Non morirò stanotte
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Non morirò stanotte

  1. 512 pagine
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Non morirò stanotte

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Dopo l'avventura raccontata in Il combattente, a distanza di due anni Karim Franceschi torna in Rojava, nella Siria devastata dalla guerra civile. Rimanere in Italia non era possibile: i volti dei suoi compagni caduti martiri sono un fantasma che non lo abbandona mai, come non lo abbandona l'ideale di libertà e democrazia del popolo curdo, che lo ha spinto a partire per il fronte una prima e una seconda volta nel giro di pochi mesi. La sua storia in quei luoghi lontani non è ancora finita, l'obiettivo non ancora raggiunto. Deve tornare a essere heval Marcello, deve partire di nuovo, e con un sogno nel cuore più grande di lui: gli ci vorrà quasi un anno per realizzarlo, e il prezzo sarà altissimo. Con l'esperienza militare di chi è stato in prima linea a Kobane, torna a combattere al fianco dell'Ypg (Unità di protezione del popolo), con l'obiettivo, questa volta, di formare un suo battaglione, un suo tabur, composto di compagni internazionalisti, partiti dai più disparati Paesi occidentali, con cui condividere gli stessi princìpi di libertà e far cadere Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Di questa sua impressionante avventura Karim Franceschi ci racconta con passione e consapevolezza: è la storia di una guerra, ma non solo. È la storia di un viaggio, prima di tutto umano, di una recluta che diventa comandante, di compagni che diventano fratelli. Di un gruppo di ragazzi apparentemente folli ma uniti come un pugno. È la storia di operazioni d'assalto portate avanti nelle notti nere del deserto, di scontri, di imboscate, di addii che non vogliono mai essere detti e vittorie troppo spesso solo a metà. Sullo sfondo il paesaggio lunare di città in ginocchio, il deserto, il caldo di un'estate che non perdona e un insostenibile odore di fumo e sangue.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858694435
Argomento
Storia
1

Una promessa

Kobane, sto tornando, penso non appena atterro all’aeroporto di Sulaymaniyya.
In fondo lo sapevo, è stato inevitabile, c’è una forza irresistibile che mi lega a questa città.
Rientrare a Senigallia dopo il mio primo tour in Siria è stato riabbracciare Leila, stringerla al petto, sentire come sempre che è lei la donna della mia vita. Sono rimasto a casa sei mesi, ma ogni giorno che passava capivo un po’ di più che una parte di me non se ne era mai andata via dalla Siria. Trascorrevo ogni notte a guardare sullo schermo del cellulare le immagini dei miei compagni caduti martiri, sahiden, a controllare ansioso le loro foto postate sul sito dell’Ypg, le Unità di protezione del popolo. La guerra a Kobane era finita, ma quella in Rojava era appena cominciata, e io spesso, troppo spesso, trasalivo di fronte a un volto familiare: un compagno con cui avevo parlato solo per pochi minuti e che poi non avevo più rivisto nel caos dell’assedio, un altro con cui avevo passato nottate al gelo dell’inverno a fare infiniti turni di guardia nelle trincee di terra bagnata che avevamo scavato sotto la pioggia, in territorio nemico.
Venivo colpito da una fitta al cuore ogni maledetta volta: una delle foto che più mi ha sconvolto è stata quella di heval Hawer, ora sahid Hawer, da compagno a martire in una manciata di secondi. Se chiudevo gli occhi mi si materializzava davanti quel suo sorriso imbarazzato, timido, lo vedevo rigirarsi nervosamente il cerchietto di metallo che portava all’anulare, raccontarmi della sua fidanzata che lo aspettava in Turchia, in un campo profughi. Dovevano sposarsi, non si sono rivisti più. Sono pochissimi i lieto fine alle mille storie di cui è disseminata la tragedia della guerra civile siriana.
Un altro viso che non avrei mai voluto vedere su quel sito è stato quello di heval Hardem, il leggendario Musa the Sniper, iraniano, l’unico che sia mai stato paragonato al cecchino dell’Armata rossa Vassili Zaitsev, l’eroe di Stalingrado. A Kobane era stato il mio comandante. Prima di andarmene ero stato chiamato al fronte come cecchino, ma avevo il visto scaduto e mi avevano imposto di andare via, perché altrimenti in Turchia mi avrebbero arrestato. È andato Hardem al posto mio, ed è morto il giorno dopo. Aveva solo ventotto anni. Avrei potuto essere io? Da tempo ho imparato a non farmi certe domande.
