Il suo telefono stava squillando. Non riconobbe il numero, ma – con un sospiro e il cuore pesante – rispose comunque.
«Pronto?»
«Signor Saul Weintraub?»
Un istante di esitazione. «Sì, chi parla?»
«Detective Amelia Sachs, NYPD.»
«Ah.»
«Signore, si è incontrato con Jatin Patel ieri, su 47th Street? Intorno alle undici del mattino?»
A broch. Dannazione.
Era l’ultima cosa che Saul Weintraub voleva. Aveva sperato così tanto di restare nell’anonimato. Il cinquantunenne si trovava nel minuscolo e umido soggiorno della sua casa nel Queens. Un ambiente caotico, ma a suo modo comodo, pieno di oggetti vecchi e spaiati provenienti dalla casa dei genitori, mischiati a pezzi che lui e sua moglie avevano comprato nel corso degli anni. Strinse con forza il telefono. Il cuore cominciò a battere veloce, la nausea lo assalì.
«Io...» Non poteva negarlo. «Sì.»
«È a conoscenza della sua morte?»
«Sì, sì... Come avete saputo di me?»
«Esaminando il video di una telecamera di sicurezza nel palazzo del signor Patel. Ne abbiamo ricavato una sua foto, e alcuni agenti hanno chiesto di lei in giro. Un gioielliere l’ha riconosciuta.»
A broch...
Di certo la detective ce l’aveva con lui perché non si era fatto avanti. Ma non voleva essere coinvolto. Troppi pericoli. Non rischiava solo la reputazione, ma anche di essere aggredito dall’assassino psicopatico che aveva ucciso Patel e quella povera coppia.
«Non so niente. Avrei chiamato subito se avessi avuto elementi utili per l’indagine, ma ero andato via da parecchio quando è successo.»
No, non erano le informazioni a interessarla. «Mi ascolti, signor Weintraub. È importante. Pensiamo che l’uomo che ha ucciso Patel conosca il suo nome.»
«Cosa?»
«Riteniamo abbia fatto del male al signor Patel per scoprire la sua identità. Ha visto qualcuno che la seguiva, o appostato fuori da casa sua?»
Fatto del male? «No, ma...»
Ma non aveva controllato. Perché avrebbe dovuto? Andò alla finestra e gettò una rapida occhiata alla strada in quella placida domenica mattina. Un ragazzino in bicicletta. La signora Cavanaugh, infagottata nel cappotto beige, con quel suo piccolo cane merdoso.
«Sto mandando un’auto a casa sua. Lei resti dentro e tenga la porta chiusa a chiave. Saranno lì tra quindici minuti.»
«Va bene. Ma... io non ho visto niente da Jatin. Davvero.»
«Riteniamo che lei possa aver visto il killer all’esterno, per strada, prima che entrasse nel palazzo. A ogni modo, è possibile che lui lo pensi. Vogliamo solo assicurarci che stia bene. La porteremo qui a vedere delle registrazioni.»
«Ma come farebbe a sapere dove vivo? Jatin non conosceva il mio indirizzo di casa. Non eravamo intimi: ho valutato alcune delle sue pietre, forse una mezza dozzina di volte. Tutto lì, nessun altro legame. Sapeva l’indirizzo del mio ufficio, non quello di casa.»
«Speriamo abbia ragione. D’altro canto, potrebbe non essere così difficile rintracciarla. Meglio essere prudenti, non crede?»
Sospirò. «Certo. Immagino di sì.»
Weintraub spostò il peso da un piede all’altro. Le assi cigolarono sotto il vecchio tappeto orientale, regalo di nozze del cugino Morris. Pensò per un istante che doveva proprio decidersi a perdere quella decina di chili. Un’impresa che al momento pareva piuttosto insignificante.
«Sono stati rubati alcuni diamanti grezzi di altissimo valore» proseguì la donna. «Appena consegnati dalla Grace-Cabot, la società mineraria. Il signor Patel gliene ha parlato? Le ha detto di qualcuno a cui potevano interessare?»
«No, nulla.»
«Magari approfondiremo la cosa in seguito. Adesso vorrei farle un’altra domanda. Qualcuno ha sorpreso il criminale all’opera, e poi è fuggito. Un ragazzo indiano. Forse lavora per Patel. Le sue iniziali sono VL. Ha idea di chi possa essere?»
«Non lo so. Davvero. Come ho già detto, collaboravo con lui solo di tanto in tanto.»
