Hanno gioito certi nemici della Chiesa a quell’annuncio dell’11 febbraio 2013. Hanno applaudito e cantato vittoria. Qualcuno sarcasticamente disse che (andarsene) era stato il suo atto di governo migliore.
Hanno creduto di vedere il nemico a terra, lo storico avversario che si arrendeva, sconfitto, e si sono inebriati di quel trionfo.
In effetti, Benedetto, come sempre mite e umile, è parso dichiararsi vinto, si è detto non più adeguato per mancanza di forze e pronunciando la sua «rinuncia» – dopo aver ringraziato tutti – ha concluso così: «Chiedo perdono per tutti i miei difetti».
Dunque, gli avversari hanno creduto di aver conseguito una vittoria totale e non hanno fatto attenzione ai particolari, alle sottigliezze e alla profondità delle parole, ovvero a ciò che Benedetto XVI – in semplicità di cuore – stava davvero facendo e dicendo.
Oggi, infatti, rileggendo tutto con calma e alla luce di questi anni, dobbiamo chiederci: ma Benedetto XVI, quell’11 febbraio 2013, si è veramente dimesso dal papato, tornando quello che era prima, come Celestino V? Oppure il suo si può considerare un arretramento tattico per cause di forza maggiore?
Se di arretramento tattico si tratta, potrebbe non essere stato lui lo stratega: forse ha solo «seguito» una strada segnata dal Maestro, da Colui che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8) e con questa «disfatta» ottenne il trionfo totale, sul male e sulla morte.
Ma – umanamente parlando – se analizziamo i fatti col metro terreno, si tratterebbe, in questo caso, di una tattica che ricorda quella dei russi davanti all’invasione napoleonica.
Anche allora l’imperatore francese credette di aver conseguito una vittoria strepitosa, la più grande e promettente, senza neppure combattere. Si trovò spalancata davanti tutta l’immensità dell’impero dello zar: l’esercito russo, che si era ritirato consegnandogli pure Mosca (in fiamme), sembrò un esercito in rotta ormai scompaginato e in fuga. Napoleone si sentì il padrone incontrastato della Russia. Ma di lì a poco dovette scoprire a sue spese l’amara verità, e cioè che, in certi casi, la realtà è molto diversa dalle apparenze e la «ritirata» può essere una mossa formidabile che lascia sprofondare i vincitori per poi riprendersi la propria terra.
Così, per Benedetto XVI dobbiamo chiederci: ha davvero rinunciato del tutto al ministero petrino? Non è più papa?
La risposta a queste domande, oggi, guardando a questi sei anni, è sicuramente no.
Quel suo passo indietro è un ritorno a ciò che era prima o è solo «un passo di lato» in attesa di altri eventi?
La risposta a quest’altra domanda – come vedremo – è arrivata dal suo «portavoce» monsignor Georg Gänswein: non si tratta di un passo indietro, ma di «un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato».
Dal punto di vista soggettivo possiamo dunque affermare che la sua intenzione – che è decisiva per definire l’atto che ha compiuto – non era quella di non essere più papa.
Del resto, chiunque abbia appena approfondito i gesti, i fatti e le parole di Benedetto XVI sa che non c’è un solo atto o una sola dichiarazione di Benedetto XVI dove emerga o dove si affermi che egli non ha più nulla a che vedere con il papato.
Perfino nelle normali cronache giornalistiche ormai è un dato acquisito che Benedetto non abbia rinunciato completamente al papato. Ne cito una – a titolo di esempio – del corrispondente a Roma del «New York Times»: «But Benedict, the first pope to resign in almost 600 years, refused to fully renounce the papacy, taking the title “pope emeritus” and continuing to live in the Vatican».2
Fabrizio Grasso, uno studioso che ha analizzato la situazione dal punto di vista filosofico nel suo saggio La rinuncia, scrive: «Da un punto di vista prettamente logico è difficile sostenere che il papa abbia rinunciato totalmente e pienamente al suo ministero, e siamo legittimati a formulare questo pensiero proprio in ragione delle sue affermazioni».3
È evidente che – pur avendo fatto una rinuncia relativa al papato (ma di che tipo?) egli ha inteso rimanere ancora papa, sia pure in un modo enigmatico e in una forma inedita, che non è stata spiegata (almeno fino a una certa data).
Tanto è vero che nell’ultimo discorso ufficiale e pubblico del suo pontificato, parlando al popolo di Dio, nell’udienza del 27 febbraio 2013, a proposito del suo ministero disse: «Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo».4
Un’espressione dirompente perché se Benedetto XVI, con quell’atto, ha rinunciato solo «all’esercizio attivo del ministero», significa che non intendeva rinunciare al ministero in sé. Il fatto poi che affermi che il suo ministero petrino non è revocato è strabiliante: è un’espressione che avrebbe dovuto far sobbalzare tutti sulla sedia, soprattutto i cardinali.