A maggio, poi, ho visto una foto che mi ha lasciato addosso un’amarezza e un dolore che non se ne sono più andati. Heval Galhat era un volontario americano arrivato a Kobane un mese dopo la liberazione. Lo avevo incontrato nel nuovo campo d’addestramento che avevano aperto in città, quando il mio amico Mordem mi aveva portato a fare un giro di saluti. Mordem era diventato addestratore, non poteva più combattere perché aveva perso parte dell’uso del braccio destro, crivellato dai proiettili di un mitragliatore nemico. Facevamo parte della stessa unità, ma la notte in cui era rimasto ferito il nostro comandante di battaglione aveva deciso di lasciarmi indietro. L’unità fu massacrata, heval Mordem ne uscì vivo per miracolo. Sul nuovo campo d’addestramento, quel giorno mi aveva fatto sfilare come una celebrità tra le giovani reclute curde. Mi sembravano tutti dei ragazzini, era la nuova generazione di partigiani Ypg: la precedente era stata spazzata via in quei mesi d’assedio.
«Voglio presentarti qualcuno» mi aveva detto Mordem prima del nostro giro. «Si chiama Galhat, è americano, non parla curdo ma ha già deciso di diventare quadro.» Nell’Ypg ci sono due tipi di soldati, i quadri e gli heremì. I primi sono completamente votati alla causa, e devono fare un giuramento: non si possono sposare e devono tagliare completamente i contatti con la famiglia d’origine. Gli heremì invece sono volontari, alternano turni al fronte a periodi di riposo a casa, e rimangono in contatto con le proprie famiglie anche quando sono lontani. Mi incuriosiva la motivazione che stava dietro alla decisione di questo americano, e non vedevo l’ora di guardarlo negli occhi.
«Eccolo» mi aveva detto Mordem indicandomi un ragazzo dalla chioma dorata, raccolta con un elastico sulla nuca. Dimostrava molti meno anni dei trentasette che aveva.
Quindi sei tu l’americano? gli avevo chiesto in inglese senza nemmeno presentarmi.
Lui aveva spalancato gli occhi per la sorpresa, perché fino a quel momento mi aveva sentito parlare con Mordem in curdo. Poi era scoppiato a ridere e mi aveva detto: «Tu devi essere Marcello! Ma allora è vero quello che dicono tutti, che stai imparando a parlare il curdo come se fossi uno di loro!».
Dopo un po’ che chiacchieravamo mi sono accorto che i suoi occhi continuavano a posarsi sul fucile che portavo in spalla. Vuoi vederlo? gli avevo chiesto.
Lui aveva subito rivolto uno sguardo bruciante di curiosità a Mordem, che con un sorriso aveva annuito. Mentre lo osservavo impugnare con mano ferma il Mosin-Nagant che gli avevo passato, pensavo che quel ragazzo mi piaceva ogni minuto di più.
Il giorno successivo ero partito per il fronte, con quella stessa arma, per la prima volta come cecchino. Un mese più tardi ero tornato a trovare Mordem e invece avevo incontrato soltanto Galhat. Aveva finito l’addestramento da oltre due settimane, e fremeva dalla voglia di combattere. Mordem aveva lo stesso desiderio: una notte, dopo aver intercettato una chiamata di richiesta di rinforzi, aveva raggruppato la banda di ragazzini che stava addestrando, l’aveva armata e portata al fronte; il tutto all’insaputa del comandante dell’Accademia degli internazionali e dello stesso Galhat, che si era svegliato nel cuore della notte insieme alle reclute che erano state lasciate lì.
Quando lo avevo incontrato mi aveva raccontato questa storia furioso: «Ti rendi conto, Marcello? Si è portato dietro dei quattordicenni e io sono dovuto rimanere qui. E non è la loro età a preoccuparmi, è che sono dei pazzi! Lo sai che questo mese hanno tolto a tutti il percussore del Kalashnikov? Colpa di uno di loro: ha pensato che sarebbe stato divertente sparare sopra la testa di un addestratore. L’ha mancato per un pelo, quasi lo ammazzava… quello si è cagato addosso». Aveva sospirato in preda alla frustrazione. «Adesso i turni di guardia li facciamo senza proiettili e senza percussore. Se attaccano l’Accademia facciamo prima a usare i Kalashnikov come mazze da baseball» aveva concluso avvilito.
Mordem nel frattempo era stato arrestato per insubordinazione, ma prima era riuscito con quella sua stramba missione a soccorrere il battaglione in difficoltà.
