. Petrov non riceverà mai neppure l’attesa promozione a colonnello e scivolerà verso una vita dimessa da pensionato, segnata da problemi di salute e dalla scomparsa della moglie, in un villaggio alla periferia di Mosca.
Di quell’episodio il mondo verrà casualmente a sapere solo quindici anni dopo, quando già l’Unione Sovietica non c’è più da un pezzo, attraverso le memorie di un ex superiore di Petrov. I mezzi di informazione cominceranno così a interessarsi a questo sconosciuto pensionato che ha salvato il mondo all’insaputa di tutti.
Riconoscere l’errore è spesso fondamentale. Saper interpretare potenziali allarmi e avvisi da parte della tecnologia; saperli leggere nel contesto più ampio senza prenderli alla lettera può rivelarsi decisivo. Petrov ci riuscì anche grazie al fatto che, a differenza dei suoi colleghi, non era cresciuto solo nell’ambiente militare ma si era formato anche in ambito civile. Obbedire meccanicamente agli ordini non era, per lui, il solo aspetto a cui prestare attenzione. Ragionò con la propria testa sulla base di tutti gli elementi di cui disponeva, e non solo attenendosi alle indicazioni della tecnologia. Seppe riconoscere un errore evitando di compierne uno ben più grande, che sarebbe potuto costare molto caro non solo a lui e all’Unione Sovietica, ma al mondo intero. «Fu una fortuna» dichiarò Petrov anni dopo in un’intervista «che ci fossi io quella notte di turno, e non il collega che accettai di sostituire.»
Quello individuato da Petrov non fu l’unico errore tecnico che rischiò di portare le grandi potenze sull’orlo di una guerra nucleare. Il 5 ottobre del 1960, il presidente di IBM Thomas J. Watson Jr. e alcuni colleghi stavano visitando il quartier generale della North American Air Defense (NORAD) a Colorado Springs. Nella war ro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sbagliare da professionisti
  4. Introduzione. Sbagliando s’impara?
  5. Fallimenti epici
  6. Errori di comunicazione
  7. Errori nella scienza
  8. Errori e incidenti
  9. Ringraziamenti
  10. Note
  11. Sbagliare informati
  12. Copyright