Mettetevi in ascolto.
La sentite la voce? Quella dentro la vostra testa?
Smettete di leggere per un momento e assaporate il silenzio. Quanto dura la quiete prima che dentro la vostra mente rispunti una vocina insistente che comincia a elencare tutti gli impegni rimasti inevasi, a rammentarvi il tizio sgarbato incontrato questa mattina, a ripetervi che no, probabilmente non riuscirete a ottenere la promozione che sognavate?
I dettagli saranno diversi per ciascuno di noi, ma tutti condividiamo lo stesso, incessante chiacchiericcio mentale. La voce ci insinua la preoccupazione del futuro; ci sminuisce; ci rimprovera; discute, aggredisce, contesta, critica, confronta, ed è raro che si fermi a riprendere fiato. Giorno dopo giorno noi le prestiamo ascolto, e lei non la smette mai di pontificare.
Non c’è niente di strano in tutto questo, ma non si può dire che sia piacevole. E di certo non possiamo ignorare l’infelicità, il dolore e la sofferenza che ne derivano. Oppure sì?
Forse è il caso di dedicare un momento a capire meglio quella voce. Cominciamo dalle basi: chi è che parla? La voce è davvero la vostra? Ma in quel caso che bisogno avreste di un’altra voce per dirvi ciò che pensate già?
La voce non siete voi
Ecco una cosa che cambierà per sempre la vostra vita: riconoscere che la voce dentro la testa non siete voi!
Pensateci per un momento. È talmente ovvio che non serve nemmeno dimostrarlo. Ogni percezione presuppone un punto prospettico. Per vedere qualcosa dobbiamo essere all’esterno di essa. Senza il viaggio sulla Luna nessuno avrebbe mai visto il pianeta Terra. Ci è apparso com’è davvero solo grazie alle foto inviate dagli astronauti della missione Apollo. Non possiamo vedere i nostri occhi perché sono loro a vedere. La loro immagine allo specchio è soltanto un riflesso. Non sono gli occhi veri.
Per questo possiamo sentire una voce alla radio: perché la persona che parla non siamo noi. Allo stesso modo, se percepiamo una voce dentro la nostra testa, significa che non è la nostra.
Ancora non siete convinti? Allora riflettete su questo: cosa accade quando per qualche secondo smettete di pensare? Succede a tutti, di tanto in tanto. Ebbene, significa che in quei brevi istanti cessate di esistere? Che non siete più voi? Ma allora chi è che assapora il silenzio? Voi, naturalmente. La vostra identità vera. Quando al mattino aprite gli occhi, un attimo prima che si attivi il flusso dei pensieri e lo sguardo si punti sulla sveglia, chi è che sta guardando? Chi nota il sole dietro i vetri prima che la mente abbia il sopravvento e riprenda la radiocronaca della giornata? La stessa persona che nelle ore seguenti dovrà subire il cicaleccio incessante della voce dentro la testa. Il concetto si chiarirà del tutto quando daremo un nome a quella voce, ma per ora la verità è già lampante:
Molto importante!
La voce dentro la testa non siete voi!
È una verità molto semplice, ma rivoluzionerà il vostro approccio al pensiero. Logica e ragione sono oggetto di un’enorme sopravvalutazione nella nostra cultura. Siamo arrivati al punto da identificare la nostra stessa esistenza con il pensiero. Il famoso postulato di René Descartes, «Penso dunque sono», è ampiamente accettato dal cerebro-centrismo della cultura occidentale. Ma è davvero così?
Se credi di essere ciò che pensi, ti identifichi con i pensieri. In altre parole, se te ne viene in mente uno cattivo significa che tu sei malvagio. Mi sono spiegato? In realtà i pensieri cattivi non equivalgono affatto a una cattiva persona. Il cervello si limita a presentarli alla nostra considerazione: è il suo mestiere. A definirci davvero è la decisione di metterli in pratica. Non siamo obbligati a dare seguito a tutto ciò che ci passa per la testa.
