Un bizzarro galantuomo
Forse la venerazione è eccessiva, ma il rispetto più che giustificato. Prima di tutto perché era un grande penalista e di uno stampo del tutto diverso da quelli che caratterizzavano i «mattatori» del foro napoletano alla Porzio. Quanto essi erano gigioni e gladiatori, tanto De Nicola era sobrio e asciutto. Poi perché era un galantuomo di condotta cristallina. È solo come uomo politico che ebbe alcune «bizzarrie», di cui si può trovare un puntuale, ma anch’esso rispettoso, campionario nel bel saggio di Domenico Bartoli Da Vittorio Emanuele a Gronchi (se si riesce a reperirlo perché, come tutto il meglio della nostra memorialistica, non credo che sia stato mai ristampato per non fare torto a una delle nostre più peculiari caratteristiche: l’ignoranza). Per esempio, la sua abitudine, anche quando era presidente della Repubblica, «di scrivere la corrispondenza privata su carta senza intestazione e di affrancarla a proprie spese».
Portato deputato quasi a forza dagli elettori di Afragola, a trentasei anni era già sottosegretario in un ministero Giolitti, e chissà, prima del fascismo, dove avrebbe potuto arrivare senza quella ritrosia che contrassegnò tutta la sua vita politica. L’assunzione di una carica pubblica era preceduta sistematicamente da una fase durante la quale De Nicola si faceva pregare, e accettava, se accettava, di malavoglia. Altrettanto sistematicamente sopravveniva una seconda fase durante la quale si dimetteva e veniva indotto a recedere dalla sua decisione, quando recedeva, dopo insistenze non minori di quelle occorse per fargliela assumere. Gli estenuanti negoziati si svolgevano a lunga distanza perché, alla minima contrarietà, De Nicola si rifugiava nella sua villa di Torre del Greco, di dove era difficilissimo stanarlo.
Fu lì che nel ’46 gli resero visita Benedetto Croce e Porzio per indurlo ad accettare, sia pure a titolo temporaneo, la carica di presidente della neonata Repubblica, ch’egli aveva già rifiutato. Napoletanamente – cioè drammaticamente – Porzio gli disse: «Enrì, mi son sognato mamma tua che m’ha detto…». Al che, altrettanto napoletanamente, De Nicola aveva risposto: «Io pure me la sono sognata e m’ha detto di rifiutare». Finì che l’assemblea costituente procedette alla sua elezione senza chiedergliene l’assenso.
De Nicola arrivò a Roma con aria corrucciata e non volle trasferirsi al Quirinale con la scusa che la sua carica era a termine, nella speranza, dicevano i suoi amici, che gliela revocassero, o in quella, dicevano i suoi nemici, che gliela trasformassero in definitiva. Per due anni, quanti ne occorsero per preparare le prime elezioni democratiche dopo il fascismo, fu un capo dello Stato senza corazzieri né first lady e che, quanto a cerimoniale, fu intransigente su un solo punto: che niente d’importante venisse sottoposto alla sua firma di venerdì. Per il resto fu il solito De Nicola che quando si recava privatamente in un luogo pubblico, per esempio a teatro, si rifiutava di occupare il posto che tutti gli astanti, alzandosi, gli offrivano. Ma guai se qualcuno non lo faceva.
Ho sentito dire che, alla scadenza del suo biennio presidenziale, si dette, per esservi riconfermato, parecchio daffare, ma sott’acqua. Talmente sott’acqua che nessuno è mai riuscito ad addurne qualche prova. Da allora abbandonò qualsiasi attività, anche privata, e si ritirò nella sua Torre del Greco, più solitario e scontroso che mai. Sfido, io: non poteva più dare né minacciare dimissioni da nulla.
21 giugno 2000
Nostalgia del silenzio
Stanotte – come sempre più spesso mi capita in questi ultimi tempi – ho sognato Einaudi, o meglio ho rivissuto in sogno la colazione cui m’invitò poco dopo la sua elezione al Quirinale insieme alla collega inglese Barbara Ward, la prestigiosa editorialista del prestigioso «Economist».
Ci andammo insieme, entrambi imbarazzatissimi dagli scatti sull’attenti dei corazzieri scaglionati per tutto il percorso della «lunga manica», che non è lunga solo per modo di dire. «Come si risponde?» mi chiedeva Barbara con angoscia. Cercammo di cavarcela con degl’inchini, che dovevano essere, specialmente i miei, piuttosto goffi.
