La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo
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La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo

  1. 272 pagine
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La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo

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La pietra filosofale, l'elisir di lunga vita, i metalli trasformati in oro: sono tutti elementi presenti ancora oggi nel nostro immaginario, tratti da quello che era l'autentica alchimia medievale. E gli alchimisti, figure a cavallo tra mistero e magia che operavano tra il fumo degli alambicchi nei loro laboratori, sono stati fra i protagonisti del Medioevo e del Rinascimento. Serge Hutin li fa rivivere raccontando la loro vita quotidiana, le loro affascinanti attività, e illustrando le concezioni esoteriche e scientifiche che stanno alla base dell'alchimia. Fra le pagine vengono poi raccontati i procedimenti ritenuti necessari per compiere la Grande Opera - trasmutare i metalli vili in oro - e viene descritta la minuziosa organizzazione del regno dell'alchimista: il laboratorio segreto, luogo di esperimenti ma anche di preghiera e di esercizi spirituali. Un'interessante panoramica sul ruolo di questi controversi personaggi nella società del XIV e XV secolo, figure allo stesso tempo temute e rispettate, ora noti artisti - basti citare Nicolas Flamel - ora semplici imbroglioni perdigiorno, destinati a rovinarsi con le loro stesse mani.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858695005
Argomento
Storia
III

Ciò che si faceva

Le operazioni di laboratorio

Lo storico potrebbe essere fortemente tentato di «tradurre» un trattato alchimistico medievale mettendo in evidenza i processi significativi che vi avevano luogo. Ecco un brano di un’opera del XV secolo, il Traité de chimie philosophique et hermétique [Trattato di chimica filosofica ed ermetica] dell’adepto inglese George Ripley:
Nelle diverse operazioni si possono estrarre diversi prodotti: innanzitutto il leone verde, che è un liquido denso […] che fa emergere l’oro nascosto nelle materie ignobili; il leone rosso, che converte i metalli in oro, ed è una polvere rosso vivo; testa di Corvo, detta anche la vela nera della nave di Teseo, un deposito nero che precede l’estrazione del leone verde e la cui comparsa, alla fine dei quaranta giorni, promette il successo dell’opera e che serve alla decomposizione e putrefazione degli oggetti dai quali si vuole estrarre l’oro; la polvere bianca, che trasmuta i metalli bianchi in argento fine; l’elisir al rosso, con il quale si fa l’oro e che guarisce tutte le piaghe; l’elisir al bianco con il quale si fa l’unguento e ci si garantisce una vita estremamente lunga, che viene chiamato anche la fanciulla bianca dei filosofi. Tutte queste varietà della pietra filosofale vegetano e si moltiplicano […].
Incontestabilmente, si tratta di processi materiali, di operazioni concrete. Sarebbe dunque normale tentare di riconoscersi un po’ nel lavoro compiuto dall’alchimista nel suo laboratorio.

Colori dell’Opera

I testi di questo tono, che ci sembra così strano, costituiscono, nonostante l’uso di un linguaggio simbolico, descrizioni assolutamente precise delle fasi successive della Grande Opera minerale. Tutti i documenti tradizionali sono d’accordo nel parlare di tre colori principali: la loro successiva comparsa segna il cammino vittorioso verso la Grande Opera. Il colore nero, prima di tutto (l’Opera al Nero), simboleggiato dalla testa di corvo o dalla testa di morto, corrisponderebbe all’indispensabile fase di putrefazione attraverso la quale deve passare la miscela debitamente preparata e messa a cuocere nell’uovo filosofico. Il secondo colore principale che deve emergere a tempo debito è il bianco (l’Opera al Bianco), associato a una fase di distillazione della materia prima, alla fine della quale si dovrebbe ottenere la promettente possibilità di realizzare la trasmutazione in argento, tappa intermedia nel successo della Grande Opera. Infine, il colore rosso nella miscela trattata segnerebbe il raggiungimento da parte dell’«artista» del vero trionfo ermetico: la conquista della possibilità di realizzare le trasmutazioni in oro.
Altri colori osserva in realtà l’alchimista nel corso delle trasformazioni della materia prima nell’alambicco: il giallo (citrino) e il sorgere progressivo nella miscela trattata di una fiabesca successione iridata di colori (la cosiddetta fase dell’arcobaleno, o della coda del pavone). Bisognerebbe parlare inoltre dei colori associati ai diversi stati delle sostanze che venivano utilizzate come agenti o come coadiuvanti nel corso delle operazioni: i corpi o miscele che, incorporati nella materia prima, suscitano le sue successive metamorfosi.

