La triade italiana
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La triade italiana

Come la malavita cinese sta conquistando l'Italia. E da qui, l'Europa

  1. 240 pagine
  2. Italian
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La triade italiana

Come la malavita cinese sta conquistando l'Italia. E da qui, l'Europa

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Prato, 17 giugno 2010: due ragazzi cinesi vengono trucidati da quattro connazionali. Un regolamento di conti, una mattanza che, con i suoi complessi retroscena, porta a ipotizzare l'esistenza di una mafia internazionale, che dai capannoni-dormitorio della periferia pratese allunga i tentacoli fino alle capitali europee. Sparatorie, attentati incendiari, bische clandestine; e poi la guerra per il predominio sui trasporti della merce cinese in Europa, con un giro di affari milionario, centinaia di camion, e decine di depositi nel nostro Paese e in Francia, Spagna, Germania ed Europa dell'Est. Le intercettazioni rimandano a un misterioso "Uomo nero", Zhang Naizhong, il "capo dei capi". Prato, 17 gennaio 2018: dopo otto anni di indagini scatta China Truck, la più grande operazione contro la criminalità cinese mai eseguita in Italia, che porta all'arresto di trentatré persone, tra cui proprio Zhang Naizhong. E a un processo, anche se non per mafia. Con questo libro rivelatore, ricco di informazioni riservate e interviste esclusive agli investigatori, Giorgio Sturlese Tosi accende i riflettori su un argomento più che mai attuale: la pericolosa crescita esponenziale della malavita cinese in Europa e nelle nostre città.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858695432
1

La mattanza

La letteratura migliore per parlare di mafia sono i verbali dei poliziotti e le sentenze dei giudici.
Andrea Camilleri
2010...
«Sangue sulle pareti, sangue sul soffitto, sangue dall’uscita fino alla strada.» Il capo della mobile Francesco Nannucci aveva già visto cadaveri di cinesi ammazzati, ma mai un ragazzo fatto a pezzi. E Prato non aveva mai assistito a tanta violenza.
L’inizio di questa indagine porta la data di morte di un ragazzo di vent’anni.
Giovedì 17 giugno 2010. Ho visto sei uomini entrare e poi è stato l’inferno. Così «La Nazione» di Prato all’indomani della più cruenta mattanza in salsa orientale mai avvenuta in quella città. Il giornalista aveva raccolto quella dichiarazione da una testimone e non sapeva che stava raccontando l’avvio della più ampia inchiesta sulla criminalità organizzata cinese mai condotta in Italia. Quella mattanza e i suoi complessi retroscena, infatti, sarebbero stati alla base del lavoro che, passo dopo passo, avrebbe portato i vertici della polizia di Stato e la direzione distrettuale antimafia di Firenze a ipotizzare l’esistenza di una piovra con gli occhi a mandorla che dai sudici capannoni-dormitorio della periferia di Prato affollati di clandestini allungava i tentacoli fino alle capitali europee.
«Ho visto sei uomini entrare nella tavola calda. Ho sentito un gran baccano e poi ho visto un giovane coperto di sangue uscire dal negozio, cadere a terra e rialzarsi per tre volte fino a quando è spirato.» La testimone, che ha chiesto al cronista di restare anonima per paura di ritorsioni, forse non ha davvero usato il termine «spirato», ma il suo racconto combacia col ricordo del dirigente della squadra mobile di Prato, subito intervenuto sulla scena del delitto assieme ai carabinieri, alla polizia locale e ai medici della Misericordia e della Croce verde. «Le stanze della rosticceria» ricorderà Nannucci «erano piene di sangue. Sangue sulle pareti, sangue sul soffitto, sangue dall’uscita fino alla strada... Mi ha colpito moltissimo.»
Era il tardo pomeriggio quando quattro persone – e non sei – armate di coltelli e mannaie, si sono lanciate all’interno di una rosticceria-tavola calda cinese in via Strozzi, a Prato. È una traversa di via Pistoiese, una strada brutta anche se a due passi dal centro storico, che corre attraverso edifici di due o tre piani. Lungo i marciapiedi si succedono negozi con le insegne cinesi. Ogni attività commerciale, a eccezione di un bar e di una farmacia, è orientale, tratta merci orientali, per clienti orientali. Nelle pasticcerie si vendono dolci cinesi a base di cocco, le rosticcerie propongono tofu piccante e zampe di pollo. Ci sono tante agenzie di viaggio, molti negozi di elettronica, e i bar, dove hanno imparato a fare l’espresso.