Giusta o sbagliata che sia questa separazione di ministero attivo e ministero contemplativo, le parole di Benedetto XVI sono parole clamorose e avrebbero dovuto suscitare grande interesse perché portano alla luce l’intenzione del suo atto, che dunque non era affatto quella di una rinuncia al ministero petrino in quanto tale.
Alla luce di quel suo ultimo discorso si comprende perché Joseph Ratzinger è rimasto «nel recinto di Pietro», si firma tuttora Benedetto XVI, si definisce «papa emerito», ha le insegne araldiche papali e continua a vestirsi da papa.
Ci sono anche episodi simbolici che alimentano la persuasione che abbiamo a che fare con due papi. Saverio Gaeta, attento osservatore delle cose vaticane, ricorda e segnala, per esempio, quello che accadde il 6 maggio 2016 al giuramento delle nuove reclute delle Guardie svizzere che hanno il compito di «vigilare costantemente sulla sicurezza della sacra persona del Santo Padre e della sua residenza».
Si notarono due tamburi con lo stemma di papa Francesco e uno con lo stemma di Benedetto XVI, cosa che fa riflettere «soprattutto» spiega Gaeta «tenendo conto del fatto che sullo stemma di papa Bergoglio è assente il pallio, presente invece su quello di papa Ratzinger: un elemento decisamente non trascurabile nella simbologia vaticana. […] E, per di più, considerando che Francesco normalmente non ha, all’anulare della mano destra, il tradizionale “anello del pescatore” – forgiato in argento dorato su disegno dello scultore Enrico Manfrini e raffigurante san Pietro con le chiavi del Regno – bensì l’anello in argento, con incisa una croce, che porta da quando venne consacrato vescovo nel 1992. Mentre Benedetto XVI, dopo l’annullamento dell’anello pontificio con l’immagine di san Pietro pescatore di uomini, attualmente tiene al dito una copia dell’anello che Paolo VI donò nel 1965 ai padri del Concilio Vaticano II, raffigurante Cristo sormontato da una croce e affiancato da san Pietro e san Paolo».5
Si potrebbe aggiungere il fatto – documentato fotograficamente – che nelle cerimonie pubbliche a cui il papa emerito ha partecipato ci sono stati cardinali che si sono avvicinati a lui inchinandosi e baciando l’anello, cosa che avrebbero potuto fare solo con il papa.
Grasso, da analista imparziale, nota: «Oggi paiono evidenti soltanto due cose, almeno da un punto d’osservazione che sia preminentemente politico e non confessionale: la prima è che dall’elezione al soglio di Francesco ci siano de facto due papi; la seconda è che, in modo più o meno ambiguo, essi si riconoscano appunto una reciproca legittimità. Qui interessa registrare il dato storico-politico della situazione eccezionale e inedita della Chiesa cattolica».6
Del resto, lo stesso Jorge Bergoglio lo chiama «Santità» come risulta anche nella ritualità vaticana. E se «lo stesso papa [Francesco, NdA] è costretto ancora una volta nel 2014 a dichiarare ai giornalisti: “C’è un solo papa”» osserva Grasso «questo è il segno manifesto che il seme del dubbio ha già dato i suoi frutti tra i fedeli. […] Anche perché, a rigor di logica, se ci fosse un solo papa, in realtà, non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolinearlo e ribadirlo a più riprese».7
Quindi, la rinuncia di Benedetto XVI è quantomeno da ritenersi dubbia. E a questo punto c’è chi si chiede – attenzione – se per il diritto canonico (come vedremo) una rinuncia dubbia non sia di fatto una rinuncia nulla, con le conseguenze colossali che intuiamo.
La rinuncia dubbia, inoltre, è evidenziata pubblicamente anzitutto dalla definizione del suo attuale status: papa emerito.
Infatti, diversamente da tutti gli altri casi di rinuncia (nei quali chi era stato papa è tornato allo status precedente, monaco o vescovo, senza più alcun riferimento al ministero pontificio), Benedetto XVI – come si è detto – ha deciso di essere, dal 28 febbraio 2013, «papa emerito».
Un autorevole canonista come padre Gianfranco Ghirlanda, sulla «Civiltà Cattolica» (che esce con il placet vaticano), nei giorni immediatamente successivi all’11 febbraio 2013, aveva scritto: «È evidente che il Papa che si è dimesso non è più Papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di Vescovo emerito di Roma, come ogni altro Vescovo diocesano che cessa».8
In effetti, se Benedetto XVI si fosse dimesso da papa in modo da non esserlo più, avrebbe potuto chiamarsi «vescovo emerito di Roma» come suggerito da padre Ghirlanda.
Ma Benedetto XVI non aderì a questa «lettura» della sua scelta e fu il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, il 26 febbraio 2013, a comunicare che Benedetto XVI sarebbe rimasto appunto «papa emerito» o «romano pontefice emerito», conservando il titolo di «Sua Santità». Egli non avrebbe più indossato l’anello del pescatore e avrebbe vestito l...