Il rito ambrosiano
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Il rito ambrosiano

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Il rito ambrosiano

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«La differenza tra Roma e Milano, tra rito romano e rito ambrosiano, sta tutta qua. Il primo è liturgia, lentezza, procedure. Il secondo concretezza, rapidità, efficienza.» È la lunga esperienza da ministro e da governatore della regione Lombardia a portare Roberto Maroni a questa conclusione. Ed è attraverso esempi di scelte improntate al pragmatismo e alla risoluzione di problemi reali che queste pagine tracciano l'elogio di un approccio alla politica privo di steccati ideologici, che non si pone come obiettivo una mera occupazione degli spazi del potere, capace di andare contro le rendite di posizione e le beghe di palazzo. Una netta distinzione, quella tra rito romano e rito ambrosiano, che si è evoluta nel tempo e che appare oggi, se possibile, ancora più accentuata: offuscata dal chiacchiericcio social, persa in un battibecco nevrastenico, la politica smarrisce la sua missione: migliorare la vita delle comunità che rappresenta, mossa solo da una passione innata e inderogabile. Superficialità, frettolosità e imprudenza non devono mettere a rischio la capacità di dialogo. Roberto Maroni punta il dito su cosa non ha funzionato nel nostro Paese e in Europa e su cosa oggi, nei primi mesi di governo giallo-verde, manca all'azione dell'esecutivo. E non risparmia consigli e suggerimenti ai due partiti di maggioranza.

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Informazioni

1

L’aragosta nella nassa

Sono stato eletto per la prima volta in Parlamento, come deputato, nell’aprile del 1992, durante la crisi della Prima Repubblica. Nel febbraio di quello stesso anno, con l’ormai celebre arresto in flagrante di Mario Chiesa, cominciava l’inchiesta giudiziaria Mani Pulite, poi ribattezzata Tangentopoli. Con la forza di un ciclone, si sarebbe abbattuta sul vecchio e logoro sistema dei partiti, portandolo in poco tempo al collasso e ridisegnando l’intero panorama politico nazionale.
Alle elezioni di quell’anno la Lega Nord di Umberto Bossi ottenne un successo clamoroso, totalizzando l’8,2 per cento alla Camera e l’8,6 per cento al Senato, il che significava 80 parlamentari. Una piccola rivoluzione in un quadro istituzionale come quello italiano, rimasto sostanzialmente immutato dal secondo dopoguerra. Anche da noi, insomma, era crollato o stava per crollare un muro.
La prima volta che andai a Roma, una cosa mi sorprese più di tutte. Addentrandomi nei santuari della politica, lungo i corridoi di Palazzo Madama o del celebre Transatlantico di Montecitorio – soprannominato così perché soffitto e illuminazione seguono lo stile dei tipici arredi navali – mi resi conto che quei luoghi sarebbero potuti diventare la mia casa. Nel vero senso della parola. Avrei potuto vivere lì senza mai uscire, senza mai vedere la luce del sole. Un po’ come accade a Jim Carrey nel film The Truman Show. Entri in un mondo che non è quello vero. Solo che te ne rendi conto dopo. Ammesso che tu riesca ad accorgertene. C’erano la banca, le poste, il barbiere, il bar, il ristorante, servizi di lavanderia e sartoria se ti macchiavi la giacca o ti saltava un bottone. Volendo, negli uffici dei parlamentari potevi dormire su un comodo divano senza che nessuno dei commessi, alle dieci di sera come a mezzanotte, venisse a bussarti alla porta indicandoti l’orologio. Ecco, non c’era la piscina. Quella mancava.
Sarei potuto arrivare a Roma il martedì mattina per poi tornare a Milano il giovedì pomeriggio – perché questa era e rimane la vita del parlamentare – senza neanche avere bisogno di un albergo o di un appartamento in affitto. Alcuni leghisti fecero esattamente così. Come biasimarli? Se vieni da Sumirago o Agordo, diventa complicato resistere all’incantesimo. Ti lasci ammaliare dai palazzi lussuosi, dalle terrazze assolate, dai ritmi lenti e dilatati della Città Eterna, e in un batter d’occhio diventi «romano» nel senso salottiero del termine. Il rischio, per qualsiasi politico, è di frequentare quell’ambiente ed esserne risucchiato. Devi sviluppare i giusti anticorpi per resistere all’impatto. Altrimenti fai la fine delle aragoste, che una volta entrate nella nassa non riescono più a uscirne. Devi essere sufficientemente scaltro da tenerti aperta una «via di fuga». Al momento giusto, sarà quello a salvarti. Io ho fatto così. Non mi sono mai trasferito nella capitale, per esempio. La mia famiglia, i miei amici, il mio ambiente sono rimasti gli stessi di sempre. In ventun anni di carriera parlamentare avrò trascorso in tutto tre weekend a Roma. E quando è successo ero insieme alla mia famiglia. Munito dei giusti anticorpi, appunto. Se non fai così sei spacciato.