Gli Einaudi, moglie e marito, in Quirinale ci abitavano, come non hanno più fatto gli ultimi successori. Ma senza introdurre, per evitare spese, novità nella cosiddetta «palazzina» (un vestibolo, un salotto, uno studio, una camera da letto a due piazze e un bagno), rimasta come l’avevano lasciata i Savoia, che invece non l’avevano abitata mai. Poteva essere l’appartamento di un agiato professionista o di un cattedratico universitario. Il pranzo consistette in prosciutto e melone, consommé, branzino lesso e frutta. Alla frutta, Einaudi prese dalla fruttiera una mela, e mi chiese: «Ne vuole mezza?».
Fu la sola occasione che mi venne offerta d’intervenire in una conversazione svoltasi fin allora unicamente fra lui e Barbara su certe lettere di Stuart Mill che l’«Economist» aveva riportato, secondo lui, in maniera incompleta, e quindi inesatta in quanto non aveva citato («Glielo dica al suo direttore, glielo dica») le postille che in parte correggevano, in parte rovesciavano il senso del suo discorso. Barbara tenne botta con bravura cercando di fare argine all’oltranzismo liberista del presidente, che reagì spazientito: «Non vorrà mica prendere sul serio il paradosso protezionista di Bastiat, secondo il quale il governo doveva vietare al sole l’ingresso in Francia perché avrebbe fatto sleale concorrenza ai produttori indigeni di candele?».
Preso coraggio dalla risata di Barbara, gli chiesi se era vero che ogni mattina si faceva portare dal segretario alla Presidenza, Carboni, tutti i conti del Tesoro, dei Buoni del Tesoro e delle contabilità speciali di tutta la pubblica amministrazione. «Be’,» rispose lui «un padre di famiglia se non riguarda i conti della famiglia, che padre è?» «E se i conti non tornano?» incalzai, senza aspettarmi risposta che infatti non venne, ma ben sapendo che ogni giorno dal suo scrittoio partivano all’indirizzo di ministri, sottosegretari ed altra varia nomenclatura, dei bigliettini vergati a mano su carta non intestata, zeppi di cifre, di postille e di richiami al tale comma di tale articolo di tale legge o decreto, su questa o quella sbavatura della pubblica spesa senza copertura di relativo introito. «Un autentico flagello» mi aveva confidato uno dei destinatari, un flagello di cui la pubblica opinione era tenuta completamente all’oscuro. Fuori di questi, del tutto informali e mantenuti nella più stretta riservatezza, Einaudi non aveva altri contatti col mondo politico, se non quelli ufficiali. Unica sua vita di relazione, quella con l’Accademia dei Lincei, di cui era membro ed alle cui «comunicazioni» non mancava mai.
In pubblico, la sua voce si udiva soltanto per il consueto messaggio di Capodanno: due paginette e via, lette alla svelta, incespicando, senza variazioni di tono e con evidente imbarazzo.
A questo punto forse qualche lettore mi chiederà perché, ed a che proposito, rievoco Einaudi e quei suoi silenzi. È quello che mi chiedo anch’io. Mah! Che sia la nostalgia?
1 luglio 1996
Il padre di nessuno
Poiché in Italia l’unica industria che non conosce crisi è lo sfruttamento dei cadaveri, di questi giorni eravamo un po’ in pensiero per quello di De Gasperi. Ci allarmavano le celebrazioni programmate per la quarantunesima ricorrenza della sua scomparsa, quando di solito questi anniversari vengono rievocati a cifra tonda: dieci, cinquanta, cento. Data la situazione, c’era da temere che la scadenza rinfocolasse la solita guerra di successione fra i pretendenti all’eredità. Così è stato, ma con più moderazione di quanto paventassimo, anche perché i contendenti si sono divisi saggiamente il campo: i «cespugli» di destra a Sella di Valsugana dove De Gasperi morì, quelli di sinistra nella chiesa di San Lorenzo dove si svolsero le esequie ufficiali. Così si è evitato lo scontro. Ma è rimasta la guerra, secondo noi impostata su un equivoco di fondo: che quella di De Gasperi sia una questione di partito.
