La nuit de vendredi 24 à samedi 25 août
Non ricordo con esattezza quando siamo rimasti in silenzio. La serata era stata divertente, piena di parole e di risate, mi sentivo un po’ brillo. Eravamo a casa Servandoni e la moglie di Alain, Karima, aveva preparato una meravigliosa cena magrebina che nel giro di un paio d’ore era stata spazzolata fino all’ultimo granello di cous-cous.
Mi è sempre piaciuto mangiare con le mani, fare piccole palline di semola con carne di montone o pollo da ficcare in bocca, mescolando spezie e sapori. C’è qualcosa di antico e infantile nel compiere quei gesti. Trovarsi assieme, attorno a un grande vassoio con ogni ben di dio, in qualche modo stimola l’amicizia, avvicina gli animi, è intimo e rilassante. Niente forchette o coltelli, solo le nostre dita che ogni tanto si toccavano, un contatto quasi sensuale.
Del resto, la serata calda e silenziosa aveva contribuito a rendere piacevole la cena, invogliando a bere, chiacchierare, ridere e scherzare: quattro bambini che rubano il cibo dal piatto di portata.
Comunque, come stavo dicendo, a un certo punto siamo rimasti in silenzio, uno di quei momenti in cui si ripensa alle parole scambiate, alle risate, al legame che ci teneva assieme e che in certe situazioni veniva fuori di prepotenza. Karima e Tristane si sono alzate, hanno preso il vassoio vuoto e sono tornate in cucina. Alain ha aperto la terza bottiglia. Si è seduto davanti a me e in quel momento c’è stato lo schianto giù in strada.
Dalla finestra aperta del balcone è giunto lo stridore di una frenata e il cozzo delle lamiere accartocciate. Un incidente coi fiocchi.
Eravamo sbronzi: Alain, che non tollerava la vista del mio bicchiere vuoto, mi ha versato del vino, poi ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere. «I soliti imbecilli» ha detto.
«Devono aver preso una bella sberla» ho risposto io.
«Qui sotto è la norma, guidano come pazzi.»
Ho guardato l’ora, le due meno un quarto. Intanto, cinque piani più in basso qualcuno si era messo a gridare. Una bella discussione da manuale. Doveva essere uno di quegli scontri tra ubriachi che accadono di preferenza la sera tardi. Bevono come spugne in qualche gargotta, poi si mettono al volante e sfasciano l’auto per non aver rispettato uno stop.
«Scendiamo a dare un’occhiata?» ho proposto.
Alain ha sbadigliato. «Nemmeno per sogno. Arriverà la stradale, lascia che se ne occupino loro.»
Ho bevuto un sorso di vino e mentre posavo il bicchiere sul tavolo si è sentito un colpo secco, seguito da una serie di detonazioni che il mio orecchio allenato ha riconosciuto come una breve raffica di mitra.
Gli occhi sgranati di Alain hanno incontrato i miei. Senza una parola siamo schizzati in piedi per precipitarci sul balcone. Quello che era sembrato un normale incidente era tutt’altro. Una grossa Škoda di colore rosso aveva speronato un furgone grigio mandandolo a cozzare contro la recinzione del giardino di square Montholon.
Attorno c’era l’animazione di un giorno di mercato. Due uomini stavano scaricando una grossa cassa di legno chiaro dal retro del furgone, mentre un terzo aveva aperto la portiera del passeggero e stava tirando fuori in malo modo una donna bruna che gridava e si dibatteva nel tentativo di liberarsi. Lui le ha ficcato un paio di ceffoni, poi l’ha trascinata verso la macchina e l’ha spinta a forza sul sedile posteriore.
Nel frattempo gli altri due stavano già infilando la cassa nel baule della station-wagon. Tutti quanti, tranne la tipa, indossavano cappellini da baseball con la visiera. Un paio di auto che passavano in rue la Fayette hanno rallentato per curiosare ma, data la natura poco rassicurante della scena, sono scivolate via levandosi di torno alla svelta. Eppure, così m’è parso, non si vedevano in giro armi né cadaveri.