Nel caso poi tu abbia responsabilità di governo, rischi di combinare persino qualche danno, perché perdi di vista il contesto che ti sta attorno e non sei in grado di elaborare risposte politiche adeguate. Condizionato dall’apparato burocratico-ministeriale, dalle lobby e dal sottobosco clientelare, a Roma quanto mai nutrito e multiforme, finisci per costruirti una visione distorta della realtà. Se vuoi conoscere davvero il Nord e tutelare i suoi interessi, insomma, non devi vivere nella capitale.
A metterci in guardia da questi e altri pericoli con particolare fervore era stato naturalmente Umberto Bossi, diventato senatore nel 1987, prima di tutti noi «parvenu». La sua principale preoccupazione era quella di preservarci dalla contaminazione dell’ambiente romano, di cui aveva giù avuto qualche strano assaggio. Anzi, un aneddoto che in quegli anni di mio apprendistato citava spesso aveva tutti i crismi della leggenda, e ancora oggi non so dire se corrisponda o meno a verità: ci raccontava che, un giorno, nei pressi di Palazzo Madama, un’avvenente ragazza aveva finto di inciampargli addosso per attaccare bottone. Ecco, secondo Bossi quell’incontro non era stato casuale: di sicuro la sconosciuta era stata mandata da qualcuno, allo scopo di adescarlo e «introdurlo» in certe stanze del potere. In modo da omologarlo. Lui però se ne stava sempre in disparte, proprio perché sapeva che la vecchia nomenclatura avrebbe fatto di tutto per disinnescare la carica eversiva dei «nuovi barbari», i leghisti venuti dal Nord con velleità federaliste. Anzi, decisi a marciare sul Po e chiedere la secessione dall’Italia.
Sta di fatto che Bossi si convinse che la pattuglia dei neoparlamentari dovesse alloggiare tutta nello stesso residence e affidò a me l’incarico di trovare una sistemazione adatta. Peccato che l’unica disponibile fosse a trenta chilometri di distanza da Roma. Troppi. Allora il senatùr escogitò un altro rimedio. Per evitare comunque che cadessimo in tentazione, per due anni di fila, dal 1992 al 1994, tutti i martedì e mercoledì sera – a volte anche il giovedì – ci riuniva a cena sempre nello stesso locale, la Trattoria dell’Orso, e dopo l’ammazzacaffè teneva un comizio. Una specie di Scuola delle Frattocchie in salsa lombardoveneta. Anche quello, secondo lui, serviva a sviluppare i giusti anticorpi. La Lega rappresentava una forza politica nuova, aliena dalle logiche della Prima Repubblica, e avrebbe potuto sfaldarsi in tempi brevi. Come accaduto alla Łiga Veneta, per esempio, nonostante avesse cominciato la sua avventura dentro le istituzioni – da «madre di tutte le leghe», come è stato scritto – già nel 1979, correndo con la coalizione Federalismo Europa Autonomie in occasione delle elezioni per il primo Parlamento europeo, e presentandosi poi alle politiche del 1983. Nel caso dei nostri amici veneti, che in seguito sarebbero confluiti proprio nella Lega Nord di Bossi, il «virus romano» – reso potente e aggressivo anche dai dissidi e dalle debolezze interne al movimento – aveva avuto la meglio.
Io stesso, fin da quando ricoprii la carica di ministro dell’Interno, nel 1994, mi dovetti scontrare più volte con le manifestazioni più surreali del potere burocratico romano, che si inventava di tutto – ma è cambiato qualcosa, da allora? – pur di neutralizzare ogni tentativo di rinnovamento, spegnere ogni scintilla di cambiamento. Venivo da una carriera professionale in aziende multinazionali ed ero abituato a partecipare ai cosiddetti staff meeting. Così, poco dopo il mio insediamento al Viminale, decisi di organizzarne uno con i dirigenti degli uffici del ministero, insieme ai prefetti, i viceprefetti e i direttori, senza badare troppo alle gerarchie e al protocollo. Evidentemente non conoscevo ancora abbastanza le consuetudini della burocrazia romana, perché alcuni prefetti – lo venni a sapere dopo – chiesero un parere nientemeno che all’Avvocatura dello Stato! Forse volevano essere certi che la mia decisione di indire una riunione collegiale, in cui si mescolavano ruoli e competenze, non violasse qualche norma fondamentale dello Stato. Lo so, l’episodio ha del surreale, eppure è andata davvero così.
