La collaborazione è spesso indispensabile e di solito risulta ardua. E più ne abbiamo bisogno, più troviamo difficile riuscirvi.
«Non potrei mai lavorare con quelli!»
Nel novembre del 2015 lavoravo come facilitatore nel primo workshop di un gruppo di trentatré leader nazionali canadesi. Si erano riuniti per cercare soluzioni al problema interno più cruciale del Paese: il devastante legame tra insicurezza, illegalità e disuguaglianze. All’incontro, tutti erano preoccupati per la situazione e decisi a intervenire in qualche modo, convinti che insieme sarebbero riusciti a ottenere di più che non agendo da soli. Il progetto mi sembrava importante ed ero determinato a svolgere un buon lavoro.
I partecipanti provenivano da diversi ambiti della società: erano politici, attivisti per i diritti umani, generali dell’esercito, imprenditori, capi religiosi, sindacalisti, intellettuali, giornalisti. Tra loro vi erano differenze ideologiche profonde e molti erano rivali politici, professionali o a livello personale. Per la maggior parte non concordavano tra loro, né si apprezzavano o si fidavano gli uni degli altri. Nella nazione e nel gruppo la diffidenza era alle stelle e tutti erano arroccati sulla difensiva.
Per risolvere il loro problema più importante queste persone dovevano cooperare, ma non avevano la certezza di poterci riuscire.
Pensai che il workshop stesse procedendo bene. I partecipanti discutevano di punti di vista ed esperienze diversissime, tutti insieme o in piccoli gruppi, durante i pasti, le passeggiate o le escursioni fuori dall’albergo per incontrare gli abitanti del posto e visionare progetti. Cautamente stavano iniziando a conoscersi e a sperare che, uniti, sarebbero riusciti a fare la differenza.
Poi, l’ultima mattina, il team che aveva organizzato il progetto (undici persone del luogo, i miei colleghi e io) iniziò a discutere su alcuni punti che non stavano andando bene: aspetti metodologici confusi, intoppi logistici, errori di comunicazione. Alcuni degli organizzatori ritenevano che stessi lavorando male, e il giorno successivo scrissero le loro critiche in una nota che fecero circolare tra loro.
Uno dei membri della squadra me la inoltrò. Mi sentii offeso e turbato: gli organizzatori stavano mettendo in dubbio la mia competenza e professionalità dietro le mie spalle. Temetti che i risultati e il guadagno che mi aspettavo dal progetto fossero a rischio. Credetti di dovermi difendere, perciò inviai una prima mail, poi anche una seconda e una terza, spiegando perché, secondo il mio punto di vista di esperto, nel corso del workshop avevo agito in maniera corretta. Sapevo di aver commesso alcuni errori, ma temevo che se li avessi ammessi in quel momento mi sarei esposto a un pericolo maggiore. Ero sicuro di essere complessivamente nel giusto, mentre loro si sbagliavano: loro erano i cattivi, io l’eroe perseguitato.
Con il procedere della settimana e delle conversazioni telefoniche con diversi organizzatori, il mio atteggiamento s’irrigidì. Mi sembrava che le persone che mi stavano dando la colpa dei nostri problemi stessero irragionevolmente tradendo gli sforzi della squadra, oltre che me. Contrattaccai incolpando loro. Divenni sempre più diffidente, sospettoso, assertivo e inflessibile. Volevo anche proteggermi, perciò fui sempre più cauto e circospetto. Decisi che non concordavo con quegli organizzatori, non mi piacevano e non mi fidavo di loro, e con loro non volevo più dedicarmi a questa faccenda né collaborare. Quello che volevo davvero era che sparissero.
