È dalle 7.30 che siamo parcheggiati qui, nel campetto da calcio del paese di Tatopani. Ammucchiato in mezzo al prato c’è il nostro materiale: bidoni, sacconi, tende, gerle di viveri e attrezzatura da cucina.
Bhakta e Sonam, il cuoco e il suo aiutante, sono al lavoro per preparare i carichi. Noi due ciondoliamo, impazienti e un po’ annoiati. Sprofondata sopra un saccone, con lo sguardo basso, io fisso i fili d’erba. Sono confusa e un po’ nervosa, qualcosa sta girando storto. Chissà quale paranoia mi sto inventando…
Siamo arrivati qui il 29 marzo, dopo ore di sobbalzi in jeep lungo la carrozzabile che dai tremilasettecento metri di Muktinath, ai piedi del Thorong La, scende fino a Pokhara, il più importante centro turistico del Paese.
Il panorama correva fuori dal finestrino e a stento riconoscevo i villaggi della vallata che solo qualche anno fa avevamo attraversato a piedi. Tutto diverso, un mondo cambiato a velocità vertiginosa. “Per fortuna ci sono le montagne” avevo pensato. “Loro sono così da prima che cominciasse la nostra storia, e saranno così anche quando noi specie umana avremo tolto il disturbo.”
Neanche Tatopani me lo ricordavo così, anonimo villaggio dell’Annapurna Circuit, «famoso per le sorgenti d’acqua calda frequentate da turisti e da locali».
Da qui mancano solo tre giorni di cammino per arrivare al campo base, ma Nima – il titolare della nostra agenzia – ha detto che lungo il percorso c’è ancora molta neve; troppa per i portatori.
Bisogna salire in elicottero.
Ieri il cielo era nuvoloso, con scrosci di pioggia, e siamo dovuti rimanere qui. Per passare il tempo abbiamo fatto e rifatto vasche per il paese. Ci accompagnava una gentile cagnetta bianca; per la strada scodinzolava e salutava chi le era simpatico e digrignava i denti agli antipatici. Nei negozietti lungo la via abbiamo comprato qualche bottiglietta di Coca-Cola da portare su, in parete, e un pezzo di sapone.
Nella bottega dell’orafo ho approfittato per far riparare la catenina. In quel bugigattolo con le pareti rivestite di fogli di giornale, seduti a terra a gambe incrociate, l’artigiano e il suo aiutante riparano e creano bracciali e collane. Stregati, Romano e io siamo stati lì a guardarlo lavorare con pinze e saldatore, le dita dei piedi usate a mo’ di morsa per bloccare le maglie della catenina. Sembrava un incantatore di serpenti. L’economia dei gesti, i pochi e semplici strumenti, la bellezza del verbo «aggiustare» che qui, forse ultimo baluardo, non ha perso il suo valore. Per duecento rupie ha sostituito l’anello rotto, l’ha saldato con l’argento e me l’ha anche lucidata tutta.
Insieme alla cagnetta abbiamo fatto un giro alla piscina termale in fondo al villaggio, e poi al campetto da calcio dove c’era Sonam, l’aiuto cuoco, a far la guardia al nostro materiale. Gli abbiamo dato il cambio perché potesse salire al lodge a mangiare.
A sera il tempo è migliorato, e ci hanno confermato che oggi arriverà l’elicottero.
Sulla carrozzabile soprastante il campetto, alcuni abitanti del villaggio si sono riuniti a crocchio per assistere allo spettacolo, come se aspettassero l’arrivo della diligenza.
Soltanto un anno fa, al Makalu, eravamo noi che guardavamo sdegnati i clienti delle “commerciali” che ormai si muovono così «per ridurre al minimo la parte noiosa della spedizione». Allora era stato facile sparare sentenze sulla facoltosa americana che di elicotteri ne aveva noleggiati addirittura due: uno per tornare a Kathmandu e l’altro per volteggiarle intorno a filmare la sua salita a bordo e il lungo volo verso la capitale. Adesso, noi stiamo facendo lo stesso.
E vallo a spiegare che in realtà saremmo voluti arrivare a piedi al campo base. Oltretutto ci siamo quasi arrivati…
Figlio del suo tempo, anche per l’alpinismo oggi l’imperativo è essere vincenti e soprattutto – professionisti e dilettanti – incanalati nell’onda inarrestabile della comunicazione mediatica.