Sempre nel 1994, dopo le elezioni di marzo vinte a sorpresa dal Polo delle Libertà e del Buon Governo di Silvio Berlusconi, montò una polemica piuttosto accesa sulle rivendicazioni indipendentistiche della Lega che, si diceva, avrebbero portato uno scardinamento istituzionale, in particolare nel mio ministero, pronto a diventare un Viminale diviso a metà; si parlava infatti di Biminale: incentrato su forze di polizia, sicurezza e ordine pubblico da una parte, enti locali e competenze territoriali dall’altra. Bisogna ricordare qual era il clima politico: prima del 1993, anno della legge sull’elezione diretta dei sindaci, i primi cittadini venivano nominati dal consiglio comunale e in più dovevano giurare nelle mani del prefetto. Un prassi degna di uno Stato borbonico. Per questo la Lega, fin dalla sua nascita, aveva voluto affrontare con vigore il tema dell’autonomia e del federalismo, ipotizzando anche l’abolizione dei prefetti. Per sedare dunque un po’ gli animi e rassicurare il mio staff al ministero, avevo chiamato un ex collega che aveva lavorato in una mia stessa azienda, alle risorse umane. Confidavo che il suo approccio «ambrosiano» avrebbe sortito qualche effettivo positivo. E così fu. Altroché! Quasi nessuno si mostrò abituato a certe regole e consuetudini: i prefetti prendevano la parola al solo scopo di criticare chi era intervenuto prima di loro. Gli fu spiegato che il brainstorming non funzionava così e che, anzi, dovevano essere evitati i «pensieri killer». Ricordo come fosse ora l’espressione basita sui lori volti. Erano ammutoliti. Non parlò più nessuno. Pensieri killer? E che diavolo potevano essere? Avevano interpretato quelle parole con le poco ricettive antenne del «rito romano», fino a fraintenderle. La conclusione a cui erano giunti non li rassicurava: «Se parliamo, il ministro ci fa fuori».
Quindici anni dopo, a Roma, mi è capitato di imbattermi per caso in uno di quei prefetti. Sapete qual è la prima cosa che mi ha detto, venendomi incontro? «Caro ministro, ma se li ricorda i pensieri killer?»
C’era poi la questione del formalismo esasperato. Nel mio ufficio al Viminale, davanti alla scrivania – la stessa di Alcide De Gasperi – c’erano due poltrone. Al mattino assistevo a un vero e proprio cerimoniale: entrava il capo di gabinetto, si fermava in mezzo alle due poltrone e cominciava a relazionarmi su quanto accaduto la notte precedente. Restando in piedi. Andava avanti anche per trenta, quaranta minuti. Dopo qualche giorno, avendo escluso che qualche impedimento fisico gli impedisse di stare seduto, gli chiesi di accomodarsi. Non gli sembrò vero. Mi ringraziò come se gli avessi concesso una grazia. La cosa strana è che, nonostante ciò, i giorni successivi continuò a rimanere in piedi, aspettando un mio cenno. Alla fine gli feci capire che il mio «permesso» era da considerare valido per tutto l’anno.
Un’altra impressione, abbastanza netta, che ricavai dal mio «battesimo» romano fu che nei palazzi il ministro era considerato poco più che un intruso. Il che la dice lunga su cosa sia stata la Prima Repubblica, quando i governi, spesso «balneari», non duravano più di sedici mesi. Lo strapotere dei guardiani della pubblica amministrazione centrale si fondava su questa certezza: il ministro passa, noi restiamo.