Quando finalmente ci rendiamo conto che non siamo i nostri pensieri, avremo dissipato l’illusione più profonda in assoluto: l’Illusione del Pensiero. Tu non sei i tuoi pensieri, e non sei tenuto a eseguirne gli ordini. Al contrario, sono loro a essere al tuo servizio.
Ecco dunque cos’avrebbe dovuto scrivere Descartes:
Ricordate!
Sono dunque penso.
Ma se la voce non è la vostra, allora a chi appartiene? Nei cartoni animati viene rappresentata come un dibattito tra il diavoletto sulla spalla sinistra e un angioletto su quella destra, ciascuno dei quali cerca di convincere il personaggio a dargli retta, bisbigliandogli all’orecchio. Nel suo libro Un nuovo mondo, Eckhart Tolle chiama quella voce “il Pensatore”. Alcune religioni la vedono come il diavolo tentatore che ci induce nel peccato. Altri l’hanno chiamata “il Seduttore” o “il Compagno” – nomi diversi per indicare la stessa cosa: un’entità distinta da noi che cerca di convincerci a compiere azioni dalle quali altrimenti ci saremmo tenuti bene alla larga.1
Una mia amica l’ha chiamata “Becky”. Quando le ho chiesto perché, mi ha spiegato che era il nome della sua compagna più odiosa al liceo, quella che la metteva sempre nei guai.
Anche voi siete liberi di assegnarle un nome qualsiasi. La sua natura esatta è irrilevante ai fini della nostra conversazione. Conta sapere che esiste, riconoscere che non siete voi e comprenderne il comportamento. Nelle pagine seguenti la chiamerò “cervello” – perché di fatto è ciò che è.
Il cervello
Con oltre duecento miliardi di neuroni collegati da centinaia di trilioni di vie neurali, il cervello è di gran lunga la macchina più complessa del pianeta. Se immaginiamo ogni neurone come un piccolo computer, il vostro cervello ne conterrebbe un numero trenta volte superiore al totale dei calcolatori e dei dispositivi elettronici che compongono Internet.2 Il cervello si interfaccia con i vostri sensi e controlla le funzioni muscolari, i movimenti, le azioni e le reazioni. È capace di analisi complesse, operazioni matematiche e processi logici, ma è anche responsabile dell’incessante chiacchiericcio negativo che vi impedisce di raggiungere la felicità. È il nostro strumento più prezioso, ma purtroppo la confezione non comprendeva un manuale di istruzioni, perciò pochissimi di noi sanno usarlo come si deve.
Immaginate lo spreco di avere a disposizione la macchina da corsa più veloce del mondo e di limitarsi ad accendere l’autoradio; o di guastarla con percorsi fuoristrada inadatti alla sua struttura; o peggio ancora, di guidarla all’impazzata, rischiando di investire i passanti o di schiantarvi contro un palo.
Con il nostro cervello noi commettiamo tutti e tre questi errori. Non ne realizziamo appieno il vero potenziale, lo usiamo per compiti che non gli competono e permettiamo che i suoi pensieri sfuggano a ogni controllo – danneggiando la nostra vita e quella del prossimo. Possiamo fare di meglio, ma per riuscirci dobbiamo comprendere perché usiamo il cervello in questo modo.
Per capire come mai questa macchina complessa chiacchiera tanto, bisogna tornare a una fase precedente la parola, cioè la primissima infanzia. Un neonato non ha ancora imparato a parlare, perciò il suo cervello è silenzioso. Il bambino si limita a guardarsi intorno, osservando e interagendo con il mondo. Con il passare del tempo, nota che i genitori usano sempre gli stessi suoni associati a un oggetto – biberon, pappa, pannolino, bagnetto – e che lo lodano quando lui li ripete. È così, per imitazione, che tutti noi sviluppiamo la capacità di chiamare le cose per nome, anche quando siamo soli e non ci ascolta nessuno. Le parole si impongono come unico strumento di apprendimento e comunicazione. Per dare un senso agli eventi, le nostre osservazioni diventano una narrazione. Da piccoli lo facciamo a voce alta; poi, inibiti dall’imbarazzo sociale, la narrazione diventa interiore. Ma la voce non si è zittita: si è solo trasferita dentro la nostra testa.