A me Galhat sembrava davvero un bel tipo, e avevo convinto i miei vecchi addestratori a reclutarlo con me nell’unità dei cecchini dove molti compagni curdi parlavano un buon inglese. Loro mi avevano dato l’ok, ma a una condizione: dovevo portare con me anche un altro volontario, uno spagnolo arrivato solo qualche giorno prima e che non parlava né curdo né inglese, neppure una parola. Era un ex militare di leva, anarchico, e loro non sapevano che farsene in Accademia, dove nessuno lo capiva. Così avevo fatto entrare entrambi nell’unità dei tiratori scelti di Musa the Sniper. Una settimana dopo però io lasciavo Kobane: una delle decisioni più difficili che abbia mai preso. Con Galhat ci eravamo scambiati le giacche e una promessa: «Io ti rivedo». La mia giacca si adattava meglio all’estate che stava per scoppiare in Rojava, e io ero felice di cedergliela.
Erano passati quasi due mesi da allora, quando dalla mia camera a Senigallia avevo visto tra le foto degli sahiden quella di Galhat.
Indossava la mia giacca, in quell’immagine. Era caduto a cinquanta chilometri dalla città di Kobane, sul nuovo fronte che cercava di respingere l’Isis oltre l’Eufrate. Aveva abbattuto tre jihadisti in quella battaglia, poi un cecchino ceceno l’aveva centrato in pieno petto, uccidendolo quasi sul colpo. Dai compagni ero venuto a sapere qualche giorno dopo che lo spagnolo invece era sopravvissuto, anche se era rimasto gravemente ferito, travolto dall’esplosione di un ordigno. È stato per mesi relegato in un letto d’ospedale.
Sono di nuovo qui, a Kobane, perché c’è ancora bisogno di me. Questa volta so bene cosa mi aspetta, e so bene cosa mi serve. Niente più calza della Befana, ma giacca mimetica invernale in Gore-Tex, guanti imbottiti impermeabili, pantaloni termici, calzini di lana norvegese, pannelli solari portatili, un Kindle con un po’ di libri salvati e un’altra giacca. Quella di Galhat.
Atterro all’aeroporto di Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno. Quando ho mandato ai compagni dell’Ypg il mio biglietto siamo rimasti d’accordo che sarebbero venuti a prendermi, ma ovviamente non c’è nessuno. Niente che non mi aspettassi, in fondo. Passo una notte in un posto chiamato safe house, e a me sembra semplicemente un luogo dove gli internazionali attendono di attraversare il confine. Con le altre persone che stanno qui stiamo aspettando un contrabbandiere che sia disponibile a farci entrare in Siria travestiti da peshmerga del Kdp, il Partito democratico del Kurdistan, le milizie nazionaliste curde che fanno capo a Barzani. Controllano le frontiere tra Iraq e Rojava, dove di fatto hanno imposto un embargo, vedendo nel progetto confederalista dei propri cugini curdi in Siria un rivale pericoloso da isolare piuttosto che un alleato da sostenere.
Restiamo qui quasi una settimana, abbiamo un visto e possiamo girare liberamente, ma dopo aver rischiato l’arresto a causa di un tassista troppo zelante che ha pensato bene di scaricarmi per sicurezza a un posto di blocco della polizia militare irachena, ho capito che non è aria.
«Tu ti siedi qui davanti con me.»
Il nostro uomo è finalmente arrivato, di una decina di volontari in attesa nella safe house partiamo solo in tre: io, heval Hamed, un americano al suo secondo tour come me, e Rodi, anche lui americano ma alla sua prima esperienza.
«Dobbiamo arrivare a Dohuk. Saranno più o meno sette ore di viaggio. Se ci fermano ricordatevi di dire che siete dei turisti diretti a Dohuk» aggiunge l’autista, e non mette in moto finché tutti e tre non gli facciamo cenno di avere capito.
E proprio al primo check-point fuori da Sulaymaniyya, un militare curdo ci ferma, infila la testa nel veicolo e si rivolge a me: «Tu sei arabo?».
No, sono italiano, rispondo, poi mi rendo conto del mio errore. Mi ha fatto la domanda in arabo, non avrei dovuto ribattere. Troppo tardi.
«Tu sei arabo! Scendi, scendete tutti e fatemi vedere i vostri bagagli.»
L’autista apre il cofano, mentre il suo viso si fa cadaverico, credo che stia già immaginando la cella che lo aspetta. Io ho solo i miei vestiti mimetici, ma i due americani si sono portati dietro un arsenale: mirini tattici, visori notturni, coltelli e fondine per pistole. E due semiautomatiche, che Rodi ha riposto sul fondo dello zaino evitando di dirlo all’autista per risparmiargli qualche preoccupazione.