Alla ricerca febbrile del successo e con la paura viscerale del fallimento, viviamo ossessionati dagli exploit. Per farcela abbiamo due vie: o alzare ogni volta l’asticella delle performance – sempre più sportive – oppure trasformare salite “normali” in imprese spettacolari nonostante l’uso – e spesso l’abuso – di bombole d’ossigeno, corde fisse, climbing sherpa, elicotteri: tutto ciò che può servire in nome del risultato.
Ed ecco allora il fiorire, accanto alle vere imprese, di exploit gonfiati ed eufemismi per imbellettare la mediocrità e dare una parvenza di solidità all’aria fritta.
Nostalgici fuori moda, io e Romano abbiamo scelto un alpinismo il più possibile leggero ed essenziale: in piccoli gruppi autonomi – spesso noi due soli – senza bombole d’ossigeno, senza portatori d’alta quota, con il campo “in spalla” e le corde fisse solo se necessario.
Non un alpinismo estremo – per quello bisognerebbe essere professionisti, allenarsi e dedicarvisi in maniera esclusiva – e nemmeno turismo d’alta quota; perché in questo tempo vorace noi scegliamo l’economia come valore primo e, spogliati da ogni aiuto esterno e tecnologico, rinunciamo alle certezze.
Nessuno ce lo impone: abbiamo deciso noi la nostra disciplina; perché il modo, il come farlo, conta più del risultato. Quando il fine vale più dei mezzi diventa valida qualunque scorciatoia, ma per noi no, il fine non giustifica i mezzi.
Un alpinismo onesto, lo definirei.
«A piedi non si va, e non ci sono alternative» ribadisce Nima. Discorso chiuso.
È proprio vero: mai dire mai. La fiducia nella nostra lealtà è l’idea più naturale e la più ingenua che abbiamo; ma, a sparare giudizi sugli altri, possiamo star tranquilli che prima o poi ci rimbalzeranno dritti in faccia. E non senza danno.
Forse è questo che m’innervosisce, mentre i paesani stanno lì in attesa dello spettacolo. So bene che non gliene frega niente di me e che la questione non è di vitale importanza, ma l’avere infranto la nostra regola mi fa sentire additata.
Alle 9 scattiamo come centometristi: da fondovalle sale il rombo di un elicottero. Nero dai pattini alla coda, sembra un pipistrello. Con una stretta virata si appoggia a terra in un vortice di aria e polvere.
Falso allarme, non è il nostro.
A bordo c’è una coppia che, dopo una sosta di rifornimento carburante, salirà al campo base per una cerimonia in ricordo del figlio, morto sotto una valanga qualche anno fa.
Passa mezz’ora e di nuovo un falso allarme; questa volta è un trasporto di materiale per il villaggio.
Voli turistici, voli cargo, voli di soccorso: i cieli nepalesi sono trafficati come autostrade. Comprensibile, vista la scarsità e la precarietà della rete viaria; ma per noi villeggianti che senso ha? Vogliamo l’ebbrezza delle terre lontane, senza perdere troppo tempo e con il minor dispendio energetico possibile. Al campo base dell’Everest, nella stagione passata, ci hanno raccontato di decine di voli giornalieri.
E, ahimé, fra questi adesso ci siamo anche noi!
Terminato di sistemare i carichi, Bhakta e Sonam si sono seduti a riposare.
Bhakta lo conosciamo da quand’era un ragazzino brufoloso; era il 2008 ed eravamo al Manaslu. Allora era lui a far da aiutante a Prem, cuoco e amico di tante spedizioni, morto nell’immane tragedia del terremoto del 2015.
Da quella prima volta ci siamo ritrovati su altre due montagne: al Kangchendzonga nel 2012 e al Makalu lo scorso anno.
Negli anni, oltre ad aver sconfitto l’acne, ha imparato il mestiere e fatto carriera: ora è lui il capo. Ray-Ban e mani piantate sui fianchi, gira lo sguardo flemmatico a controllare che tutto sia in ordine.
