Non voglio che mi ammazzino stanotte, pensò Lorenzo Falcó.
Non in questo modo.
Eppure, stava per succedere. I passi alle sue spalle risuonavano sempre più vicini e rapidi. Avevano indubbiamente fretta di raggiungerlo. Dal belvedere di Santa Luzia aveva sentito alle sue spalle il grido del contatto che cadeva nell’oscurità e l’impatto del corpo che si schiantava al suolo quindici o venti metri più in basso, in un vicolo buio del quartiere dell’Alfama. E adesso venivano a prendere lui, per completare il lavoro. Per finire in bellezza.
La pendenza della strada lo aiutava a camminare più in fretta, ma facilitava anche i suoi inseguitori. Erano due uomini, li aveva intravisti là sopra mentre il contatto – ne aveva appena scorto il viso, solo dei baffi sotto la falda di un cappello, nella penombra di un lampione lontano – gli passava la busta, com’era previsto, un momento prima di avvertire la presenza degli estranei e lanciare un’esclamazione di allarme. Si erano allontanati subito: il contatto lungo la balaustra del belvedere – perciò lo avevano acciuffato per primo – e Falcó giù per la stradina, con le vaghe luci di Lisbona che si estendevano più in là, ai piedi del quartiere sulla collina, e il nastro ampio e nero del Tago che si fondeva con la notte, in lontananza, sotto un cielo senza luna e cosparso di stelle.
C’era una via di fuga sulla sinistra, nell’ombra. Ricordava il luogo perché lo aveva studiato la mattina, alla luce del giorno, in previsione dell’appuntamento notturno. Era un antico e pratico principio professionale: prima di mettersi a rischio in un posto, decidere da dove andarsene, nel caso fosse stato necessario farlo in fretta. Falcó ricordava il nome dipinto su un azulejo: Calçadinha da Figueira. Era un vicolo stretto, molto in pendenza, al quale si accedeva da una scala di pietra a due rampe e con una ringhiera di ferro. Così, svoltando bruscamente a sinistra, scese in fretta i gradini, guidandosi con una mano alla ringhiera per non inciampare nel buio. In fondo c’era un arco, da dove il vicolo proseguiva sulla destra ad angolo retto. Un arco angusto, dal quale poteva passare soltanto una persona alla volta.
I passi lo incalzavano, sempre più vicini. Risuonavano già sui primi gradini delle scale. Non morirò stanotte, si ripeté Falcó. Ho progetti più attraenti: donne, sigarette, ristoranti. Cose del genere. Perciò, già che c’erano, meglio che morissero altri. Allora si tolse il cappello, infilò le dita tra la fascia di pelle interna e il feltro e tirò fuori la lametta Gillette che teneva nascosta lì. Mentre percorreva l’ultimo tratto verso l’arco, tolse l’involucro di carta e, prendendo il fazzoletto dal taschino della giacca, ci si protesse le dita per stringere la lama tra il pollice e l’indice. Raggiunto l’arco, svoltò a destra e rimase lì immobile, appiccicato al muro, ascoltando il rumore di passi sempre più vicini, sopra il mormorio del battito accelerato del cuore che gli pulsava forte nei timpani.
Quando la prima sagoma comparve nell’arco, Falcó le sbarrò velocemente il passo e lanciò un fendente rapido alla gola da destra a sinistra. Sul volto in ombra apparve un breve luccichio chiaro – i denti di una bocca aperta per lo stupore – e, immediatamente dopo un’esclamazione di sorpresa che si spezzò a metà in un gorgoglio agonico, come se l’aria nei polmoni dell’uomo ferito fuggisse dalla trachea aperta in un velo fluido e liquido. Crollò subito a terra, come un corpo sfibrato che perde all’improvviso ogni consistenza. Un fagotto di traverso sul selciato, sotto l’arco. E l’ombra che era dietro di lui si fermò di botto, mantenendo le distanze.
«Forza, figlio di puttana» sbruffoneggiò Falcó. «Non lasciarmi così, con la voglia.»
I passi, ora più frettolosi, risuonarono allontanandosi su per il vicolo e le scale finché non si sentirono più. Allora Falcó respirò a fondo, ancora immobile, permettendo al battito del cuore nei timpani di ritrovare la normalità. Poi, quando cessò il leggero tremito che gli agitava le dita, gettò la lametta e il fazzoletto, dopo essersi ripulito dal liquido viscoso, ancora tiepido, che gli macchiava la mano.
Si accovacciò per perquisire il corpo a terra, ormai silenzioso: un coltello in un fodero legato alla cintura, sigarette, fiammiferi, spiccioli. Nella tasca interna della giacca c’era un portafoglio, e Falcó lo prese. Poi si rialzò, guardandosi intorno. Le strade erano deserte, e quasi tutte le case vicine, buie. In diverse di esse s’intravedevano spiragli di luce, mentre da qualche luogo remoto giungeva musica radiofonica con una voce femminile che cantava un fado. Un cane abbaiò in lontananza. Nel cielo nero c’erano ancora tante stelle che Lisbona sembrava coperta da uno sciame di lucciole immobili.