Proprio nel cuore della Chinatown pratese – che non ha niente di folcloristico né di teatrale come le altre più famose nel mondo – il sangue è sgorgato a fiotti così copiosi da impressionare anche un investigatore esperto come Nannucci. Le indagini accerteranno che gli aggressori erano stati incaricati di punire uno sgarro, il ferimento di un boss. Che aveva ordinato ai suoi di stanare e uccidere platealmente chi aveva osato tanto. E quando i sicari sono stati avvertiti da un connazionale che il giovane che cercavano era all’interno della tavola calda, si sono precipitati ad armarsi e hanno raggiunto via Strozzi. Come li ha visti piombare nel locale, la vittima ha subito capito che cercavano lui e ha tentato la fuga mollando il panino che aveva in mano. Inutilmente. Prima che raggiungesse la porta le lame dei suoi nemici l’avevano già colpito a morte, squartandogli la gola e il torace in profondità, tagliandogli un braccio e infilzandolo alla schiena. Pochi rantoli, nessun grido, solo il gorgoglio del sangue che riempie la gola e nemmeno il tempo di un ultimo dolce pensiero. È morto in pochi secondi, a vent’anni, nella puzza di una rosticceria, sul pavimento scivoloso e unto, a pochi passi da casa, a novemila chilometri da dove era partito per conquistarsi un futuro.
Questa è la fine di un sicario delle gang orientali. Stessa sorte è toccata al ragazzo che era in sua compagnia: aggredito dentro la tavola calda, scappato all’esterno, raggiunto per strada e colpito con altre coltellate prima che si accasciasse sull’asfalto tra la gente terrorizzata. Lui ha impiegato qualche minuto a morire, per questo erano soprattutto suoi gli schizzi di sangue che hanno imbrattato le vetrine del banco degli alimenti, le pareti, persino il soffitto, e poi il marciapiede. Il cuore gli ha continuato a battere nel petto pompando vita nelle vene recise. Gli assassini, lordi di sangue, con gli occhi strabuzzati di ferocia e le facce tinte di rosso, sono fuggiti come demoni, scomparsi e inghiottiti nella Chinatown. Per terra, al centro di macchie scarlatte irregolari che si allargavano sempre di più, i corpi di due clandestini di diciannove e ventidue anni, Minhui Chen e Hao Liang Chen. I loro documenti raccontavano nomi, età e vite diverse. Ma le impronte digitali prese dai loro polpastrelli nell’Istituto di medicina legale dell’ospedale di Prato hanno svelato la loro vera identità. E la loro breve storia.
In via Strozzi, in pochi minuti, sono arrivati tutti. Le sirene hanno assordato quella parte di città per ore. Ambulanze, volanti della polizia, gazzelle dei carabinieri, giornalisti, fotografi e una folla di curiosi. Ancora oggi si trovano su internet le foto degli agenti della polizia scientifica, con indosso i calzari e le tute bianche con tanto di cappuccio per non inquinare la scena del delitto. Fotografano tutto, alla ricerca di reperti da analizzare. Il quotidiano «la Repubblica» scrive: «Un feroce duplice omicidio in pieno giorno che fa inorridire la città e accende i riflettori sulla guerra tra bande nella comunità cinese». «La Nazione» di Prato titola tutta la prima pagina con una sola parola: «Mattanza». La pozza di sangue sbavata dalla pioggia, e un paio di scarpe da ginnastica macchiate, sono rimaste per ore sul selciato a testimoniare il massacro. Nelle immagini dei fotografi si vedono i teli gialli che coprono i cadaveri e il capo della squadra mobile Francesco Nannucci, in borghese, che osserva a distanza il lavoro dei suoi uomini, con le mani in tasca. Accanto a lui il sostituto procuratore di Prato, Eligio Paolini, in polo fucsia a maniche corte. C’erano quando questa storia è iniziata. E saranno loro a chiuderla.
I primi agenti arrivati sul posto perquisiscono alcuni cinesi. Inutilmente, i killer sono già scappati. Il giorno successivo, sempre «La Nazione» scrive: «La polveriera». All’interno riporta un’intervista al procuratore di Prato, Piero Tony, che afferma: «La prima ipotesi è che si sia trattato di uno scontro tra schieramenti contrapposti. E quando due gruppi litigano, lo fanno per qualcosa. Per esempio per un mercato».