«Ehi, voialtri!» ha berciato Alain, sporgendosi oltre l’esile bordo del parapetto. «Non vi muovete, è la polizia!»
Nonostante fossimo al quinto piano, la sua voce impastata ha echeggiato sulle facciate della piazza acquisendo una certa autorevolezza, tant’è che i tre si sono bloccati e hanno sollevato lo sguardo su di noi. La sorpresa è durata solo pochi istanti. Uno dei due che stavano caricando la cassa ha mollato il lavoro e afferrato un aggeggio all’interno del bagagliaio. Senza scomporsi lo ha puntato nella nostra direzione.
Ho fatto appena in tempo ad acchiappare Alain per un braccio e a tirarlo via dalla ringhiera. Seguita dal rimbombo degli spari, una gragnuola di proiettili ha investito la finestra, fracassando gli infissi e mandando i vetri in frantumi mentre ci buttavamo per terra. Karima, che stava entrando nella stanza, ha cacciato un urlo e lasciato cadere una zuppiera piena di crema chantilly che si è sparsa sul pavimento assieme ai cocci. Anche Tristane è comparsa sulla porta, più pallida della chiara d’uovo montata a neve che reggeva in una scodella.
Sull’île flottante potevamo metterci una pietra sopra.
Mi sono alzato e ho sfilato la pistola dal fodero che avevo posato sul tavolino accanto al divano, quindi sono tornato sul balcone. L’auto si stava sganciando in retromarcia dal fianco del furgone. Doveva essere incastrata perché metà del muso è finita sull’asfalto con uno schianto. Con un lungo stridio di gomme è rinculata di qualche metro, quindi è schizzata in avanti.
Tenendo la Colt .45 con due mani ho mirato a una ruota e tirato il grilletto. Altro botto e il lunotto posteriore della Škoda è diventato opaco. Altri due secondi e l’auto era sparita dal mio campo visivo.
Alain mi ha tirato per la camicia. «Muoviti!» ha gridato. «Andiamo di sotto.»
Ha preso il fucile a pompa che teneva nell’armadio delle scope all’ingresso, poi siamo filati giù per le scale. Siccome non è che tutte le notti sotto casa vada in scena il far west, per strada c’era già uno sciame di curiosi che ronzava attorno al luogo dell’incidente. Vedendo le armi, qualcuno si è allontanato, gli altri ce li siamo tolti dai piedi sventolando le nostre credenziali.
A causa del violento impatto, la parte anteriore del furgone aveva sfondato la recinzione fin de siècle del giardino e si era infilata nella vegetazione. Dalla fiancata accartocciata pendeva il paraurti dell’auto con attaccato un parafango e la mascherina del radiatore.
Anche se avevo l’impressione che non fosse rimasto nessuno, ci siamo avvicinati con circospezione. Il portellone posteriore era spalancato. All’interno era buio pesto; per vederci Alain ha sfregato un fiammifero sul piano di carico e lo ha sollevato sopra la testa. Accanto alla parete di fondo era allungato un corpo che non dava segni di vita. Servandoni ha tirato fuori dalla tasca una Gauloise e l’ha avvicinata all’ultimo spasmo della fiammella.
«Dammi un cerino» ho chiesto.
Me ne ha passato un paio. Sono salito sul pianale e mi sono avvicinato al corpo, poi ne ho acceso uno. L’uomo era kaputt. Alla luce fioca ho notato almeno tre fori di proiettile e una pozza di sangue scuro che si stava raccogliendo in un angolo del vano. Brillava appena, come una cosa viva. Il cadavere indossava un abito leggero dal taglio costoso, il che non significava che fosse una persona per bene, ma suggeriva l’ipotesi.