Lo capivi da certi atteggiamenti, e nelle situazioni all’apparenza più innocue. Un giorno mi trovavo nel mio ufficio al Viminale insieme a Vincenzo Parisi, allora capo della polizia. Doveva fornirmi i dettagli di un’operazione antimafia in programma l’indomani, ma a un certo punto mi disse: «No, qua è meglio di no, ministro. Venga con me». E mi fece cenno di seguirlo al piano terra. «Per questioni di sicurezza» precisò lungo le scale. Giunti in una zona appartata dei giardini del Viminale mi sussurrò all’orecchio: «Sa, ministro, non si sa mai. Ci potrebbero intercettare». Ora, tenete conto che all’epoca non c’erano smartphone, droni, né simili diavolerie tecnologiche capaci di permettere a chiunque di violare, più o meno surrettiziamente, la nostra privacy. Ma, soprattutto, eravamo al Viminale! Quindi, a dir poco sorpreso, ribattei: «Ma com’è possibile che intercettino il ministro dell’Interno?».
«È possibile. È possibile» rispose Parisi. «Pensi che io faccio bonificare la mia stanza due volte la settimana.»
Poi, indicando le finestre del mio ufficio, rincarò la dose: «Li vede i doppi vetri? Li hanno messi perché altrimenti qualcuno potrebbe installare, nel palazzo che sta là in fondo, un microfono laser e captare dalle vibrazioni del vetro il contenuto delle sue conversazioni».
Naturalmente stava esagerando, ma compresi il messaggio: «Caro ministro, stia buono e tranquillo». Come volevasi dimostrare, il governo Berlusconi cadde dopo appena otto mesi, mettendo fine al mio incarico. Tutto era andato come previsto. Io passavo, loro rimanevano.
Per non parlare di quello che accadde nel 2001, il giorno in cui giurai come ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Ancora oggi, come prevede il protocollo, al termine della cerimonia ciascun ministro scende nel cortile del Quirinale, dove ad attenderlo c’è una vettura che lo conduce alla sede del dicastero di cui è appena diventato titolare. Peccato che non si presentò nessuno a prendermi. Per fortuna, Roberto Castelli, che aveva giurato come ministro della Giustizia, si era attardato a parlare con il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi: quando gli raccontai l’accaduto, prima si fece una risata, poi mi diede un passaggio sulla sua vettura.
In un altro paio di occasioni, nonostante al ministero sapessero che arrivavo sempre all’aeroporto di Roma-Fiumicino con un volo di linea da Milano, gli autisti mi hanno atteso invano – non ho mai saputo perché – nell’area delle partenze…
E anche quando azzeccavano l’area giusta, capitava che durante il tragitto verso la sede di via Vittorio Veneto l’autista di turno accendesse la radio e si mettesse tranquillamente a cantare.
Una volta avvertii il mio staff al ministero del Welfare che si sarebbe tenuta una riunione il giorno successivo, alle nove. Notai subito un’espressione strana sui loro volti. Nella stanza cadde un silenzio imbarazzato. Eppure non mi sembrava di aver detto nulla di inopportuno né di inconsueto. Poi mi sentii dire: «Ministro, non le sembra un po’ tardi, alle nove?».
Rimasi piacevolmente sorpreso dall’obiezione. «Però» mi dissi, «i dipendenti del ministero sono più milanesi di me.» La verità era un’altra. Dato che in quegli uffici era assolutamente normale cominciare a lavorare non prima delle dieci del mattino, avevano temuto che intendessi le nove di sera…
In realtà, gli anni in cui ho ricoperto la carica di ministro sono stati anche densi di impegni, di iniziative fruttuose che ho cercato di portare avanti con determinazione e coraggio, per infondere negli ambienti in cui mi trovavo a operare una nota di spirito ambrosiano, improntato al pragmatismo.
Nel 2002, per esempio, mi attivai per un progetto denominato CSR-SC (Corporate Social Responsibility-Social Commitment) sul tema della responsabilità sociale di impresa, accogliendo le raccomandazioni della Commissione europea, che aveva promosso varie iniziative sull’argomento attraverso la conferenza di Lisbona di due anni prima e il Libro verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, pubblicato nel 2001.
Consapevole però delle difficoltà burocratiche che avrei incontrato nella capitale, decisi di aprire a Milano, a due passi da piazza del Duomo, la sede degli uffici che se ne sarebbero occupati. Ma a questo punto occorre precisare una cosa. La molla che mi aveva fatto sorgere più di una curiosità sul tema della CSR – a dimostrazione del fatto che il rito ambrosiano non è qualcosa di selettivo, che punta a creare gelosie e divisioni sulla base di specificità territoriali o geografiche – era stata la vicenda imprenditoriale dell’azienda calabrese Callipo, che dal 1913 commercializza tonno mediterraneo. Nelle comunicazioni pubblicitarie, l’azienda rimarcava che il costo più elevato del loro tonno – se paragonato a quello dei concorrenti – era dovuto a una spiccata sensibilità ambientale e al rispetto per la vita dei delfini. Affidandosi a pescherecci che utilizzavano particolari tecniche, infatti, si riusciva a ridurre al minimo la mortalità dei simpatici mammiferi che popolano il nostro mare. A mio avviso era essenziale diffondere questa nuova cultura d’impresa, far capire che la reputazione di un’azienda conta tanto, al di là dei profitti e delle perdite, e che è sempre più rilevante il valore che la società le riconosce.
