Il fantasma del ponte di ferro (Nero BUR)
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Il fantasma del ponte di ferro (Nero BUR)

  1. 308 pagine
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Il fantasma del ponte di ferro (Nero BUR)

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Informazioni sul libro

Milano, 1985.
Il maresciallo Pietro Bindaè in pensione, ma non è rimasto con le mani in mano: ha aperto un'agenzia investigativa nello studio di casa e continua a inseguire la verità, costi quel che costi. E quando una splendida ragazza russa si presenta da lui con un nuovo indizio su un caso mai dimenticato e solo ufficialmente risolto, l'ex carabiniere dovrà tornare indietro nel tempo, al 1972, in una Milano ammantata dalla scighera e ancora scossa dall'attentato di piazza Fontana. E a un corpo decapitato, appeso in bella vista sotto un ponte dei navigli. La testa è a qualche isolato di distanza, un misterioso messaggio in cirillico nascosto tra le labbra. Un caso che si intreccia alla scomparsa di una celebre violinista russa, intorno al quale si agitano i fantasmi della Guerra fredda, agenti segreti e carabinieri che conoscono come le loro tasche le strade della città e si portano dietro pistole e segreti.
Tredici anni dopo l'apparente soluzione del caso, Binda ha l'occasione di dare finalmente giustizia ai troppi morti di una storia crudele, ma dovrà immergersi di nuovo nel mondo sfuggente dove la ragion di Stato e la ragione criminale si confondono e forse s'assomigliano. Dopo Scerbanenco e il suo Duca Lamberti, Piero Colaprico racconta attraverso gli occhi e la voce di Binda una Milano torbida e oscura, che sa rinascere sempre dalle sue ceneri, anche dalle più sporche.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858694848