È uno di pochi convenevoli, e quando ha un attimo di tempo libero ascolta musica e smanetta col telefonino. Si vede che gli vanno strette le regole dei vecchi: si rivolge a noi chiamandoci per nome e rottamando la maniera dei colleghi anziani che ancora usano didi e dai, “sorella” e “fratello maggiore”.
Sonam lo conosciamo adesso. Piccolo e robustino, ha i capelli scuri e il viso senza rughe; difficile dargli un’età, forse è intorno alla trentina. È alla sua prima esperienza da kitchen-boy, l’aiutante cuoco addetto alla manovalanza. Andare a prendere l’acqua, pelar patate, lavare i piatti, servire a tavola: questi sono alcuni dei suoi compiti.
Dai modi gentili, non ha la confidenza e la sicurezza di Bhakta, e nemmeno dimestichezza con usi e costumi in spedizione; non sapendo come fare, quando si rivolge a me con un sorriso timido mi chiama “Sir”.
Poco dopo le 11 ha inizio lo spettacolo.
Con un’intrepida virata arriva l’elicottero e, nel turbinio di aria e polvere, carica i nostri due della brigata di cucina. Dopo un quarto d’ora è già di ritorno, adesso è la volta del materiale. Per ultimi tocca a noi.
Con un balzo l’elicottero è sopra il villaggio.
Vola alto sui pendii intarsiati di terrazze, seguendo il corso del torrente che gira tortuoso per il fondovalle; poi prosegue a est, lungo una valletta dalle ripide pareti boscose.
Il tempo di lanciare uno sguardo al pilota e il paesaggio è già cambiato; adesso a dominare è il grigio ocra delle morene, punteggiato qua e là dall’azzurro slavato dei laghetti di ghiaccio.
E finalmente, eccola: l’Annapurna.
Lo sguardo si spalanca sul bianco smisurato della montagna. Riconosciamo il fiume tormentato di ghiaccio che sgorga ai suoi piedi. Poi il plateau a cinquemila metri, inciso di crepacci come la tela di un ragno. Più su la seraccata ridondante di rocce e ghiacci che sale ai settemila metri della Falce. E, infine, il lungo pendio regolare che sfocia nel bianco delle nuvole.
Uno spettacolo emozionante.
Con i suoi 8091 metri, questa montagna è la decima fra le più alte della Terra, ma è una delle più complesse e pericolose. Fu il primo ottomila a essere conquistato – nel 1950, dalla memorabile spedizione francese guidata da Maurice Herzog – ma a tutt’oggi conta poche salite e un gran numero di persone morte nel tentativo di farlo.
Secondo l’Himalayan Database, la Bibbia virtuale per gli “himalaysti”, fino all’autunno del 2016 in duecentocinquantacinque ne hanno raggiunto la cima, e settantuno vi hanno perso la vita.
Dal 1953, anno della prima salita, in cima all’Everest – la montagna più alta della Terra – di persone ne sono arrivate oltre settemilaseicento e quasi duecentonovanta sono morte. È vero che con 8848 metri di altezza il Tetto del Mondo è la vetta più ambita, la vetrina più alta della Terra. In fin dei conti, come dice Romano: «Se uno vuol farsi notare basta che faccia l’alpinista, o l’esploratore, o qualunque attività somigli a qualcosa di avventuroso». Quindi stare sulla cima più alta che esiste è pur sempre un buon modo per farsi notare da un gran numero di nostri simili.
Ma una differenza così abissale la dice lunga sul caratteraccio dell’Annapurna e sulla sua fama funesta: una montagna complessa, pericolosa, e per questo non addomesticabile per il turismo d’alta quota. Almeno finora.
«Uh, hai visto?» Romano è elettrizzato, continua a sgomitare e indicarmi di qua e di là.
È vero che volevamo arrivare coi nostri piedi al campo base, ma è così entusiasta di volare che ha gli occhi sgranati di un moccioso col giocattolo nuovo.
A lui piacciono i motori e la tecnologia, ma soprattutto gli piace sognare; e «se in sogno voli con la mente, in elicottero lo fai per davvero!».
Per spiegarsi meglio aggiunge: «Non come l’aereo, che ti sposta da un aeroporto all’altro. In elicottero sei libero di andare proprio là dove ti porta lo sguardo».
Immobile al suo fianco, io sono un pesce fuor d’acqua.
Nel frastuono della ferraglia muovo soltanto gli o...