Nel suo libro sul padre, Maria Romana scrive ch’egli non fu soltanto, come molti credono, un uomo di Stato e di governo. Fu anche, dice, un uomo della Democrazia cristiana. Ed è quell’«anche» che salva il suo discorso. Certo, alla Democrazia cristiana De Gasperi diede molto, a cominciare dal nome. Ma sempre la concepì soltanto come fonte di ispirazione della politica. Come strumento di potere, non la ebbe mai nel sangue. E lo dimostra il fatto che non volle governare soltanto con essa nemmeno quando, nel ’48, gli elettori gliene offrirono la possibilità dandole la maggioranza assoluta.
Volle sempre accanto a sé dei laici purché di accertata estrazione liberaldemocratica, e ce li avrebbe voluti anche se, invece del cinquantuno, le urne gli avessero dato l’ottanta per cento.
Del partito si fidava poco, poco si curava, raramente metteva piede nella sua sede. E fu così che non si accorse di cosa vi stava maturando: lo stravolgimento, da parte degli apparatchik, del sistema democratico in sistema partitocratico, che rovesciava tutta la gerarchia dei poteri: non più, al vertice, quello legislativo, cioè il Parlamento, e quello esecutivo, cioè il governo, come Costituzione comanda, e come lui stesso voleva con tutte le sue forze che fosse; ma il partito, o meglio il segretario del partito.
Quando se ne avvide e cercò di correre ai ripari riprendendone la guida, era troppo tardi. La segreteria, che avrebbe dovuto essergli attribuita all’unanimità e per acclamazione, gli fu contesa dagli apparatchik cresciuti alla scuola dei «professorini», ormai padroni di tutti gl’ingranaggi. Frammiste alle 49 schede col suo nome, ce n’erano ben 22 bianche. La sera qualcuno gli portò la lista coi nominativi degli astenuti. Invece di passarla a lui, «una mano gentile» (credo di Maria Romana) la gettò, senza leggerla né fargliela leggere, nel caminetto.
De Gasperi non ebbe il tempo né la forza, e forse nemmeno la voglia di affrontare la crisi di rigetto di cui ormai si sentiva bersaglio. L’ultimo tentativo lo aveva fatto in un pubblico intervento a Milano: «Spero che non vi perderete anche voi intorno a questa ridicola terminologia di sinistra e di destra…». Non so se nel suo malinconico esilio di Valsugana presagì e misurò la catastrofe che si profilava: la degenerazione mafiosa della politica italiana, i governi non più espressione del Parlamento, ma semplici «combinazioni» dei partiti, i cui segretari-padroni disdegnavano perfino di parteciparvi; col suo naturale ed inevitabile sbocco: Tangentopoli. Ma di una cosa siamo sicuri: che se riaprisse gli occhi, De Gasperi non si riconoscerebbe padre di nessuno di coloro che da destra e da sinistra si proclamano suoi figli, e che sono invece i figli del partito che lo tradì.
Il giorno del suo funerale lassù tra i monti, un italiano qualunque si staccò dalla piccola folla che faceva ala al feretro, e ai notabili del partito che ne tenevano i cordoni gridò: «Giù le mani da quella bara. De Gasperi appartiene a noi italiani».
A distanza di quarantun anni ci permettiamo di fare nostro quel grido.
23 agosto 1995
Un carattere autoritario e impaziente
Per don Luigi Sturzo (1871-1959), fondatore del Partito popolare italiano, è stato avviato nel 1997 un processo di beatificazione.
Io l’ho conosciuto, don Sturzo. Quando, tornato in Italia dopo la Liberazione, e al ritorno dal suo esilio in America, abitava a Roma presso le suore canossiane nel quartiere di San Giovanni, che lo accudivano con la pazienza che richiedeva il suo carattere autoritario e impaziente.
Per tre volte andai da lui a sollecitarne l’opinione sulle cose politiche presenti e passate, e lui non me ne fece mai mistero. C’era ancora dentro perché la Repubblica lo aveva fatto senatore a vita, e quando in quel sinedrio si alzava a prendere la parola, come capitava abbastanza sovente, un gran silenzio si faceva nell’aula: pesava, la parola di don Sturzo.
Veniva, come si suol dire, «di lontano». Era stato lui a fondare, subito dopo la Prima guerra mondiale, quel Partito popolare, detto anche Pipì, da cui derivava in via diretta la Democrazia cristiana. L’operazione non era stata facile perché tuttor...