1

1985

«Signor Binda, sono la custode, buongiorno.»
Alba. Da quando era morta Rachele, Pietro Binda avvertiva un buco infuocato al centro del petto. La moglie, la compagna di una vita intera, con tutte le soddisfazioni e le tante difficoltà annesse e connesse, la madre del suo unico figlio, se n’era andata per malattia, eppure…
Eppure «s’era consolato presto, el Peder», dicevano di lui in paese. Alba qualche volta dormiva a casa sua, e qualche volta era Binda a dormire da lei, nei due locali della portineria, stando bene attento a non farsi beccare in vestaglia e pantofole dagli altri condomini. Alba era più giovane, e l’aveva conquistato mandandogli su qualche pietanza appena cucinata nelle sere in cui, nel silenzio immobile della casa, lui non aveva nemmeno la voglia di apparecchiarsi la tavola. Pietro le aveva risolto un piccolo guaio capitato al figlio, l’Aldino, un balabiott un po’ troppo disinvolto di fronte ai pericoli della droga; quando per ringraziarlo lei gli aveva portato un pollo ai funghi, uno dei suoi piatti preferiti, e aveva accettato un calice di Valdobbiadene, era andata a finire com’era andata a finire: in let.
E allora perché quella mattina Alba, la donna che l’aveva strappato ai ghiacciai della tristezza, che gli aveva aperto la “saracinesca mentale”, come la chiamava Binda, che aveva riacceso in lui una fiamma, piccola ma non trascurabile, troppo a lungo smorzata dalle pigrizie della vita coniugale, perché gli stava dando del lei con quel tono risentito? Il suo «buongiorno» sembrava più un rimprovero che un augurio.
«Ma cosa sta succedendo? Hai la voce strana, Alba.»
«Me lo deve dire lei cosa succede, signor maresciallo, visto che una persona chiede urgentemente di vederla, e cià, allora gliela mando su…» replicò, recitando perfettamente il ruolo della custode antipatica, prima di troncare la conversazione. Il citofono si fece silenzioso e pesante.
«Mi ha pure chiamato maresciallo, pensa te» bofonchiò Binda, rimirando l’ordine perfetto del piccolo ufficio che aveva ricavato nell’appartamento di famiglia ormai vuoto. S’era inventato il mestiere d’“investigatore tuttofare” senza crederci troppo, ma da quando “Il Giorno” aveva pubblicato un suo ritratto, gli impegni si erano immediatamente moltiplicati. L’avevano descritto come il detective in pensione che da solo, durante la famosa nevicata dello scorso gennaio, quando aveva fioccato per tre notti e quattro giorni e sepolto Milano sotto novanta centimetri di neve, aveva risolto il mistero degli anziani assassinati e seppelliti nel cimitero di Baggio, e da allora il telefono aveva ripreso a squillare come ai tempi della caserma. Ma se prima era costretto dalla divisa e dalle gerarchie a obbedire agli ordini, adesso era libero di dire no se il caso non era nelle sue corde. Come non era nelle sue corde rintracciare per conto di un padre apprensivo il figlio ventenne entrato in una band di rock satanico. O recuperare per l’assicurazione il bottino di un furto con destrezza in una gioielleria di via Montenapoleone: non aveva la minima voglia di pagare qualche informatore esperto in “marmotte”, come in gergo si chiamavano le casseforti. E aveva rifiutato anche un terzo incarico, di cui preferiva ignorare tutto, persino chi gliel’aveva proposto: i soldi non comprano il rispetto e lavorare per la moglie di un ragioniere, diventato banchiere grazie alla politica e forse alla mafia, che voleva rovinare i fratelli per questioni di eredità, no, non faceva per l’ex maresciallo.
