La sfida impopulista
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La sfida impopulista

  1. 272 pagine
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La sfida impopulista

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"Questo populismo nazionalista mi fa paura. L'onda sovranista ingrossata dalla crisi e sospinta al governo di alcuni grandi Paesi è una minaccia per i valori del sistema liberale. Per difendersi, bisogna prima di tutto sottrarsi al contagio. Essere saldamente, fieramente impopulisti. Che è tutto il contrario dell'essere impopolari." Paolo Gentiloni ripercorre la sua stagione di governo - l'arrivo a Palazzo Chigi dopo la sconfitta del referendum, i rapporti con i leader mondiali, la crisi sociale e quella delle banche, la fine dell'epoca d'oro della globalizzazione e le tensioni in Europa, il terrorismo e l'emergenza migratoria. Le tappe decisive della sua esperienza da premier aiutano a spiegare cosa è cambiato nello scenario italiano degli ultimi anni. Capire come si è arrivati alle elezioni del 4 marzo e alla bruciante sconfitta del Partito democratico è la premessa per ripartire. Una riflessione non priva di autocritica e più che mai attuale nel panorama della sinistra, attraverso la quale Gentiloni tratteggia un manifesto per il rilancio democratico, per un'alleanza per l'alternativa capace di ricostruire la relazione naturale dei progressisti con il popolo. Capace di fermare il nazionalismo populista prima che sia troppo tardi. Capace di tornare a vincere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858695425
1