Negli anni Trenta lo psicologo russo Lev Vygotsky notò che il discorso interiore è accompagnato da minuscoli movimenti muscolari nella laringe. Sulla base di questa osservazione, ipotizzò che il discorso mentale si originasse dall’interiorizzazione di quello a voce alta. Negli anni Novanta i neuroscienziati hanno confermato la sua tesi. Usando l’imaging funzionale hanno dimostrato che il discorso interiore “accende” le stesse aree cerebrali del parlato, per esempio la circonvoluzione frontale inferiore sinistra. Insomma, la voce dentro la vostra testa è proprio il cervello che parla, tranne che lo sentite solo voi.
Missione professionale
Dunque adesso sappiamo chi parla. Ma perché lo fa? Come qualsiasi altro organo, il cervello esiste per svolgere una funzione. Nel senso più elementare, il suo compito è garantire la sicurezza e la sopravvivenza del vostro corpo.
Parte di quel compito viene svolto senza che ve ne rendiate conto. Se la vostra visione periferica nota una macchina lanciata a tutta velocità verso di voi, il cervello ordina in automatico ai piedi di balzare all’indietro. Di tanto in tanto, se il rischio richiede più di un semplice riflesso, il cervello attiva il rilascio di adrenalina, preparandovi alla lotta o alla fuga. Tutte queste reazioni di sopravvivenza sono istintive: avvengono senza bisogno di una decisione consapevole da parte vostra. Straordinario, no?
Per proteggervi ancora meglio, il cervello aggiunge il pensiero: pianifica in anticipo e scruta il mondo circostante valutando la probabilità di un ostacolo, un pericolo, un predatore in agguato. Quando contemplate uno splendido panorama, la prima reazione del vostro cervello non è di rilassarsi e godersi la vista, ma di esaminarne ogni dettaglio dissonante e che di conseguenza potrebbe nascondere una minaccia. È anche condizionato a tenere conto dei rischi a lungo termine, perciò vi induce a fare scorte per l’inverno, a trovare un riparo per la prole, e a passare ossessivamente in rassegna tutto ciò che potrebbe andare storto.
Quando, agli albori della nostra storia, l’umanità viveva in un habitat ostile, entrambe queste forme di vigilanza del cervello – reazioni istantanee e pianificazione a lungo termine – erano di importanza vitale per la sopravvivenza sia dei singoli individui sia della specie. La paura ci teneva in vita, e il cervello era il padrone della sala controlli. Attivava i riflessi senza consultarvi, e continua a farlo anche oggi. È cablato così. Quando però si tratta di prendere decisioni che non riguardano un pericolo immediato, il cervello valuta la situazione in modo molto più dettagliato, usando due approcci diversi – uno rapido e intuitivo e l’altro lento e intenzionale.3 Il risultato è una sorta di dialogo:
Ehi, amico, ricordi quel tale Tommy, il tizio che è stato sbranato dalla tigre? Non vorrai che succeda anche noi, vero?
In effetti, preferirei di no.
Ottimo. Ora, la tigre che aveva aggredito Tommy era nascosta tra gli alberi, e l’ha colto alle spalle, perciò secondo me sarebbe meglio non addentrarci nella foresta. Prendiamo la strada lungo il fiume. Che ne dici?
Non sono d’accordo. Passando dalla foresta si fa prima, e lungo il fiume non troveremmo nulla da cacciare.
Può darsi, ma stasera Jessica ci aspetta nella sua grotta, e io preferirei vedere lei che una tigre. Perciò avanti, passiamo dal fiume.
Ah, già: Jessica... Okay, d’accordo.
Questo tipo di dialogo è il tentativo del cervello di trovare la soluzione migl...