Quando aprì la porta, con la leggera apprensione che l’accompagnava sempre nei primi approcci con chiunque non conoscesse, si ritrovò il pancione di una bellissima ragazza. Sui vent’anni, capelli a caschetto, il trucco impeccabile che metteva in risalto gli occhi grigi, di quel grigio ardente che ha il mare d’inverno. Un elegante tubino di raso azzurro spiccava sotto una giacca Balenciaga e al collo pendeva un unico gioiello, un diamante incastonato in un’affusolata manina d’oro: se era vero, e lo sembrava, doveva avere un valore ragguardevole.
Non era una bellezza italiana, si capiva al primo sguardo, e appena la ragazza aprì bocca Binda faticò parecchio a comprendere cosa volesse. Alcune espressioni – scatola, casa di Mosca, la madre, i morti assassinati, il Naviglio – erano chiare; altre non riusciva ad afferrarle. Era come se la ragazza incinta avesse il randeghin. La voce troppo rauca, bassa, l’accento slavo, l’incertezza di chi prova a esprimersi in una lingua che conosce appena contribuivano a rendere complicata la conversazione. Gli ci vollero parecchia pazienza e alcuni bicchieri d’acqua. E infine un bel sospiro, quando l’esile modella se ne andò, dopo aver chiesto di poter usare il bagno ed essersi scusata mille volte, preferendo le scale all’angusto ascensore di legno. La sua nuova cliente, visto che aveva accettato il caso, lo aveva trascinato indietro nel tempo. Perché Olga, ex pallavolista della nazionale sovietica, arrivata giovanissima a Milano per le sfilate più importanti, e diventata in breve la fidanzata – lei diceva così – del proprietario di un’acciaieria bresciana, era la figlia della “decapitata del Pont de Ferr”.
Oddio, a pensarci bene la figlia della decapitata proprio no, ma era così che tredici anni prima, nel 1972, i giornali avevano ribattezzato nei primi giorni quel terribile caso di cronaca che aveva insanguinato una Milano ancora stravolta dalla strage di piazza Fontana, esasperata dagli scontri tra estremisti, preoccupata dalle manovre sotterranee di chi voleva riportare nel Paese il fascismo e mettere i generali al posto della democrazia. La città avrebbe visto poi altri morti, altre croci, un rosario di lapidi e di “cadaveri eccellenti”: un’espressione macabra che Binda, maresciallo della Omicidi, mal sopportava, perché nessun morto può difendersi da solo e non a tutti i morti sarebbe piaciuto sentirsi dare dell’eccellenza, specie con l’aggiunta del sorriso ignavo che accompagna l’ipocrisia delle orazioni funebri per chi, comunque, è caduto senza potersi mai più rialzare.
La sezione Omicidi dei carabinieri era stata una bella scuola, come no! Insieme con un collega che giocava a rugby aveva acchiappato anche il presunto assassino della decapitata. Molto presunto, a dir la verità: in ogni caso l’unico su cui gravassero numerosi indizi di colpevolezza. I giudici della corte d’assise avevano considerato superflui i dubbi dei carabinieri, era fioccata una pesante condanna in primo grado e nel carcere sardo di Badu ’e Carros, in attesa dell’appello, era stata inflitta la sentenza definitiva. Non dallo Stato, ma dall’Antistato: il sospettato era stato ucciso da un altro detenuto, un ergastolano pluriomicida, un cosiddetto “boia delle carceri” che aveva dichiarato di essersi difeso da un’aggressione sessuale: un movente ben al di là del credibile, anche se avallato da un altro ergastolano, compagno di cella, di branda e di spedizioni punitive ben pagate.
Quante volte Binda aveva ripensato ai protagonisti di quella vicenda senza trovare una soluzione che lo convincesse e senza avere l’appoggio dei superiori: e adesso arrivava da Mosca la giovane Olga dagli occhi incandescenti. Con il suo magnifico gioiello, che aveva lasciato lì a casa sua, fidandosi pienamente di uno sconosciuto. La ragazza era salita sin nel suo ufficio per dirgli che…
«Allora, si può sapere chi l’è quela tosa?»