La tempesta populista nel mondo senza ordine

Contro l’euforia della crescita

Il volo di Stato ha appena lasciato l’aeroporto di Ciampino. Destinazione Zurigo, da dove raggiungerò in elicottero Davos per il World Economic Forum, l’incontro annuale sullo stato dell’economia mondiale. Poco dopo il decollo, l’aereo sobbalza, comincia a sbandare, i motori fanno un rumore d’inferno. «Dobbiamo riscendere immediatamente, presidente» mi dice il colonnello Ambrosino, come sempre al posto di comando dell’Airbus. Un gabbiano ha mandato fuori uso uno dei due motori. Nulla di grave, atterriamo, cambiamo aereo e ripartiamo. Eppure, dopo episodi del genere, una certa inquietudine resta. In fondo basta poco a far saltare l’ingranaggio di un motore collaudato e ben guidato. Con inquietudine non molto diversa lascerò due giorni dopo le nevi di Davos. In fondo basta poco…
Partecipo per la quarta o quinta volta al summit annuale nel cantone dei Grigioni. Questo è il mio esordio da premier. In questo gennaio del 2018, politici, banchieri e capitani d’industria hanno ragionevoli motivi per essere ottimisti. Dieci anni sono passati dalle prime avvisaglie di quella crisi che tra il 2008 e il 2011 ha messo a dura prova il capitalismo globale, e finalmente i mercati finanziari trasmettono una rassicurante impressione di stabilità. E la crescita, a ritmi più o meno sostenuti, pervade tutte le aree economiche importanti del pianeta.
È vero, lo shock della grande crisi innescata dai mutui subprime è ancora recente. «Chi l’avrebbe detto» ha scritto Walter Tocci «che il turbocapitalismo si sarebbe inceppato sul vecchio sogno piccoloborghese della casetta in proprietà.» Ma la paura sembra ormai alle spalle: il Fondo monetario internazionale prevede un tasso di crescita globale del 3,9 per cento sia nel 2018 sia nel 2019. L’ottimismo è tuttavia trattenuto, ancor prima del rallentamento che arriverà in autunno. Pesano almeno due incognite molto serie. La prima sociale, la seconda geopolitica.
È interessante che ad accendere i riflettori sulla prima sia stato a Davos uno dei finanzieri più ricchi e potenti del mondo. Larry Fink, ideatore e Ceo di BlackRock, il numero uno tra i fondi di investimento. Buon amico dell’Italia, Larry ha organizzato una cena con i capi delle principali aziende di cui il suo fondo è azionista e mi ha invitato come ospite d’onore. Messaggio implicito: anche in Italia, dove più pesante e durevole è stato l’impatto della crisi, le cose vanno ormai per il verso giusto. In realtà la cena, oltre che per parlare del nostro Paese (e del Canada, quando ci raggiunge per il caffè il premier Trudeau), è un’occasione voluta da Fink per richiamare le grandi aziende di cui è azionista di riferimento a un maggior impegno sulla responsabilità sociale. Cosa che ha già fatto pochi giorni prima indirizzando a tutti una lettera intitolata A Sense of Purpose, «Avere uno scopo». In poche ma brutali parole, Fink ha ricordato ai capi azienda presenti alla cena di Davos, alcuni tra i più noti e potenti del mondo, che la crescita rischia di essere effimera se non si fonda sulla riduzione delle diseguaglianze e la difesa dell’ambiente. Prima o poi, se non ci poniamo il problema, la crisi sociale e la minaccia ambientale rischiano di travolgerci e di dar voce al populismo antindustriale nelle sue diverse varianti. Per questo BlackRock, spiega Fink, orienterà i propri investimenti anche in base alla maggiore o minore consapevolezza di questa dimensione. Può sorprendere ascoltare un miliardario che gestisce un fondo da 7000 miliardi parlare di beni comuni, ma Fink può permetterselo. E pochi possono permettersi di ignorare i suoi amichevoli ammonimenti.
L’altra minaccia sull’ingranaggio di questa nuova congiuntura favorevole è la totale imprevedibilità del quadro geopolitico. E per quanto positivi possano apparire i numeri dell’economia, nei mercati governati dagli algoritmi le tensioni politiche e quelle sui dazi possono avere ripercussioni negative immediate.
Tutta Davos è dunque in attesa di Donald Trump, al suo debutto al World Economic Forum. Un’attesa preoccupata. Non tanto per l’andamento dell’economia americana, quanto per l’imprevedibilità del presidente sui rapporti con gli alleati, con la Cina, con le regole del commercio internazionale. Pare dunque quasi un intenzionale fuoco di sbarramento preventivo quello dispiegato alla vigilia dell’intervento di Trump; un pomeriggio tutto europeo caratterizzato da tre interventi in plenaria, uno dopo l’altro: il mio, quello di Angela Merkel e quello di Emmanuel Macron. Francia, Germania e Italia si pronunciano all’unisono con un no forte e chiaro al protezionismo, confermando ancora una volta che quando la lingua è comune la voce dell’Europa sa farsi sentire, eccome. Anche se forse non al punto da fugare le preoccupazioni consegnate al club di Davos il giorno dopo dal nuovo presidente americano.
Nel mio discorso, rivendico i risultati migliori delle attese per l’economia italiana, ma riconosco che l’esito delle elezioni che si terranno tra quaranta giorni è imprevedibile: «I sistemi politici europei sono attraversati da cambiamenti senza precedenti: emergono nuovi partiti, il populismo radicale si è fatto endemico, la frammentazione politica caratterizza il vecchio continente». I populisti, aggiungo, «danno spesso risposte sbagliate alle domande giuste. Dobbiamo combattere le scorciatoie demagogiche, ma senza ignorare le cause profonde di un disagio diffuso». Il mio intervento prosegue con argomenti tutt’altro che rassicuranti per l’ottimismo globalista: «La crescita economica non sta riducendo le diseguaglianze; e l’innovazione digitale mette a rischio quantità e qualità del lavoro. Non possiamo accettare l’idea di un mondo diviso tra un’élite cosmopolita e digitale (“cavalieri senza cavalli”, secondo la definizione di Ulrich Beck) e un esercito di lavoratori locali, precari e sottopagati. Le nostre radici» concludo «non sono sinonimo di protezionismo. Le radici e la storia sono gli attrezzi da usare per far funzionare dialogo e cooperazione internazionale».
L’impressione finale, mentre l’elicottero militare svizzero mi riporta a Zurigo, è che per l’economia mondiale non ci sia molto da festeggiare. Certo, il sereno è tornato sui bilanci statali, sulle banche e sulle Borse. Ma l’ascesa delle classi medie in Asia e America Latina sta provocando risentimento e disagio tra i lavoratori precari o mal pagati d’Occidente. L’uomo di Davos appare sempre più lontano al forgotten man, che lo guarda in cagnesco. Su questo disagio crescono insicurezze e paure. E alla fine tutto porta a mettere in discussione i valori di libertà, la società aperta, il commercio internazionale. Insomma, l’Occidente è talmente in buona salute da non accorgersi dei mali che lo mettono in serio pericolo. E in fondo per bloccare il motore basta un gabbiano.
La misura di questo pericolo sarà resa evidente dal G7 in Canada. Appena un anno dopo il vertice di Taormina del maggio 2017, che con tutti i suoi limiti era riuscito a confermare una certa coesione tra le maggiori economie del mondo libero, in Québec si è consumata, anche simbolicamente, la rottura tra i quattro grandi Paesi europei, il Giappone e il Canada da un lato, e gli Stati Uniti dall’altro. E naturalmente sarebbe assai semplicistico raffigurare quanto è successo come «isolamento degli Stati Uniti», anche se è vero che tra i sei resiste una comunanza di linguaggi e obiettivi e che il quadro ci consegna una fortissima domanda di Europa.
Il fatto è che, se è difficile immaginare un Occidente senza la leadership americana, è peraltro vero che, per la prima volta da decenni, alla Casa Bianca c’è un inquilino che a questa leadership non sembra interessato, Donald Trump.

I conti con Trump

«Ma quanti barili di petrolio al giorno estraete dalla Libia?» mi domanda a bruciapelo Donald Trump. Siamo a inizio febbraio ed è la nostra prima conversazione telefonica dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Il presidente fa sempre molte domande. «Ma come fate, Paolo, ad avere un surplus commerciale di 31 miliardi negli scambi con gli Stati Uniti? Cosa vendete agli americani, a parte le Ferrari?» mi chiederà durante la sessione del G7 dedicata al commercio internazionale, nel corso della quale scopre che tra i «cattivi», quelli con cui il commercio Usa è in deficit, oltre alla Germania, c’è anche l’Italia.
Quella telefonata, durata circa mezz’ora, ovviamente senza interprete, mi fornisce una prima impressione del personaggio che gli incontri successivi non smentiranno. Il presidente è una persona espansiva, che vuole farsi apprezzare e stabilisce un rapporto diretto con i propri interlocutori. E, come molti americani, ha un debole per l’Italia. Trump chiede di sapere. Per curiosità, certo. Ma quasi sempre le sue domande, sull’economia, l’immigrazione, la Chiesa cattolica, la Ferrari, non sono buttate lì a caso. Sono l’antifona di qualche obiettivo negoziale o lo spunto per esprimere la sua opinione. Che arriva senza troppi giri di parole.
Già in quella prima conversazione, oltre alla simpatia per l’Italia e all’arrivederci al G7 di Taormina, il presidente esprime due messaggi forti e chiari. La sua ostilità alle politiche di accoglienza dei migranti, destinate, a suo dire, a cambiare l’equilibrio etnico e religioso dell’Italia. E la riluttanza a farsi coinvolgere attivamente nella crisi libica, vista come un caos originato dagli errori di una persona, la sua avversaria Hillary Clinton.
Ho incontrato il presidente americano tre o quattro volte durante vertici multilaterali. E ho avuto con lui due faccia a faccia, uno a Washington e l’altro a Roma.
Alla Casa Bianca lo incontro il 21 aprile 2017. Ci fermiamo per un tête-à-tête nello Studio ovale: i primi due o tre minuti, come sempre, sono ripresi dalle telecamere. Trump molto caloroso e io attento a stringergli forte la mano, visto che pochi giorni prima si sono sprecati i commenti sulla mancata stretta durante un analogo incontro con Angela Merkel. È quando si resta a quattr’occhi che si affrontano i temi più delicati. Ne approfitto per insistere ancora sulla necessità – Hillary o non Hillary – di un coinvolgimento americano sul dossier libico. E per raccomandare al presidente prudenza, anche nei rapporti con i media, sul tema migratorio. Tema sensibilissimo per noi italiani. Trump ribadisce il suo rifiuto quasi ideologico all’immigrazione, «Cambierà faccia all’Italia», associandovi però espressioni di compassione per i migranti e i loro viaggi disperati nel Mediterraneo. E poi mi chiede se ci saranno altre Brexit, se anche l’Italia finirà per uscire dall’euro. E un parere circa una sua prossima visita in Vaticano.
Al faccia a faccia segue, come di consueto, l’incontro con le delegazioni nella Cabinet Room. Ricordo la presenza accanto al presidente del segretario di Stato Rex Tillerson, del consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. McMaster, del capo stratega della Casa Bianca Steve Bannon e, in disparte, del genero Jared Kushner. Dopo la mia illustrazione dell’agenda del futuro G7, Trump prima esprime il suo attaccamento «ai diciotto milioni di italiani negli Stati Uniti: votano quasi tutti per me», poi torna a sollecitare l’incremento delle nostre spese militari. Tillerson viene ripetutamente invitato a intervenire dal presidente, soprattutto sulla Libia. Ma già allora tra i due la chimica non appare perfetta. Bannon entra in scena solo per informare Trump dell’attentato terroristico appena avvenuto a Parigi, sugli Champs Élysées. Una notizia che sembra servita su un piatto d’argento per insistere sui rischi dell’immigrazione e per chiedere quanto siano forti da noi in Europa i populisti. In Francia «she will win», è il suo pronostico per le imminenti presidenziali. Nello spostamento verso la Briefing Room per la conferenza stampa attraversiamo piccoli ambienti di lavoro. Televisori accesi, Trump si ferma a guardare su Fox News gli sviluppi dell’attentato a Parigi. Durante la conferenza stampa annuncia il suo prossimo incontro con il papa a Roma.
Ci rivediamo il mese dopo a Villa Taverna, alla vigilia del G7 di Taormina. È la giornata dell’incontro con papa Francesco e Trump mi pare soddisfatto. Altrettanto lo è Melania, cui il papa ha ricordato un piatto tipico della sua Slovenia. Nel colloquio romano insiste di nuovo sulle spese militari e sui costi della Nato, argomenti che riprenderà, dopo Taormina, in una fugace apparizione a Bruxelles al quartier generale dell’Alleanza atlantica. Il contesto non è dei più propizi: l’inaugurazione della nuova sede del quartier generale. In realtà un’inaugurazione fittizia, visto che ci sono voluti mesi prima di poter usare quell’edificio che il costruttore Trump critica aspramente facendone quasi un simbolo degli sprechi che l’America è costretta a finanziare. Anche per questo, forse, il suo discorso di Bruxelles è particolarmente aggressivo. Discorso pubblico, davanti a schiere di giornalisti. A porte chiuse, di fronte ai leader di governo dell’Alleanza, il presidente usa toni diversi.
Ma intanto il messaggio è arrivato, forte e chiaro: le vecchie certezze della solidarietà transatlantica sono ormai tramontate. Il nuovo rapporto è di natura negoziale. Se l’Alleanza è nata sulla condivisione di valori, ora è il tempo del matrimonio d’interessi. Questa nuova percezione provoca conseguenze enormi – e difficilmente prevedibili – nel quadro geopolitico globale. Si è molto discusso a proposito della presidenza Obama: i dubbi sull’efficacia della cosiddetta leadership from behind; lo sconcerto per la linea rossa sulla Siria prima tracciata e poi abbandonata. Ma la guida transatlantica non è mai stata in discussione. E nonostante le criticità, tutti ne hanno condiviso i successi, di cui è stato paziente tessitore per conto di Obama John Kerry: da Cuba al nucleare iraniano. Ora, nel tempo di «America First», nessuno pensa di rinunciare al legame transatlantico. Ma nessuno si illude che guidare la Nato e rappresentare il mondo libero siano le priorità della Casa Bianca.