Che la faccenda fosse seria lo hanno capito subito anche a Roma. Il servizio centrale operativo della polizia (Sco) invia a Prato due investigatori. Le ipotesi di indagine sono varie, e vanno dallo scontro tra baby gang (a Milano se ne erano verificate di simili, con identiche modalità e ferocia: assalti all’arma bianca e vittime sorprese e fatte a pezzi) al regolamento di conti per il mancato pagamento di un debito al gioco d’azzardo. Tre giorni prima un imprenditore cinese di trentasette anni era stato ucciso con due colpi calibro 8 che due incappucciati gli avevano sparato in testa. Si analizza anche un episodio simile, di minor gravità, avvenuto nei giorni precedenti, quando un ragazzo cinese, che lavorava come interprete per i carabinieri, era stato aggredito e ferito all’esterno della discoteca Siddharta di Scandicci. C’è un collegamento?
Intanto la mattanza a colpi di machete ha innescato la polemica politica, virata sul sempreverde dibattito sulla sicurezza. Il Pd, che aveva governato la città per decenni, si è scagliato contro il primo sindaco espressione del centrodestra, Roberto Cenni, imprenditore creatore della ditta di abbigliamento Sasch, che aveva incentrato la sua campagna elettorale proprio sulla sicurezza e la difficoltà di integrazione con la comunità cinese e, conquistato il municipio, aveva imposto ai negozi cinesi di scrivere anche in italiano, oltre che con gli ideogrammi mandarini, che cosa vendessero. Poco dopo il duplice omicidio, commentando un’operazione della guardia di finanza, il sindaco ha detto: «L’illegalità ha assunto sviluppi di carattere criminale, ma gli strumenti messi in atto ci fanno capire la vicinanza dello Stato, perché non siamo soli». Colpito dalla legge del contrappasso, dopo aver delocalizzato in Cina alcune delle sue produzioni di abbigliamento, ha subito un crack finanziario e lo sciopero di settanta operai di Shanghai, che da mesi non ricevevano lo stipendio, fino al patteggiamento a due anni per bancarotta nel 2016, pena sospesa, con rientro di capitali dalla Cina, via Lussemburgo.
Intanto le indagini accertavano che la prima vittima, Hao Liang Chen, quella uccisa all’interno della tavola calda, era un sicario, un killer. Il 4 aprile 2010, il giorno di Pasqua, all’interno del locale Number One c’era stata una sparatoria in cui erano rimasti feriti due cinesi, Wei Dejun detto Anu, e il suo braccio destro, Li Hong Gen, detto Agen. Hao Liang Chen forse nemmeno sapeva di aver sparato a un boss, il capo di una violenta banda dedita a estorsioni, spaccio di droga, gestione di bische clandestine e case di appuntamento. A ventun anni, prima di finire fatto a pezzi tra orecchie di maiale arrosto e zuppe di gamberetti congelati, aveva già ricevuto un’arma, partecipato a un’azione omicida, per poi essere munito di documenti falsi e spedito in Cina per sfuggire alle indagini e alle vendette. Al momento di entrare in quella rosticceria era da poco rientrato in Italia.
Era stato arruolato quando aveva scelto di non passare la vita chino su una macchina per cucire come i genitori che lo avevano portato in Italia da bambino, con la speranza di una vita migliore. Non era cinese e non era italiano, sognava di fare soldi, come tutti i cinesi arrivati in Europa, ma non aveva voglia di spaccarsi la schiena giorno e notte per pochi euro in uno dei laboratori nella periferia di Prato. E così era entrato nelle file della manovalanza della criminalità, che si serve di ragazzi presi dalla strada e gli dà l’illusione di guadagni immediati e di un futuro a portata di mano. Sono le leve perfette per i boss della malavita: costano poco, non hanno precedenti, la polizia non li conosce e, soprattutto, non sanno niente dell’organizzazione. Se anche venissero arrestati non sarebbero nemmeno in grado di indicare il nome di chi gli ha procurato la pistola, figuriamoci del mandante. E se invece vengono ammazzati, poco male, c’è subito pronto un rimpiazzo.
L’altra vittima, invece, Minhui Chen, era lì per caso, non lavorava per nessuna gang. Quel giorno il destino gli aveva fatto incontrare l’amico appena rientrato dalla Cina e la sua nostalgia di ricordi d’infanzia, forse già svaniti, lo aveva spinto a invitarlo a mangiare insieme per farsi raccontare del viaggio. Quei ricordi cinesi sono l’ultima cosa che ha ascoltato prima di morire per strada. Entrambi si sono trovati, uno per scelta, l’altro per sorte, nel mezzo di una guerra tra due bande originarie del Fujian.