Alba aveva le chiavi ed era entrata senza preamboli nella cameretta dove l’ex maresciallo aveva piazzato la scrivania, una sedia da regista e, più per scena che per altro, uno schedario. Non aveva appeso neppure un quadro. Nessuna fotografia. Solo pareti dipinte con una bella mano di bianco. Era tutta lì, la sua agenzia investigativa. Scarpe, taccuino e penna, qualche piccolo registratore e ovviamente la pistola automatica, che teneva quasi sempre nascosta sotto una sedia perché andare in giro armato gli garbava poco.
«Non ti facevo così gelosa, Alba. E scusami tanto» rispose restando seduto, per far capire senza equivoci che non gradiva l’incursione, «ma come cavolo ti viene in mente che uno come me, un pensiunat, possa interessare a una ragazza…»
«Non ho capito, Peder! Se interessi a me, che non sono da buttar via, e che sono un bel po’ più giovane di te, puoi interessare anche a una con una faccia così… Così. Parlava di te come se ti conoscesse… di più, come se tu fossi importante per lei. Mi hai raccontato che passavi le serate in casa, che uscivi poco, che ti addormentavi davanti alla televisione. E allora questa russa di un metro e ottanta dove l’hai cattata su? Ha l’aria di una che non torna mai prima dell’alba.»
«Non torna a casa prima di te?» domandò Binda tentando un gioco di parole con il nome di lei, per sdrammatizzare un po’. Non capiva se essere più infastidito o lusingato da quella strigliata, che comunque gli sembrava fuori luogo. Forse in Alba non c’era amore: forse era bisogno. C’erano tanti forse in quel nuovo rapporto, ma erano esseri umani, con le loro debolezze, i loro sentimenti e le loro speranze. Chi può dire cosa sia l’amore tra gli umani? Insieme stavano bene, in qualche modo si aiutavano.
Si alzò e la guardò dritto negli occhi, sovrastandola. «Ti sembro un playboy? Posso avere una doppia vita, piena di misteri?»
«Be’, sei sempre un carabiniere, no? Se ne dicono tante sui di voi. E chissà in quali storie…» reagì lei facendo un passo indietro.
«È la prima volta che vedo Olga» la interruppe Binda appoggiandole delicatamente le mani da montanaro sulle spalle, «e stasera ti porto a mangiare sui Navigli. Poi, se permetti, andiamo a farci un marsalino al Capolinea, è da tanto tempo che voglio sentire un po’ di buona musica. E non saremo lontani da dov’è cominciata la storia della “decapitata del Pont de Ferr”.»
«Ossignur!» esclamò Alba, arretrando e divincolandosi.
«E quella ragazza, che ha perso sua madre, all’improvviso è venuta qui con una piccola notizia nuova, e spero di essere all’altezza del compito» continuò Binda, andando ad aprire lo schedario. Anche se sarebbe stato vietato dai regolamenti, aveva portato a casa tutte le fotocopie dei suoi fascicoli, andò alla lettera S, quel fascicolo l’aveva chiamato Stavrogin. Era alto come un vocabolario, lo estrasse e l’appoggiò sulla sedia da regista. «Tel chì, il passato che ritorna, altro che dongiovanni, gelosona.»
Alba cambiò espressione, come se le parole che aveva appena ascoltato l’avessero ringiovanita. Rassettò con i palmi delle mani l’abito di lanetta nera, che la snelliva e al tempo stesso metteva in evidenza i punti giusti. E all’improvviso lo abbracciò da dietro, stretto stretto, incollandogli il seno sulla schiena poderosa: «Allora che dici, rubacuori, ci vediamo come le altre volte all’angolo della piazza, per non far malignare il commendatore del terzo piano?». E alzandosi in punta di piedi lo baciò sul collo, gli mordicchiò il lobo e lo ammonì: «Peder, fai il bravo, che ti curo».
Il morso era stato affettuoso, ma i canini avevano lasciato un segnetto. Come se Alba avesse voluto mettergli un suo timbro, amorevole e possessivo, un dolce morsino valido anche come certificato di proprietà. Sua moglie non l’avrebbe mai fatto.