Evitando di toccare, o di lasciar cadere pezzetti di legno carbonizzato, eventualità che avrebbe mandato in bestia Saunière e i suoi amichetti della scientifica, sono tornato da Alain.
«Chi è?» ha domandato.
Ho fatto spallucce. «Un elegantone.»
«Morto?»
«Stecchito.» Ho preso il cellulare e ho chiamato in ufficio.
Mi ha risposto Zuna Di Falco, a cui toccava il turno di notte. «Come mai ancora in piedi a quest’ora?» ha chiesto.
«C’è stato un incidente sotto casa di Servandoni. Roba grossa.»
«Vuoi che ti mandi la stradale?»
«Si sono messi a sparare e c’è pure un morto. Avvisa l’identità giudiziaria, digli che dovranno rimuovere un veicolo e un cadavere. Ma prima di tutto dobbiamo cercare un’auto.»
«D’accordo, di che tipo?»
«Una Škoda Superb Wagon rossa.»
«Sei riuscito a prendere la targa?»
«Puoi dirlo forte, aspetta…» Ho rovesciato il paraurti, la targa era avvitata sotto alla mascherina del radiatore. L’ho dettata a Zuna.
«Inoltro subito la comunicazione alla stradale.»
«Bene. All’auto manca tutta la parte davanti. Quando hai finito, metti insieme qualche flic e raggiungeteci qui.»
Ci siamo salutati e ho riattaccato. Nel silenzio, rotto soltanto dal brusio dei curiosi che si tenevano a debita distanza, avevo in testa due domande fondamentali:
a) chi diavolo era la donna bruna?
b) cosa conteneva la cassa che avevano preso dal furgone?
Per entrambi gli interrogativi non esisteva al momento una risposta, quindi ho evitato di spremermi le meningi. Quei delinquenti avevano lasciato solo un pezzo della loro macchina e una manciata di bossoli sparsi sul pavé. Le chiome degli alberi di square Montholon frusciavano scosse da una brezza leggera.
Ho alzato lo sguardo verso casa di Alain all’ultimo piano, l’unico balcone della stretta facciata all’angolo con rue Papillon. Appoggiate alla ringhiera Karima e Tristane stavano osservando la scena. Gli occhi della mia bella hanno incontrato i miei. L’aria della notte le scompigliava i capelli scuri, ma senza riuscire a portarsi via lo sgomento che ho letto sul suo viso.
Square Montholon non è certo famosa perché ci abita Servandoni. In realtà non è famosa affatto. Anche se tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta le redazioni di “Hara-Kiri” e “Charlie Hebdo” si trovavano qui. Non che questo lo renda un luogo di culto o di pellegrinaggio, ma la piazza, con il suo bel giardino pieno di piante, è un’oasi verde nel cuore di cemento del Nono arrondissement. In passato, per via di questa tranquilla bellezza, è stata pure ricordata in un paio di canzoni.
Quella sera, tuttavia, la bucolica calma era andata a farsi benedire; transenne ovunque, autopattuglie con i lampeggianti accesi, veicoli di servizio, veicoli della scientifica e dell’Istituto di medicina legale e un brulichio di sbirri che esploravano ogni centimetro quadrato di giardino attorno al luogo dell’incidente. Altri flic in divisa tenevano lontani i curiosi.
Nonostante fossero le quattro di mattina, l’animazione era quella delle ore di punta. La squadra di Philippe Guibert stava raccogliendo indizi all’interno del furgone, roba come gomme americane masticate, peli pubici, ditate unte, sputi e altre delizie del genere. Nel frattempo un piccolo drappello della balistica, guidato da Georges Berléand, raccattava i bossoli che quei farabutti avevano lasciato per strada. Due dei suoi ragazzi erano su in casa di Alain per levare i proiettili dal soffitto.
Zuna si è avvicinata. Aveva l’aria stanca, anch’io avevo l’aria stanca, tutti quanti avevamo l’aria stanca a quell’ora della not...