Le gang di Prato non hanno interesse a dimostrare il loro potere, la loro forza intimidatrice, con le mannaie. Meglio fare affari in silenzio. Il sangue, quando scorre, finisce per colare fuori dalle paratie stagne della comunità cinese, attira attenzioni, scatena la polizia e raffredda i già tiepidi rapporti con la città. Ma a volte è indispensabile. Perché le organizzazioni criminali originarie della Cina, in Italia, sono ancora rozze, richiamano le mafie italiane degli anni Ottanta. I morti lasciati per strada all’epoca non ne testimoniavano la forza, semmai la debolezza.
E infatti fu la pace scoppiata dopo la mattanza, l’assenza di nuovi morti ammazzati, a impensierire le forze dell’ordine. La presenza in città di fujianesi attivi nelle estorsioni, nelle rapine ai connazionali e nello spaccio di droga era già nota agli inquirenti. Che da tempo assistevano a delitti e cercavano di districarsi nella guerra tra bande. L’anno precedente, avevano arrestato Lin Cai Wang, detto Hesan, il Monaco, smantellando parte della sua organizzazione, attiva, oltre che a Prato, a Empoli, Reggio Emilia, Padova, Avellino e Napoli. Lo chiamavano così, il Monaco, perché era alto un metro e novanta, pesava cento chili e aveva la testa rasata.
La banda rivale era quella comandata da Wei Dejun, detto Anu, al vertice di un’organizzazione dedita a estorsione, spaccio di droga, gestione di bische clandestine e case di appuntamento. La guerra tra i due, prima dell’arresto del Monaco, aveva scatenato una violenza progressiva: uno sgarro si vendica con un pestaggio, un ferimento con un omicidio. L’omicidio con un’esecuzione. In una calda serata del 13 luglio 2009, nel bel mezzo del luna park della festa dell’Unità di Prato, Qiu Shiwei, un ragazzo di sedici anni che giocava a fare il duro con precedenti per tentato omicidio e rapina aggravata, è stato accerchiato mentre sfidava i compari al punching ball. Sedici coltellate lo hanno colpito al petto; l’ultima, quando era già a terra, gli ha spaccato il cuore. I testimoni hanno raccontato di aver assistito alla rissa, di aver visto il ragazzino sotto un altro che infieriva su di lui. Pensavano lo stesse prendendo a pugni, finché l’aggressore si è alzato sporco di sangue e con il coltello in mano, mentre Qiu è rimasto immobile a terra.
I morti almeno venivano trovati. Pestaggi e intimidazioni invece non sempre venivano denunciati. Anu, dopo l’arresto del Monaco, aveva occupato lo spazio lasciato libero dalla banda sgominata. E il fiume di sangue si era fermato. Gli investigatori ci misero poco a comprendere che gli omicidi della tavola calda erano l’apice sguaiato di uno scontro tra i boss rivali. Che accelerò il loro declino. I carabinieri, che da tempo avevano nel mirino quei fujianesi, catturarono gli ultimi fedeli del Monaco. Nel frattempo la polizia risalì ai mandanti, agli esecutori e ai fiancheggiatori del duplice delitto della tavola calda di via Strozzi e decapitò l’organizzazione nemica, arrestando anche Anu.
Eliminate le due bande rivali e sbattuti in cella i capi, il lavoro era fatto. La pace scoppiata in città dopo gli arresti sembrava confermarlo. L’esperienza degli sbirri no. C’era qualcosa che non quadrava. Alcune dialettiche criminali non seguivano i fili dei ragionamenti logici tradizionali. Gli investigatori non riuscivano a comprendere il percorso che aveva portato i due leader, Anu e il Monaco, a spadroneggiare in città. Come era possibile che dei rozzi banditi usi a brandire mannaie fossero stati così autorevoli da convincere migliaia di concittadini, compresi facoltosi imprenditori, a soggiacere ai loro diktat, a versare mensilmente il pizzo o a saldare debiti a interessi usurari?
Vennero sentite decine di testimoni, perquisite abitazioni, controllate centinaia di documenti. Solo acquisendo una mole straordinaria di informazioni, se si ha il tempo di analizzarle, si può comprendere il contesto generale. Si rilessero i vecchi verbali già archiviati. Perché il diavolo spesso si nasconde nei dettagli.