2

1972, fine gennaio

Dino Buzzati era morto. Quel sabato mattina Pietro, prima di andare in caserma, aveva fatto colazione da solo al bar sotto casa. Rachele era rimasta al paese, con Umbertino, che aveva trentanove di febbre, e lui – maledetto turno festivo – era dovuto tornare a Milano. La sera prima s’era cucinato (ed erano passate le dieci, maledetta anche la fame nervosa che talvolta gli mordeva le viscere) un bel toc de luganega coi fasoi, roba paesana: gravissimo errore. Aveva dormito poco e male ed era uscito dal tepore dell’appartamento troppo presto, per ritrovarsi circondato da una nuvolaglia di nebbia fredda e buia: il sole non era ancora sorto. Con le mani e il naso ghiacciati era andato all’edicola del sciur Filippo, che già odorava di grappa, e…
… ed era ragazzino quando aveva letto Bàrnabo delle montagne. Gli era sembrato, immerso in quelle pagine, di poter star là, accanto al protagonista, appostato con il fucile carico di fronte ai banditi. Avrebbe potuto ucciderli, ma non l’aveva fatto. Bàrnabo aveva scelto di non sparare. Un atto rivoluzionario. Specie se letto a posteriori, dopo aver appreso dei campi di sterminio, dopo aver saputo quello che c’era da sapere sulla Seconda guerra mondiale, dopo aver visto da vicino la ferocia delle esecuzioni. Esecuzioni come quella di Giancarlo Puecher, ammazzato dai fascisti davanti al cimitero di Erba, non troppo lontano dalla casa del giovane Binda. Per rendergli onore aveva inventato una scusa in famiglia e in bicicletta, con un amico, era andato a infilare un fiore intagliato nel legno in uno dei buchi scavati dai proiettili nel muro del cimitero.
Non erano passati nemmeno trent’anni dalla fine delle atrocità della guerra, eppure a Binda sembrava un’altra era geologica: cos’erano ormai lo sbarco in Sicilia, il Piano Marshall, la Resistenza celebrata dai cortei del 25 aprile e tradita ogni giorno? Chi li conosceva, i fatti e i documenti? Chi ne parlava con competenza scientifica e onestà intellettuale? Sì, l’Italia, con il più forte Partito Comunista dell’Occidente, rappresentava insieme alla Germania una sporca trincea per le spie e i bombaroli. Quando si parlava di “strategia della tensione” non poteva che essere d’accordo: non era una paranoia della sinistra extraparlamentare l’identità dei mandanti di stragi come quella di piazza Fontana; non lo erano la presenza di depistatori nascosti tra le fila delle istituzioni e i colpevoli prefabbricati.
Per questo, o anche per questo, aveva preferito restare alla sezione Omicidi: fatti concreti, dolore, fatica e sangue, ma anche esseri umani divisi tra bene e male, dentro o fuori dai limiti del codice penale, non delle ideologie. Niente complotti: solo esseri umani, appunto. Fragili, crudeli, spietati, vittime di se stessi e della propria ignoranza, della propria sottocultura. E quando in mezzo agli esseri umani piombava la Secca, la Puntuale, come chiamavano la morte, Binda sentiva di potersi misurare con lei, quasi di poterla fissare negli occhi verminosi senza timori reverenziali. Era consapevole che alla fine, come capita a ogni uomo, lui avrebbe perso e che lei, la Nera Signora, sarebbe rimasta con la ranzona in mano a mietere ancora e ancora, ma nello stesso tempo s’era convinto che accanto alla Comare Ranzona, alla comare che porta la falce, potesse camminare, anche se con passo più debole e incerto, la Giustizia. E che, grazie alla sua bilancia, si potessero in qualche modo pesare i torti e i soprusi, mettendo sul piatto anche la verità. I reati di qua e gli anni di carcere per i colpevoli di là. Un risultato parziale, ma pur sempre un risultato.
Non aveva mai avuto paura di morire, Binda, né di subire i guai dell’ingiustizia: il suo cruccio era sempre stato quello di non vivere. Anzi, di non saper vivere sino in fondo la vita, che è quella cosa che passa mentre sei impegnato a fare altro, come aveva detto… chi era? John Lennon, forse. Insomma, di non fare la sua parte sino in fondo. E di essere se non proprio freddo almeno trattenuto, persino impacciato negli affetti: «Troppo riservato» gli diceva sua moglie. Ecco, Dino Buzzati lo portava a pensare a queste cose, ed era morto. Grande scrittore. E adesso era nel mistero, diceva il giornale: un titolo perfetto, per lui e per tutti.
Al bar aveva preso solo un caffè e una “esse” di pasta frolla. Il sole non era ancora riuscito a bucare la scighera. S’era deciso a uscire e a mettere un passo dopo l’altro, lentamente, per andare a prendere il tram che lo avrebbe portato in caserma. Ma in testa continuava a frullargli quello che gli avevano raccontato i suoi colleghi della Pantera, che talvolta trovavano Buzzati come annichilito nelle periferie di Milano, così immerso nei suoi pensieri – e chi a volte non ha pensieri che l’inchiodano in quel modo? – da essere scambiato per un senzatetto. Saggio, colto, maturo, per tanti anni fidanzato semiclandestino di una grandissima giornalista, Camilla Cederna, una delle poche che osava porre le domande giuste ai potenti, Buzzati finiva per perdersi correndo dietro a ragazze giovani e ignoranti, se non proprio giovanissime e ignorantissime. Cosa lo spingeva ad andare all’Aretusa? Non scendeva quelle scale per godersi la musica inglese in compagnia delle sbarbine, ma per impedire a quella di cui era invaghito di andarsene con qualche altro signore danaroso. Non ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Personaggi principali
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. Epilogo
  36. Ringraziamenti
  37. Copyright