La materia prima

Ma da che cosa bisognava dunque partire per ottenere la vera materia prima della Grande Opera, il punto di partenza del processo? I testi sembrerebbero lasciarci intravedere in prima istanza discordanze notevoli fra i diversi autori. Alcuni partivano da diversi componenti organici. Uno dei meno conosciuti sarebbe stato l’alga gelatinosa, detta familiarmente «sputo della luna», che talvolta si trova al suolo, in masse più o meno compatte, dopo un acquazzone. Si noti anche la cura con cui gli alchimisti raccoglievano la rugiada di maggio, anch’essa caduta dal cielo e ritenuta portatrice, per la sua stessa purezza, di meravigliose proprietà purificatrici. In tali casi, si trattava però non della vera e propria materia prima, ma di apporti preliminari, preziosi o addirittura indispensabili alla sua corretta preparazione.
La speranza di avere successo nell’Opera partendo da una materia organica certamente spinse alcuni «soffiatori» a smarrirsi nel sinistro mondo delle pratiche di magie nere. Consigliato dal sacerdote italiano spretato Francesco Prelati, il famigerato maresciallo Gilles de Rais, che era stato valoroso compagno d’armi di Giovanna d’Arco, arrivò a sacrificare dei fanciulli per procurarsi il sangue giovane ritenuto indispensabile per il successo della Grande Opera. Ma, se il caso di Gilles de Rais può essere giudicato a sé (tanto che alcuni storici sono arrivati a sostenere che il processo con le sue sinistre accuse non sia stato che una macchinazione politica contro questo insigne personaggio), esistettero però senz’altro falsi alchimisti, che non esitarono ad abbandonare la buona strada per coltivare vere e proprie aberrazioni del genere.
Gli alchimisti sono stati considerati come i precursori di certi tentativi moderni di creare artificialmente la vita: si tratta del problema dell’homunculus (omino), un piccolo essere artificiale creato dal seme umano. Lo segnaliamo qui solo fra parentesi, perché nessun testo medievale, almeno di nostra conoscenza, ne parla direttamente: il primo a parlare dell’homunculus sarà Paracelso, il celebre medico alchimista del Rinascimento. Ci si può inoltre chiedere se l’interpretazione popolare di queste testimonianze non celi in realtà un significato simbolico dei testi in questione.
L’alchimista tradizionale partiva di solito, come materia prima della Grande Opera, da una sostanza minerale. Più esattamente, lavorava a partire da un composto che associa i due princìpi (positivo e negativo, maschile e femminile) le cui varie combinazioni, in proporzioni diverse, generavano in natura i distinti metalli. Imperturbabile era, negli alchimisti medievali, la fede ferma nella possibilità di realizzare trasformazioni da un metallo all’altro.
Rileggiamo il Romanzo della Rosa nella seconda parte (opera di Jean de Meung):
[…] Chi ne farà uso saggiamente [dell’alchimia] farà meraviglie perché, qualunque cosa sia delle specie, i corpi particolari, sottoposti a preparazioni intelligenti, sono mutevoli in tanti modi che possono scambiarsi di natura in diverse elaborazioni; e questo cambiamento li fa rientrare in altre categorie.1