Al mondo libero serve un vertice

Il G7 di Taormina è stato un successo. Se le cose vanno nel verso giusto, come è stato in occasione di uno dei principali eventi internazionali dell’anno, varrebbe la pena di riconoscerlo. Noi italiani lo facciamo di solito con una certa fatica, ma il tempo e i raffronti con altre scadenze simili aiuteranno anche noi a prenderne atto.
Un successo per le meraviglie di Taormina e l’immagine della Sicilia. Un successo organizzativo dell’Italia, basti pensare alle difficoltà del G20 di Amburgo, appena poche settimane dopo, dove ai dissidi interni durante il vertice si sommano i violenti scontri per le vie della città. Un successo politico-diplomatico, perché si è riusciti a dare una cornice comune a spinte divaricanti tra i grandi dell’Occidente che con il passare dei mesi, purtroppo, avrebbero finito per prevalere.
I miei collaboratori – gli sherpa italiani – sanno che per settimane la mia principale preoccupazione per Taormina è stata di carattere… meteorologico. «L’esito del G7 dipenderà dalle nostre capacità diplomatiche in quanto padroni di casa, dal dispositivo organizzativo e di sicurezza. E dal meteo» andavo ripetendo al responsabile organizzativo Alessandro Modiano e ai due ambasciatori, Raffaele Trombetta e Mariangela Zappia, che tessevano la rete diplomatica tra i sette Paesi.
La sera del 25 maggio, quando atterro in elicottero con mia moglie so che almeno uno dei tre obiettivi è già stato raggiunto: a Taormina avremo bel tempo. Quanto ai lavori preparatori, al momento del mio insediamento al governo erano già in ritardo, e per questo avevo chiesto a Maria Elena Boschi e al vicesegretario di Palazzo Chigi Rizzo Nervo di seguire il più possibile da vicino la loro realizzazione. Ma ancora una volta abbiamo compiuto il solito miracolo italiano. Taormina è splendida e pronta, il dispositivo di sicurezza professionale ed efficiente. Resta l’incognita dell’esordio nel grande vertice internazionale per quattro dei sette partecipanti: il padrone di casa, la premier britannica Theresa May, il presidente francese Macron. E naturalmente Donald Trump.
Si discute spesso, da anni, dell’utilità del G7. Io ne sono un convinto sostenitore, dopo aver partecipato a due incontri dei sette ministri degli Esteri e a uno dei leader. È infatti uno dei pochi formati multilaterali in cui lo scambio diretto e ravvicinato è possibile. Nulla è scontato in partenza, nessuno tra i presenti può limitarsi a leggere speaking points preparati per l’occasione. Nel corso dei G7 succedono delle cose. Pur con tutti i limiti di queste occasioni, naturalmente.
Continua a pesare l’assenza della Russia, decisa nel 2014 dopo l’annessione della Crimea e mai recuperata. Ne ho parlato a Sochi con Vladimir Putin qualche settimana prima di Taormina, ricavandone l’impressione che il leader russo non sia così disperato per l’esclusione da quel club: ha trovato altri modi per affermare la propria forza geopolitica. Pesa soprattutto il fatto che i sette grandi rappresentano ormai solo il 10 per cento della popolazione e poco meno di un terzo dell’economia globale. Ma resta che qui si danno appuntamento i principali leader del mondo libero, e che dai loro rapporti dipende almeno in parte il ruolo che questi Paesi possono svolgere in un contesto planetario assai complicato.
Il summit prende il via in forma spettacolare. Ricevo tutti i leader sulla pedana del Teatro Antico, la foto di famiglia dei sette con Juncker e Tusk farà il giro del mondo. Lasciamo il teatro e nel tragitto verso l’Hotel San Domenico, dove è prevista la prima sessione di lavoro, tutto quanto pianificato dalla sicurezza e dal cerimoniale viene immediatamente vanificato. Colpa di Macron, che per primo evita la golf car e si avvia a piedi, seguito da tutti gli altri (a eccezione di Trump, la cui sicurezza è ovviamente meno flessibile). La passeggiata per il corso di Taormina, meno di un chilometro, non sarà forse il massimo per gli standard di sicurezza, ma si rivela una scelta vincente. Camminiamo uno a fianco all’altro salutati dai commercianti e dai residenti (pochi i turisti sopravvissuti nei tre giorni del G7).
È dunque un’atmosfera rilassata quella in cui introduco la prima sessione di lavoro, cercando innanzitutto di esprimere una risposta del G7 al terribile attentato avvenuto appena quattro giorni prima al concerto di Ariana Grande a Manchester, che ha provocato ventidue morti. Propongo di firmare subito una dichiarazione comune contro il terrorismo, una dichiarazione che per la prima volta impegna i giganti del web a collaborare finalmente in modo attivo per individuare ed eliminare in tempo reale i contenuti di propaganda jihadista. Un impegno non scontato per un presidente americano. Trump si consulta ripetutamente con il suo consigliere economico Gary Cohn (l’ex numero due di Goldman Sachs, che si dimetterà l’anno dopo non condividendo la linea sui dazi del presidente), propone qualche modifica di linguaggio e alla fine accetta di firmare. La dichiarazione viene annunciata immediatamente, sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La sfida impopulista
  4. Prologo
  5. Introduzione
  6. 1. La tempesta populista nel mondo senza ordine
  7. 2. La bussola dell’interesse nazionale
  8. 3. Credere nell’Unione Europea, per cambiarla
  9. 4. A Palazzo Chigi. Fatica, esperienza, serietà
  10. 5. La ripresa economica, tanta fatica per nulla?
  11. 6. Fare di tutto per salvare il risparmio. E subito
  12. 7. I flussi migratori si possono regolare
  13. 8. Un’Italia da avere in testa e nel cuore
  14. 9. Noi vivremo del lavoro?
  15. 10. Fare i conti con il nuovo paesaggio sociale
  16. 11. All’ultima curva, la legge elettorale
  17. 12. Finale di partita
  18. Conclusione. Per un’alternativa popolare
  19. Copyright