Nel novembre 2003, durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea affidata a Silvio Berlusconi (allora a capo della Commissione c’era Romano Prodi), organizzai anche la CSR Venice Conference, un evento alla Fondazione Cini a cui parteciparono tutti i ministri del Lavoro europei e – fatto decisamente insolito – ben tre commissari della UE: quello per l’Occupazione e gli Affari sociali, la greca Anna Diamantopoulou; quello per le Imprese e Società dell’informazione, il finlandese Erkki Liikanen; e quello per la Concorrenza, Mario Monti.
Occorre ricordare che su certe tematiche, inerenti le implicazioni di natura etica nella visione strategica d’impresa, i Paesi più all’avanguardia erano sempre stati, storicamente, Regno Unito, Svezia, Norvegia e Danimarca, quelli del Nord Europa insomma. In quegli anni l’Italia riuscì però a fare un bel salto di qualità, tant’è che poco prima della scadenza del mio mandato la Commissione europea organizzò a Londra un incontro con tutti i ministri del lavoro dell’Unione, al quale venni invitato con un preciso compito: illustrare le caratteristiche della best practice italiana. Al giorno d’oggi tutte le imprese redigono il bilancio sociale e prestano attenzione al tema della responsabilità sociale, ma vi posso assicurare che all’inizio degli anni Duemila non era affatto così.
Certo, nel corso della mia carriera romana di episodi surreali ne sono accaduti ancora. Uno dei più divertenti, da vero teatro dell’assurdo, risale al 2007, all’epoca della XV legislatura, quella del secondo governo Prodi. La fase politica era concitata: circolavano voci sulla cosiddetta compravendita dei parlamentari, messa in piedi allo scopo di far cadere l’esecutivo (cosa che avvenne nel gennaio 2008), e sulle prime indagini in corso da parte della magistratura. Poco tempo dopo ebbi dei contatti con un avvocato romano che aveva già avuto rapporti con la Lega, e si parlò di un suo possibile intervento come difensore, nel caso le inchieste avessero coinvolto membri del mio partito. In seguito, però, venni informato che tra le varie denunce presentate in procura che avevano messo in moto la macchina della giustizia c’era anche la sua! A Roma può accadere questo e altro. Capite adesso perché parlo di anticorpi, di incantesimi e di trappole?
Sarà anche per questo che ho compiuto un percorso inverso rispetto a quello di molti altri politici, che partono dal territorio e poi, in gran segreto, coltivano l’ambizione di una lunga carriera negli apparati del governo centrale. Come se fosse un obiettivo facile da raggiungere, peraltro. Se falliscono, si accontentano di far sapere agli elettori del loro collegio che sono diventati deputati. Che sono andati a Roma. Bene, e con questo? Io invece non mi sono mai accontentato. A trentanove anni ero ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi, ma nel 2012 ho deciso di tornare sul territorio. Di candidarmi a governatore della regione Lombardia. A molti potrà sembrare un dato di poco conto, una semplice annotazione biografica, ma c’è qualcosa di più in questa scelta.
Se punti al tornaconto personale o vuoi diventare una celebrità – può sembrare improprio, ma anche questo, oggi, è diventato p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. 1. L’aragosta nella nassa
  5. 2. La Padania non l’ha inventata Bossi
  6. 3. Aspettando l’autonomia
  7. 4. Lo statuto siciliano e il teorema dello schiaccianoci
  8. 5. Se Roma diventa gelosa di Milano: il caso EMA
  9. 6. La lentocrazia di Bruxelles
  10. 7. L’attenzione ai «primi esclusi»: il caso Banca Prossima
  11. 8. Un decreto Felicità per i Millennials
  12. 9. I cecchini della politica. Il rito ambrosiano in magistratura
  13. 10. La Lega, Salvini e il rito romano 4.0
  14. Conclusioni
  15. Copyright