Una pista infatti c’era. L’anno prima, nel corso di una delle tante perquisizioni effettuate per individuare i membri della banda del Monaco, gli agenti avevano fatto irruzione in un appartamento di via Filzi. Era il 9 settembre 2009. All’interno c’era proprio lui, il Monaco in persona, che si era lasciato ammanettare senza opporre resistenza. La caccia era finita. Con lui furono portati in questura per accertamenti tutti coloro che si trovavano nell’appartamento.
Il personale della squadra mobile però si accorse che c’era qualcosa di strano. Le attenzioni e le premure dei fermati non erano rivolte al Monaco, in teoria il capo dell’organizzazione criminale, ma a un altro soggetto, tale Lin Gouchun. Successe che tutti i cinesi portati negli uffici della polizia scientifica, per essere fotosegnalati e sottoposti al prelievo delle impronte digitali, si mostravano inspiegabilmente deferenti. In realtà tradendolo e rivelando il suo carisma nel gruppo. Lin Gouchun veniva coperto di attenzioni, che rivelavano come fosse tutt’altro che una figura di secondo piano, estranea alla banda. Dai controlli nella banca dati nazionale delle impronte digitali, infatti, emerse che, con un falso nome, era già stato espulso dal territorio nazionale dalla prefettura di Napoli. L’uomo misterioso era quindi riparato in Portogallo, da dove, grazie alla sanatoria sugli stranieri, era potuto rientrare in Italia. Ecco che cosa recitavano i suoi documenti: «Nato nel Fujian il 04.11.68, alias Lin Hua, in possesso di passaporto cinese n. G18082028, rilasciato dall’Ambasciata cinese a Lisbona, e di permesso di soggiorno P000897819 emesso dalle autorità portoghesi per lavoro subordinato».
Al termine dei controlli Lin Gouchun era stato rimesso in libertà perché non c’era nulla a suo carico. Ma da quel momento gli investigatori gli avevano puntato occhi e orecchie addosso, pedinandolo giorno e notte e interpellando tutti gli informatori della città. L’intuizione si rivelò fondata. Le fonti confidenziali, opportunamente sollecitate, parlavano di un fantomatico «Portoghese» ai vertici della criminalità cinese di Prato. Dopo l’arresto di Anu, pur senza nutrire grande speranza, furono interrogati nuovamente gli arrestati nelle operazioni che avevano portato in carcere i componenti della sua banda e di quella del Monaco. Nessuno sembrava saperne niente. O nessuno voleva tradirlo. Poteva anche essere che l’organizzazione fosse così compartimentata che neppure i dirigenti di alto livello erano a conoscenza di chi stesse al vertice della piramide.
Intanto i pedinamenti diedero i primi frutti. Lin Gouchun, il Portoghese, frequentava vari locali notturni dove si spacciava droga e si esercitava la prostituzione. Aveva contatti con chi gestiva le case da gioco clandestine e risultava in affari con una ditta di trasporto merci la cui pubblicità campeggiava in varie aziende manifatturiere cinesi. L’ipotesi era che, attraverso dei prestanome, il Portoghese gestisse nell’ombra una serie di attività, lecite e illecite. C’era poi da capire perché si spostasse con tanta frequenza in Europa e in Cina. Gli investigatori avevano messo insieme abbastanza elementi per chiedere di intercettare lui e i suoi accompagnatori. Le intercettazioni, telefoniche e ambientali, furono effettuate con grande difficoltà, sia per i diversi dialetti utilizzati nelle conversazioni, sia per la mancanza di interpreti affidabili. Ma a poco a poco emersero gli indizi che lasciavano ipotizzare come fosse lui il capo della mala di Prato, il boss a cui persino Anu e il Monaco dovevano riferire e rendere conto. La procura antimafia di Firenze decise di avviare un’indagine ad ampio raggio su Lin Gouchun. L’inchiesta fu chiamata «Il Portoghese».
A volte ci vuole fortuna, ma il lavoro ben fatto, di solito, viene premiato. Siamo ormai nel febbraio 2011; con quelle poche informazioni raccolte sul Portoghese gli investigatori tornano a sondare l’ambiente criminale, dentro e fuori dalle carceri. Un buon inquirente sa che gli interrogatori andrebbero condotti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA TRIADE ITALIANA
  4. Premessa
  5. 1. La mattanza
  6. 2. Operazione China Truck
  7. 3. Prato
  8. 4. Dal Vesuvio alla Senna
  9. 5. Prato über alles
  10. 6. Il supertestimone
  11. 7. Segui i soldi
  12. 8. L’abbraccio letale
  13. 9. Le relazioni pericolose
  14. 10. Il capitale umano
  15. 11. Sangue e aragoste
  16. Conclusioni
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright