L'onore e il silenzio (Nero Rizzoli)
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L'onore e il silenzio (Nero Rizzoli)

  1. 280 pagine
  2. Italian
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L'onore e il silenzio (Nero Rizzoli)

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI.Il 1924 non è scandito dalle lancette dell'orologio ma dagli sbuffi della locomotiva, che significano progresso. Lo sanno bene nella placida Borgodivalle, scossa dal clangore dei colpi sulle traverse d'acciaio e dal ritrovamento, proprio sotto al moderno ponte in ferro, del corpo senza vita dell'ingegnere Alessi. I lavori si fermano e la cittadina piomba nel caos.
Per ripristinare l'ordine e assicurare i colpevoli alla giustizia, è inviato sul posto il brigadiere Maisano, disilluso gregario alle prese con il ruolo dell'indagatore. Lo affiancano nella ricerca della verità il suo tic all'occhio sinistro e l'indolente appuntato Varcone. Mentre antiche ruggini e velenose dicerie serpeggiano ovunque, Maisano sarà costretto al viavai "lungo linea", e a spingersi nella fitta boscaglia, sulle colline rifugio di latitanti e donne coriacee, inseguendo la sanguinosa pista dell'onore. Anche Gennaro Loiacono, il venerando caposquadra degli operai del cantiere ferroviario, prenderà parte alle indagini, nella speranza che i suoi uomini si tengano lontani dai guai. Gianni Mattencini riavvolge il nastro del tempo per tessere la trama di un giallo intenso e solenne. In un immaginario sobborgo dalle tinte western e dall'atmosfera sospesa, lascia echeggiare le mille voci di un popolo, che da un lontano passato illuminano le contraddizioni del presente.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858694923

1

Il caposquadra cercava di muoversi leggero.
Si vergognava dello scricchiolio feroce delle scarpe da lavoro sul pietrisco tagliente. Si vergognava della tuta sudicia di grasso e limatura di ferro, del pregno nella stoffa del fumo greve del carbon coke. Oppure era un odore che gli s’era appiccicato sotto la pelle e che nessun sapone e nessuna brusca gli avrebbero mai tolto d’addosso. Più ancora si doleva della faccia non rasata, dei capelli arruffati dal sudore e dalla polvere. Teneva il capo scoperto, per rispetto. E stringeva il basco nella mano sinistra martoriandolo con rancore verso se stesso, per essere in quello stato.
Tutto, però, era accaduto in fretta.
Camminava, dunque, il caposquadra Gennaro Loiacono, con quel goffo incedere danzante sulle punte sperando che dalle suole non sprizzassero sassi. E soffriva, sì, soffriva nel vedere la donna al suo fianco trattenere un gemito a ogni passo.
L’aveva indirizzata sul sentiero erboso che correva lungo linea, appena a ridosso della massicciata, ma anche lì il cammino non era privo di insidie. E la signora Giorgina calzava scarpine da città, buone solo alla figura, non all’umido dell’erba, agli accidenti del terreno celati dal verde, o alla mota del greto dov’erano diretti.
Il signor Adriano seguiva a tre passi, camminando con incertezza. Ma era un uomo, se la cavava da solo e non gli si doveva aiuto, finché non lo chiedeva. Sbuffava, ogni tanto, certo; malediceva il momento in cui s’erano messi per quella strada, però seguiva.
Il caposquadra si teneva a distanza di un braccio e lanciava occhiate brevi e frequenti alla donna, pronto a soccorrerla, ad afferrarle la manica del tailleur. Nel caso l’avrebbe sporcata, forse, ma ne avrebbe parato un inciampo. Si sentiva responsabile dell’incolumità di quella signora, che mai avrebbe dovuto essere lì, e avvertiva in sé, pur senza motivo, come una colpa per l’escursione.
Aveva proposto d’usare il carrello a pedali ma la donna, con un’occhiata, gli aveva fatto intendere di no, e non c’era stato altro verso che muoversi a piedi.
«È scomodo e lontano» aveva obiettato Gennaro.
«Andiamo!» aveva ordinato quella, e s’erano mossi seguiti dallo sguardo curioso e ilare dei quattro bifolchi accorsi in stazione fin dalla mattina, per i quali era spettacolo gratuito e inatteso, tutto quel movimento. Un trambusto inconsueto e proprio per questo gradito, malgrado l’evento che l’aveva causato.
Novembre era mite, quell’anno.
L’ottobre piovoso aveva lasciato ai giorni seguenti vento maestrale e freddo pungente. Un gelo che s’insinuava nelle carni, che s’infilava in casa per ogni fessura dei muri e ogni spiraglio di porte e finestre. Un freddo molesto che il fuoco nei camini non scacciava, le coltri di lana non vincevano e che arricciava la pelle a uomini e bestie. Poi il tempo s’era addolcito in mattinate di sole tiepido, come in primavera, e in giornate che al tramonto s’arricchivano di un’aria più fresca, gelata soltanto di notte.
Bisognava muoversi in fretta. Erano poche le ore di luce residua.
«Quanto» chiedeva di sovente il signor Adriano, «quanto, Gennaro?» alludendo alla distanza che ancora mancava.
«Ancora, ancora» rispondeva il caposquadra. «Dopo la curva e ancora un po’» precisava per dargli una meta.
Intanto la vegetazione del bosco infittiva e tagliava il tepore del sole, anticipava lo scuro del crepuscolo col marrone dei tronchi, col secco del fogliame delle querce rimasto ancora sui rami e i soli rumori erano lo scricchiolio del pietrisco sotto le suole di Gennaro e il picchiettio regolare del bastone dell’uomo che lo seguiva. Dalla macchia, solo qualche frullo d’ali, ora lieve ora assai più pesante, come d’animali grandi o impigliati o uccellati alle panie col vischio.
Sul limitare, le piante più giovani godevano lo spazio del tracciato ferroviario e s’incurvavano tendendo il tronco verso i binari come braccia protese alla salvezza, per guadagnare luce e per cercare di ricucire i lembi della ferita inferta all’integrità della selva. L’aria umida accaldava più ancora del tiepido sole e attaccava i panni alla pelle, appesantiva il cappello sul capo.
«Quanto, ancora, Gennaro?» chiedeva il signor Adriano, i cui settant’anni qualche effetto facevano alle gambe, e non s’avvedeva che il domandare frequente gli allungava il cammino.
«Ancora, ancora» pronunciava Gennaro con voce corta, per invogliare l’anziano a risparmiare il fiato. E per un po’ funzionava. Adriano taceva e tornava a contare fino a cento o a centocinquanta il picchiettio del bastone sui sassi, e gli sembrava di sgranare un rosario o conteggiare i granelli di una clessidra. Lo faceva per distrarsi, per non pensare all’accaduto e a ciò che ancora doveva venire.
Quando poi gli sembrava che la conta fosse cresciuta a buon punto e che l’andare avesse pur portato un vantaggio all’arrivo, tornava a domandare, mansueto e fiducioso in una risposta diversa: «Quanto, allora, Gennaro?».
«Ancora, ancora. Dopo la curva c’è il suono del Crati che è gonfio di piogge. Il fiume s’è ripreso il suo letto. Il rumore dell’acqua che scorre è il segnale. Allora, saremo vicini» rispondeva Gennaro.
La donna, invece, avanzava muta.
Dritta, lo sguardo fisso all’orizzonte del binario, di rado piegava il capo a controllare il sentiero.
Teneva sul braccio il cappotto di cammello col collo di volpe e indossava, calcato sulla nuca, un feltro a calotta, le falde del quale ombreggiavano soltanto la fronte, lasciando gli occhi alla luce. Vestiva un completo di foggia militare con le spalline squadrate, il colletto senza revers e sei bottoni che, da mezzo petto, scendevano alla vita come capezzoli d’una cagna magra. E tale sembrava, infatti, donna Giorgina, con l’avanzare ritmato dei passi, le narici dilatate e lo sguardo puntato in avanti. Una cagna che tira sicura i suoi passi verso una meta che lei stessa davvero non sa, guidata dal fiuto o dall’istinto soltanto.
Alla vita, l’abito si stringeva in una finta cintura sotto la quale due patte, una per lato, coprivano le bocche dei tasconi. La gonna scendeva ben sotto il ginocchio e stringeva le gambe in un tubo. Non fosse stato per lo spacco sul retro, la poveretta non avrebbe potuto muoversi. Ma i polpacci vi uscivano forti e capaci di quel cammino.
Spingeva il braccio sinistro avanti e indietro, come di marcia, e il movimento sprigionava un profumo sottile frammisto all’odore del busto, come vapore sbuffato da una macchinetta a pressione che, per le aperture dell’abito, sfuggiva al tepore del corpo. Ma l’afrore che la pelle doveva pur sprigionare per l’impegno dei passi, si disperdeva senza beneficio per le narici del caposquadra, nell’aria umida intrisa dell’odore dell’erba pestata.
Era magra, quella donna. Non riempiva il vestito che non le segnava i fianchi né le fasciava il seno. C’era spazio, in quell’abito. Troppo per il petto magro e asciutto, vaga promessa di femminilità matura.
Fianchi sterili, gambe magre, sedere piatto e arido. Tutto come in un sentimento avaro, un trasporto misurato, una richiesta d’amore negata. E per amore, appunto, e per rabbia si faceva quell’escursione.
Alessandro era là, in un posto impreciso. Li attendeva incosciente. Mentre per loro era soltanto tempo di andare, con le tante domande nel capo.
A metà della curva, che seguiva la collina cingendola al fianco e sgranandone la continuità della superficie come una cicatrice su un ventre, il panorama s’apriva e, di lassù, si intravvedeva l’azzurro scuro del mare. Lo Ionio. Un conforto, a vederlo da lì. La promessa di un luogo altro, immacolato e lontano dai fatti che s’apprestavano a vivere e che Alessandro già aveva vissuto. Un panorama subito nascosto dalla fila di abeti che correva al di là dei binari, a sinistra.
In quel mare ignoto sfociava il fiume al quale essi andavano come a un pellegrinaggio. Lì, in quel mare, il Crati portava ogni minuto i segreti raccolti lungo il suo corso, affidandogli ciò che la natura e gli uomini gli consegnavano, che le sue acque rubavano lungo le sponde. Un furto commesso dal fiume per conto del mare, refurtiva destinata a un ricettatore capace e discreto. Un complice, quasi, che attendeva tranquillo quel che gli sarebbe stato portato.
La signora Giorgina emise un sospiro, oppure era solo un respiro profondo per dare più ossigeno al petto e più sangue alle gambe. O era un sussulto del cuore compresso dall’ansia, che cercava il suo ritmo normale e faticava a trovarlo.
Nel medesimo istante, il vecchio chiedeva: «Insomma, Gennaro, quanto ancora?». Con tono di rimprovero, nella voce roca. Come fosse colpa del caposquadra che quanto successo fosse accaduto tanto lontano e che il poco fiato non gli concedesse di tenere viva la brace del toscano che si rigirava fra i denti.
«Ecco, laggiù» indicò Gennaro con un cenno del capo, «ed ecco il rumore dell’acqua» aggiunse, ponendo l’indice all’orecchio per invitare all’ascolto.
Con quel suono d’acqua che scorre crebbe l’ansia nella donna, che affrettò il passo ancora di più. Se quello era il segnale, era tempo d’arrivare e di vedere, finalmente.
Gennaro indicò movimento di uomini in fondo ai binari e don Adriano Alessi, dietro di lui, sottolineò: «Ah, ecco, ecco. Era ora, in fine».
Ma s’ingannava.
A sinistra, il filare di abeti s’era aperto e lasciava scorgere una scarpata sassosa che scendeva ripida fino a perdersi in altra macchia di fitta boscaglia. Prima di questa e in fondo a quella, s’intravvedeva una casa arroccata su una forte pendenza.
Una canna di camino sbucava da un tetto di tegole terragne rilasciando un fumo chiaro e lento che la ventilazione, venendo dal mare, a tratti spingeva in giù e a volte lasciava scappare rapido in alto e portava lontano. Quel fumo era segno di vita, di fuoco sotto pignatta, ma le uniche finestre della casa che si affacciavano alla collina dov’erano loro, disallineate in altezza, avevano imposte accostate, per quello che la distanza lasciava vedere.
Più voci di cane abbaiavano da quella direzione, alternandosi e giungendo attutite, ma minacciose pur sempre. Prima l’una esplodeva rabbiosa per qualche secondo, poi l’altra cominciava quando la prima taceva e sembrava risponderle, come in dialogo. E invece le bestie facevano soltanto il mestiere di segnalare la presenza di nuovi venuti, che forse erano loro. E così, certo, fin dalla mattina, se non anche da prima.
«Chi abita là?» chiese don Adriano.
«Pastori» rispose Gennaro, «qui sono tutti pastori.»
«Isolati e lontani?»
«Ce n’è anche di più dispersi. I pastori così campano, si sa.»
«E a quella casa non s’arriva per strada più comoda di questa?»
«Più comoda forse, più lunga senz’altro, a salite e discese, con polvere e fango.»
«Mentre qui…» osservò, ironico, il signor Adriano.
«E poi…» riprese il caposquadra «da quella casa a qui c’è un bel dislivello a volerlo proprio fare, e bisogna sapere dove mettere i piedi sulle rocce, con scarpe comode e gambe addestrate. Senza offesa, don Adriano, forse io… ma voi… e poi la signora…»
«Eh, bisogna vedere» fece l’altro, «magari io più di voi, mio caro Gennaro…» canzonò il vecchio.
«Papà!» lo rimproverò allora la signora Giorgina, per troncare la disputa. «Vi sembra il momento e l’occasione?»
Ma Gennaro stava già mormorando: «Può essere, può essere, non dico di no, ma intanto siamo qui. E fidatevi, don Adriano, che ho scelto per il bene».
Il vecchio tacque per non fare polemica, però gli aleggiò un sorriso sul viso e, se solo avesse potuto, avrebbe acceso il suo mezzo sigaro per quel vano trionfo.
La signora Giorgina aveva un passo prossimo alla corsa e s’era fatta imprudente. Gennaro seguiva per quel che poteva, sudando alla fronte e dolendosi del troppo peso del ventre e della poca lunghezza delle gambe.
“Non si cammina così, lungo linea. Non si procede così se si ha strada da fare in andata e ritorno. È più giudizioso misurare le forze” pensava Gennaro. Ma non parlava. Per ciò per cui andavano, tutto era giustificato e non stava a lui obiettare.
Don Adriano Alessi, in cuor suo, s’era già arreso. Se avesse trovato da sedere lo avrebbe fatto senz’altro e senza pentimento perché, in fondo, s’apprestavano solo a vedere qualcosa di brutto. Qualcosa, forse, che avrebbe fissato per sempre il ricordo dell’escursione fra le cose terribili della vita. E chissà se erano pronti davvero ad assistere alla scena alla quale la sorte li aveva chiamati.
Muoversi da Bari, affidare l’azienda a Peppino, cercare posto in treno e viaggiare ore in vettura per fermarsi in una stazione, tale solo di nome, di un paese, tale solo di nome. Prendere alloggio in un albergo, anche questo tale soltanto di nome, e subito mettersi in cammino per raggiungere un luogo dove solo il destino – il destino! – aveva potuto chiamarli a condividere la sorte con gente sconosciuta. Perché loro, e questo era certo, di propria volontà, mai ci sarebbero venuti, in un posto tanto sperduto.
Ed eccoli lì, dove il rumore dell’acqua s’era fatto più forte e il fresco più intenso.
Si fece incontro un graduato che salutò con mano alla visiera.
Gennaro mormorò con sussiego: «I parenti».
Ne seguì un breve silenzio fatto di sguardi. Quindi il carabiniere si presentò: «Brigadiere Maisano». E subito aggiunse: «Di qua, faccio strada», avvisando che ancora un po’ dovevano addentrarsi verso il greto del fiume, tra rami bassi, selci e fanghiglia.
«Signora, mettete i passi sull’erba, se potete» avvertì ancora, e s’incamminò.
«Non s’arriva d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’onore e il silenzio
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. Copyright