I metalli, corpi composti

L’oro appare, nell’universo alchimistico, come il coronamento, la perfezione metallica; gli altri metalli sono giudicati imperfetti, malati, decaduti, perché rappresentano stadi inferiori dello stato metallico. L’adepto musulmano Geber definiva lo scopo minerale della Grande Opera con questa formula immaginosa: Portami i sei lebbrosi, che io li guarisca. Come? Trasformandoli.
Precisiamo, tuttavia, meglio questo punto di partenza essenziale dell’alchimia minerale: la natura composta di tutti i metalli, la cui individualità risulterebbe da combinazioni variabili fra i due princìpi – maschile e femminile – che si chiamavano rispettivamente Zolfo e Mercurio. Lo Zolfo corrisponde, nel metallo, alla sua parte ignea; il Mercurio, a quanto ha di volatile, alla sua «metallità», per usare un ardito neologismo. Ma altre interpretazioni entrano in gioco. Ecco, ad esempio, un brano del Compendio del perfetto magistero (cioè della Grande Opera), un trattato attribuito a Geber:
Il sole [l’oro] è formato da un mercurio molto sottile e da un po’ di zolfo molto puro, fisso e chiaro, che è di un rosso netto; e poiché lo zolfo non ha sempre lo stesso colore e ce n’è di più o di meno intenso, anche l’oro è più o meno giallo […].
Benché gli alchimisti conoscessero perfettamente lo zolfo normale, nonché il mercurio metallico, non si deve per questo ritenere risolto il problema ermeneutico: di qui l’opportuno impiego – che noi da parte nostra precisiamo – delle maiuscole per indicare Zolfo e Mercurio in alchimia quando si trattava non dei corpi chimici così chiamati ma dei due princìpi la cui alleanza doveva verificarsi nella materia prima. Risulta (ma gli alchimisti non sapevano maneggiare – e abilmente – l’equivoco voluto, il passaggio continuo da un’accezione all’altra?) che, in alcuni passi, gli adepti sembrano parlare dello zolfo e del mercurio normali, così come li vediamo noi. Riprendiamo il nostro brano del Compendio del perfetto magistero: «Il sole [l’oro] è formato da un mercurio molto sottile e da un po’ di zolfo molto puro, fisso e chiaro, che è di un rosso netto; e poiché lo zolfo non ha sempre lo stesso colore e ce n’è di più o meno intenso, anche l’oro è più o meno giallo […]».
Esiste però un minerale, il cinabro, che incorpora e unifica nella sua composizione lo zolfo e il mercurio. Alcuni alchimisti sono partiti da questa sostanza, altri consigliavano di partire da minerali sulfurei come la stibina. Al di là dei corpi chimici normalmente noti sotto questi nomi, gli alchimisti tuttavia si riferivano – con le denominazioni di Zolfo e Mercurio – a una dualità di princìpi minerali antagonisti ma complementari, a loro volta riflesso di un dualismo su scala cosmica. La lenta generazione dei metalli in seno alla terra si spiegava così con la combinazione, in proporzioni variabili, di questi due princìpi: fisso e volatile, maschile e femminile.
Riportiamoci2 alla leggendaria Tavola smeraldina, attribuita a Ermete Trismegisto. Vi si trova già, affermata con grande forza, la necessità per l’adepto di associare i due princìpi complementari – maschile e femminile – simboleggiati rispettivamente dal Sole e dalla Luna, dal Re e dalla Regina: Il Sole ne è il padre [della Grande Opera], la Luna ne è la madre […].
Nelle categorie dei metalli, l’oro è paragonato al sole, la luna all’argento. È evidente come questo parallelismo sia potuto nascere dall’osservazione immediata della differenza fra la luce solare – dai raggi dorati e splendenti – e quella bianca e polarizzata, proiettata dall’astro della notte.
Secondo certi alchimisti, per sperare di riuscire nell’Opera bisognava partire dall’oro e dall’argento; più esattamente, estrarre dai due princìpi che quei metalli nobili incorporavano (lo Zolfo e il Mercurio filosofali) una «semenza» capace di «moltiplicare» volta a volta l’argento e l’oro preziosi. Bisognava riuscire a coniugare i due princìpi, con un lavoro speciale, nella materia prima dell’Opera. Ai due princìpi complementari bisognava aggiungere anche il Sale (da distinguere però dal sale da cucina), che avrebbe svolto il ruolo di conciliatore fra i due antagonisti. Al di là della dualità, si approderebbe così a una terna di princìpi esplicativi della realtà minerale.

Via umida e via secca

Il procedimento più frequente seguito dall’alchimista era quello cosiddetto della via umida, che si praticava per maturazione della materia prima nell’uovo filosofico, cioè nell’alambicco di vetro o di cristallo messo a riscaldare nell’atanor. Era un processo molto lungo che richiedeva non meno di quaranta giorni. Il numero quaranta si ottiene moltiplicando cinque (numero particolarmente importante, associato al sole nel pitagorismo, ma alla Vergine Maria nel simbolismo cristiano) per otto (numero «celeste», legato alle Beatitudini esaltate dal Discorso della Montagna). D’altra parte, la pazienza richiesta all’alchimista era di solito molto maggiore: tranne in casi del tutto eccezionali, la conoscenza stessa della materia prima da impiegare e quella delle diverse operazioni da realizzare con essa richiedeva anni e anni.3
Ma esisteva, si diceva, una via molto più breve, che occupava sette o otto giorni (numeri entrambi molto significativi), o addirittura poche ore. Era la via secca, chiamata appunto così perché si praticava al crogiolo. Questa via diretta era molto più breve, ma estremamente pericolosa per l’operatore, a causa dei rischi di esplosione.
Esisteva anche una via cosiddetta direttissima, estremamente rapida, che poteva consentire un successo quasi immediato, ma che comportava anche gravissimi rischi, all’altezza di un’impresa così temeraria. Essa richiedeva – exploit fantastico rispetto ai criteri delle conoscenze scientifiche moderne – una manifestazione improvvisa del fulmine, che si trattava di captare nell’atmosfera terrestre durante un temporale.
Se alcuni autori hanno voluto ridurre l’alchimia a un’ascesi interiore, a una mistica, è però impossibile, di fronte alla ricche...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana degli alchimisti
  4. Introduzione
  5. I. Le fonti dell’alchimia
  6. II. Il laboratorio
  7. III. Ciò che si faceva
  8. IV. La medicina e oltre?
  9. V. Gli alchimisti nella società medievale
  10. VI. I rapporti con i «grandi di questa terra»
  11. VII. Di fronte alla Chiesa
  12. VIII. Gli adepti e l’arte medievale
  13. IX. Gli alchimisti del Rinascimento
  14. Conclusione. Gli alchimisti e le società segrete
  15. Bibliografia
  16. Copyright