La sindrome del nemico
Questo breve, aspro scontro mi permise di sperimentare sulla mia pelle una sfida su cui stavo riflettendo da parecchio. Per compiere progressi con questo progetto, che per me era importante, dovevo collaborare con un gruppo di individui che, però, comprendeva persone con cui non concordavo, che non mi piacevano e di cui non mi fidavo. Avevo finito per considerarle dei nemici. Questa polarizzazione all’interno del team mise a rischio il lavoro che stavamo compiendo. Inoltre, in questa piccola interazione interna al nostro gruppo riproducemmo una dinamica cruciale nel più ampio sistema nazionale – sfiducia, frammentazione, rottura – per contrastare la quale era stato messo in piedi il progetto.
In questo banale incidente misi in atto un comportamento comune, ovvero una sindrome che chiamo “del nemico”: pensare e comportarsi come se le persone con cui abbiamo a che fare siano nostri nemici, la causa dei nostri problemi, individui che ci stanno facendo del male. In contesti diversi usiamo parole diverse, con connotazioni lievemente differenti, per indicare persone da cui vogliamo distinguerci: altri, rivali, contendenti, oppositori, avversari, nemici. Utilizziamo spesso queste descrizioni, in contesti ordinari o straordinari, a volte in modo ragionato e a volte con noncuranza, perfino abitualmente. Ma i nemici sono sempre gli altri: quelli là. È un po’ come se dicessimo: «Io sono risoluto, tu sei ostinato, lui è un idiota cocciuto» che, nella sindrome del nemico, equivale a: «Io la vedo diversamente, tu ti sbagli, lei è il nemico».
Questi “altri” sono variamente etichettati come nazionalisti o cosmopoliti, immigrati o razzisti, sostenitori delle multinazionali o ambientalisti, terroristi o infedeli.
Le elezioni presidenziali statunitensi del 2016 traboccarono di sindrome del nemico. A proposito della campagna elettorale di Donald Trump, il comico Aasif Mandvi spiegò come questa abbia creato un circolo vizioso che si autoalimenta:
La sindrome del nemico ci circonda. Domina i media ogni giorno: la gente identifica gli altri non solo come oppositori da sconfiggere, bensì come nemici da distruggere.
Fondamentalmente, Trump sta sfruttando la mentalità nazionale più ansiosa, razzista, xenofoba e radicata nella paura, ma la sta anche giustificando in altre parti del mondo. Che si tratti dell’Isis o di Trump, in pratica quello che stanno dicendo è: «Avete motivo di avere paura, avete motivo di sentirvi privati dei diritti, avete motivo di sentirvi furiosi, e il motivo sono quelle persone là».2
La sindrome del nemico, la diffamazione e la demonizzazione permeano le discussioni politiche di tutto il mondo. E non mettiamo in scena tale sindrome solo in politica, ma anche al lavoro e a casa.
Io stesso lo faccio continuamente. Mi racconto che gli altri stanno facendo un disastro: colleghi, clienti, fornitori, vicini, familiari. So che non è una narrazione completa o giusta di ciò che sta succedendo e che raccontarmi queste favole non è un modo produttivo di impiegare il mio tempo. So anche che parecchie altre persone fanno lo stesso, per esempio nelle terapie di coppia, che molti iniziano pensando: «I problemi che abbiamo sono colpa del mio partner, e spero che questa terapia gli faccia capire che deve cambiare». Ma considerare gli altri nemici ci seduce perché è rassicurante: noi siamo a posto e non siamo responsabili per le difficoltà che stiamo affrontando.
È un modo per comprendere e affrontare le reali differenze. Semplifica in bianco e nero la realtà straordinariamente complessa e multisfaccettata in cui viviamo, permettendoci così di spiegare quello che sta succedendo e mettere in campo le energie per affrontarlo. Ma, come disse il giornalista H.L. Mencken: «Esiste sempre una soluzione facile per tutti i problemi umani: precisa, plausibile e sbagliata».3
L’attribuzione agli altri del ruolo di nemici, che ci sembra emozionante e soddisfacente, perfino legittima ed eroica, di solito offusca anziché chiarire la realtà delle sfide che affrontiamo.