Ora sul viso del soldato si stampa un sorriso crudele, già pensa di sapere cosa troverà in queste borse. «Allora, qual è la tua?» mi chiede. Cerco di temporeggiare, ma non so davvero cosa inventarmi.
Prima che apra bocca però fortunatamente si mette in mezzo Hamed. «Senti un po’» grida al militare, che colto di sorpresa inarca il suo folto monociglio «siamo turisti, e stiamo andando a Dohuk in vacanza. Non ti serve sapere altro.»
Lo sguardo del peshmerga passa dal volto di Hamed alla massa di zaini incastrati a forza nel piccolo bagagliaio aperto. «Anche tu sei arabo?» chiede il militare, che ormai vede arabi jihadisti ovunque.
A quel punto Hamed prende il passaporto tra indice e pollice e glielo sventola davanti, quasi a sbatterglielo in faccia. «Ameriki!» dice. «Sono americano!»
Il curdo incassa, poi si ricorda di me e decide di tornare alla preda facile. «Ok, ok. Ma lui è arabo! Il tuo zaino, forza!»
Quando penso che sia davvero finita, Hamed cala l’asso: «Conosci Suleiman Ali?».
Il curdo spalanca gli occhi e con un sorriso improvvisamente riverente risponde cauto: «Sì, cioè, so chi è ovviamente. Tu lo conosci?».
«Certo, è un mio amico. Se vuoi lo chiamo e te lo passo.»
«Ma no, non c’è assolutamente bisogno di disturbarlo. E poi non ce l’ho con te» fa l’altro con voce tremante. «Voglio solo controllare il suo zaino» conclude indicandomi.
«Allora proprio non vuoi capire, anche lui è mio amico, in questa macchina sono tutti miei amici. E i miei amici sono amici di Suleiman Ali. Stiamo andando in vacanza tutti insieme. È chiaro adesso?»
È davvero amore puro quello che provo per lui in questo momento.
Il peshmerga ci fa cenno di andare, e non ce lo facciamo ripetere due volte.
«Hamed, ma chi è questo Suleiman?» gli chiede l’autista non appena abbiamo ricoperto di polvere il curdo dietro di noi.
Hamed indica un grattacielo, il più alto di Sulaymaniyya, visibile anche a chilometri di distanza.
«Ma come fai a conoscere qualcuno che abita lì dentro?» chiede sbigottito l’autista.
Io però sorrido, perché ho già capito cosa risponderà l’americano. «E chi lo conosce?» replica lui con un sorrisetto.
Di fronte a noi si ferma un taxi, ma l’uomo che scende non è un tassista.
Siamo a Dohuk, in un parcheggio, e vediamo arrivare il secondo contrabbandiere, quello che ci dovrebbe portare oltreconfine in Siria. Indossa la divisa militare dei peshmerga, il nostro autista scende dalla macchina e si avvicina a lui. Stretta di mano, un bacio per guancia, sembra che si conoscano.
Spostiamo i bagagli nel taxi, poi l’uomo in uniforme ci accompagna dentro un bazar: la via è piena di bancarelle e botteghe di articoli militari. Ci dice di fermarci di fronte all’unica saracinesca ancora chiusa, mentre si mette a chiacchierare con i mercanti che incontra. Sembra che lo conoscano tutti. Il proprietario del negozio arriva un’ora dopo e ci trova seduti in un angolo. Saluta il peshmerga e ci invita a entrare. «Ora vediamo di trovare un’uniforme della taglia giusta per ognuno di voi» spiega accompagnandoci dentro.
Adesso che siamo travestiti da peshmerga, l’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non morirò stanotte
  4. Premessa
  5. 1. Una promessa
  6. 2. Compagno Cipolla
  7. 3. Con il cuore colmo di sole
  8. 4. Al Bab
  9. 5. La via delle aquile
  10. 6. Benvenuti a Tabqa
  11. 7. Fuck you, Daesh!
  12. 8. Nella notte
  13. 9. Fuoco!
  14. 10. Non sei solo
  15. 11. Una fine, un inizio
  16. 12. We’re gonna die!
  17. 13. Benvenuti all’inferno
  18. 14. La notte si illumina
  19. 15. Get the fuck out of there!
  20. 16. Missione fallita
  21. 17. Inspirare, espirare
  22. 18. Stop
  23. 19. Serkeftin
  24. 20. Moonage Daydream
  25. Epilogo
  26. Ringraziamenti
  27. Copyright