Per un istante pensò di andare a cercare il corpo del contatto ai piedi del parapetto dal quale era caduto, o lo avevano gettato, ma scartò subito l’idea. Tanto va la gatta al lardo, avvertiva il vecchio detto. Che il contatto fosse vivo o no dopo quei quindici o venti metri dal belvedere al suolo – la cosa più probabile era che fosse morto – non erano più affari di Falcó. Di lui sapeva soltanto che era portoghese, che lavorava per i nazionali1 per convinzione o per soldi, e che gli aveva consegnato informazioni che lui doveva trasmettere al quartier generale franchista a Salamanca. Perciò, meglio non complicarsi ulteriormente la vita. Qualcuno, un passante casuale, un vicino, una guardia notturna, sarebbe potuto comparire da quelle parti; o forse il secondo inseguitore, dopo averci pensato meglio, avrebbe potuto decidere di tornare sui propri passi e di vendicare il collega. Non si poteva mai essere sicuri in quel genere di cose. Quello di Lorenzo Falcó era un mestiere fatto di imprevisti, un gioco di scacchi di rischi e probabilità. D’altra parte, la busta, oggetto dell’incontro notturno, ce l’aveva già in tasca. Non gli interessava nient’altro del portoghese, soldato anonimo, senza nemmeno un volto – quei baffi intravisti sotto il cappello –, di una guerra sporca che si combatteva sui campi di battaglia spagnoli e nelle rispettive retrovie, e anche in luoghi stranieri oscuri e sordidi come quello. Giocate sporche, tipiche di uno sporco mestiere. Spie senza volto come l’agente repubblicano sgozzato sotto l’arco, o il tizio che, prudente, se l’era squagliata per timore di fare la fine del collega. Pedoni usa e getta su una scacchiera dove erano altri a giocare.
Scese fino a rua de São Pedro voltandosi di tanto in tanto per controllare se qualcuno lo seguiva. Una pulsazione di dolore gli martellava la tempia destra, senza dubbio a causa della tensione, e istintivamente si palpò la tasca della giacca in cui teneva il tubetto di cafiaspirine; quello era il suo punto debole, le emicranie che a volte lo lasciavano intontito, incapace di muoversi, boccheggiante come un pesce fuor d’acqua. Aveva bisogno di un sorso di qualcosa per prenderne una, ma per questo avrebbe dovuto aspettare. La cosa principale era allontanarsi da lì. E di corsa.
Cercò strade ampie per evitare una possibile imboscata. Alla fine si lasciò l’Alfama alle spalle e fermandosi sotto la torbida luce di un lampione in rua dos Bacalhoeiros, nella bruma che l’umidità faceva salire dal vicino fiume, tirò fuori la busta dalla tasca, strappandola per vedere cosa conteneva. Lo sorprese scoprire che si trattava del volantino, piegato in due, di una compagnia di navigazione, la Norddeutscher Lloyd Bremen. Soltanto questo. Un foglio A5 stampato su una sola facciata. Era illustrato con un transatlantico, e sotto c’era una lista di navi e itinerari per l’America e il Mediterraneo orientale. Rimise il volantino nella busta, lo ripose in tasca e controllò il portafoglio del morto. C’erano una certa somma di denaro in scudi portoghesi, che intascò senza riguardi, un abbonamento ai tram di Lisbona, la fotografia di una donna giovane e due documenti d’identità con il volto dello stesso tizio – bruno, magro, capelli ricci e radi – ma con nomi diversi: uno dei documenti, senza dubbio falso, era portoghese, a nome di João Nunes, impiegato di commercio. L’altro era spagnolo, con l’intestazione del Servicio de Información Militar e il timbro della Repubblica, emesso a nome di Juan Ortiz Hidalgo. S’infilò quest’ultimo in tasca. Poi gettò il portafoglio in un bidone della spazzatura e si allontanò camminando in fretta, anche se non tanto da richiamare l’attenzione.
Spingendo la porta del Martinho da Arcada – un piccolo caffè ristorante dalle pareti semplici e bianche, sotto i portici di praça do Comércio – Falcó si rese conto di avere il polsino destro della camicia macchiato di sangue. Entrò, e mentre salutava il cameriere vide Brita Moura seduta di spalle, in fondo, all’ultimo tavolo accanto alla finestra. Andò direttamente nella toilette, si chiuse dentro, aprì il rubinetto e con un sorso d’acqua nel cavo della mano mandò giù due cafiaspirine. Poi si tolse la giacca e il gemello d’oro che teneva insieme la manica della camicia e il polsino inamidato, e lavò quest’ultimo finché il sangue non sparì quasi del tutto. Lo asciugò con l’asciugamano del lavabo e se lo rimise. Sul polso sinistro, il Patek Philippe segnava undici minuti di ritardo. Era un ritardo ragionevole, e la donna in attesa non sarebbe stata troppo furiosa. O non per troppo tempo.
Si tastò la tasca della giacca per verificare che la busta fosse ancora lì. Poi si esaminò con cura allo specchio, cercando qualche altra traccia del recente scontro, ma vide soltanto l’immagine di un uomo attraente di trentasette anni, con indosso un vestito scuro dal taglio impeccabile, i capelli neri pettinati all’indietro, lucidi di brillantina. Ci si passò una mano per lisciarli ancora un po’ e poi si sistemò il nodo della cravatta. Con quest’ultimo gesto, il suo volto indurito da anni di tensione e di pericolo sembrò rilassarsi, lasciando spazio a un’espressione ironica e cortese: quella del bell’uomo che arriva tardi a un appuntamento facendosi scudo di un sorriso, sicuro di farsi perdonare.
«Per Dio» protestò la donna. «Sono qui ad aspettarti da mezz’ora, sola come una scema.»
«Mi spiace» rispose Falcó. «Mi ha trattenuto un affare urgente.»
«Che razza di ora per ...