La sindrome del nemico amplifica i conflitti, riduce il margine per il problem solving e la creatività e, con sogni irrealizzabili di vittorie decisive, ci distrae dal reale lavoro che dobbiamo fare.
La sfida fondamentale della collaborazione
La sindrome del nemico che ho studiato e messo in scena si trova al centro della sfida della collaborazione.
In politica, sul lavoro e a casa cooperare è necessario e difficile. Vogliamo ottenere un risultato importante per noi, ma per riuscirci abbiamo bisogno di lavorare con persone che hanno una visione delle cose diversa dalla nostra. E più il problema è cruciale e differenti i punti di vista, più la collaborazione si fa necessaria e difficile.
La sfida fondamentale della collaborazione è cristallizzata nella tensione tra le due definizioni fornite dal dizionario: collaborare significa semplicemente «lavorare insieme a», ma anche «cooperare a tradimento con il nemico».4 Tale parola evoca dunque sia una storia di progresso generoso e aperto a tutti, come un team di lavoro energico e creativo («Dobbiamo tutti collaborare!»), sia una storia di infamia decadente e amorale, come in Francia durante la Seconda guerra mondiale («Morte ai collaborazionisti!»).
La sfida della collaborazione consiste nel fatto che, per poter compiere progressi, dobbiamo lavorare con altre persone, comprese quelle con cui non concordiamo e che non ci piacciono o di cui non ci fidiamo, mentre per evitare i tradimenti non dobbiamo lavorare con loro.
Questa sfida sta diventando più critica. Le persone sono più libere e individualiste e assai più variegate, si fanno sentire di più e mostrano meno deferenza. Le identità e le affiliazioni sono più fluide. Grazie alle nuove tecnologie a disposizione, le consolidate gerarchie politiche, organizzative, sociali e familiari si stanno sgretolando, mentre crescono instabilità, incertezza, complessità e ambiguità.
Con frequenza via via maggiore, dunque, non siamo in grado di agire in maniera unilaterale o di interagire solo con colleghi e amici. Sempre più spesso abbiamo bisogno di lavorare con gli altri, anche con oppositori e nemici, e farlo ci risulta sempre più arduo.
L’aspetto meraviglioso di tale sfida della collaborazione è che nasce dall’indebolirsi di autoritarismo e sottomissione. Quello terribile è che, se falliremo, daremo origine a frammentazioni, polarizzazioni e violenze sempre crescenti.
Dobbiamo perciò trovare un modo più efficace di cooperare.
Ci troviamo faccia a faccia con la sfida della collaborazione quando diciamo «Non potrei mai lavorare con quelli!». Che cosa intendiamo con questa banale esclamazione? Forse che non vogliamo lavorare con quelle persone, o che non ne siamo in grado, o che non ne abbiamo il bisogno. In situazioni di questo tipo, nelle quali riteniamo che non sia auspicabile, possibile o necessario lavorare con qualcuno, allora ovviamente proveremo a lavorare senza o contro di loro, a evitarli o batterli.
Ma che cosa facciamo quando pensiamo che sia necessario lavorare con quelle persone? Forse temiamo di non poterle evitare o battere, o che possiedano abilità o risorse che ci servono, oppure crediamo che sarebbe sbagliato escluderle. In ogni caso circostanze del genere ci mettono di fronte alla fondamentale sfida della collaborazione: consideriamo i loro valori e comportamenti diversi dai nostri; riteniamo che siano sbagliati o cattivi; proviamo rabbia o frustrazione. Pur sapendo di dover cooperare con loro, vorremmo che così non fosse. Temiamo di dover scendere a compromessi o tradire ciò che crediamo sia giusto, ciò che è più importante per noi. In queste situazioni, pur capendo di dover collaborare, non vediamo come farlo in maniera proficua.
Dunque, come possiamo riuscire a lavorare con persone con cui non concordiamo, che non ci piacciono o di cui non ci fidiamo?