«La nostra auto sarà lì a momenti, signor Weintraub. Lei ha famiglia?»
«Mia moglie è andata a trovare nostra figlia al college, questo weekend.»
«Fossi in lei mi organizzerei per raggiungerle. O, in ogni caso, per lasciare la città per un po’.»
«Credete che quest’uomo mi stia davvero cercando?»
«Sì, esatto.»
«Gotteniu.» Dio mio.
«Tenga la porta chiusa a chiave» ripeté la donna. Poi riattaccò.
Nel silenzio, Weintraub ascoltò il termosifone gorgogliare e sibilare. Un vistoso orologio a muro ticchettava.
A broch... Inferno e dannazione.
Weintraub aveva saputo del crimine, ovvio, ma i dettagli che aveva erano pochi: era successo tutto durante lo shabbat, quando non poteva seguire tutti i notiziari. Era religioso – un ebreo ortodosso, almeno in teoria – ma non seguiva in modo troppo rigido le regole dello shabbat in merito alle trentanove attività proibite. Non aveva raggiunto in auto l’ufficio di Jatin Patel, ma neanche ci era andato a piedi (dal Queens a Manhattan?): aveva preso la metropolitana. Un compromesso. Da Patel aveva fatto le scale fino al terzo piano, invece di prendere l’ascensore. Guardare la TV non era specificamente proibito, ma lo era adoperare apparecchi elettrici e perfino lasciare il televisore acceso dal venerdì sera: lasciarsi incantare dalle assurdità dei notiziari via cavo rientrava nella proibizione contro udvin d’chol, le attività quotidiane della settimana lavorativa. Quindi lui aveva acceso la TV ben dopo il tramonto, e solo allora aveva appreso l’orribile notizia.
Adesso, però, lo shabbat era finito. Accese il televisore. Sullo schermo apparve uno spot pubblicitario. Classico. Niente a proposito del crimine.
Scostò le pesanti tende color oro e sbirciò di nuovo fuori.
Nessun mostro. Niente assassini.
Prese il soprabito dall’attaccapanni nell’ingresso. I poliziotti sarebbero arrivati in dieci minuti. Il numero da cui chiamava la simpatica detective – simpatica perché non gli aveva dato addosso per la sua reticenza – era di Manhattan. Era lì che si trovava il suo ufficio? E dopo il colloquio, dove sarebbe andato? La moglie e la figlia erano impegnate in un weekend “mamma e figlia” dell’università. Non poteva raggiungerle. Non voleva, a dire la verità.
Continuava a stringere le mani a pugno.
Ah, che cosa triste! Jatin Patel. Morto. Uno dei migliori diamantaire al mondo!
Le pietre rubate dovevano essere inestimabili – Patel lavorava solo sui grezzi migliori – ma uccidere per ottenerle? Poteva succedere in Africa, Russia, Sudamerica, certo. Ma lì...
Ripensò a quanto fosse stata gentile Amanda. No, Amelia. Non ricordava il cognome, solo che gli era sembrato tedesco. Poteva essere ebreo... Si chiese quanti anni avesse, se era sposata. Il figlio ventottenne di Weintraub non aveva ancora una moglie.
Sospirò.
Il cellulare vibrò. Era il proprietario della tavola fredda vicina al suo ufficio, a circa dieci isolati da lì. I due erano amici, ma di rado parlavano al telefono.
«Ari. Cosa c’è, tutto bene?»
«Saul. È solo che pensavo dovessi saperlo... È passato un uomo. Ha preso un caffè e ha chiesto di te. Mi è sembrato un tipo a posto. Ha domandato a Jenny se eri il Weintraub che vive a Ditmars Court, e lei gli ha detto di sì. Me l’ha appena raccontato.»
«Quando è successo?»
«Circa mezzora fa.»
I pensieri Weintraub si susseguirono rapidi.
Patel dà all’assassino il mio nome e l’indirizzo del mio ufficio. L’assassino comincia a fare domande in giro, con una lista dei Saul Weintraub che vivono a Long Island City e dintorni. Va alla tavola fredda e chiede alla cassiera se il Weintraub dell’attività lì a fianco è quello che vive a Ditmars Court. È un amico, spiega. E Jenny conferma sì. Fottuto Internet.
A broch...
«Devo andare.» Salutò l’amico e visualizzò la tastiera sullo schermo del telefono.
Prima che potesse digitare il 911, però, una figura lo raggiunse in fretta alle spalle. Lo fece voltare di forza e gli strappò il telefono dalle mani. Weintraub lanciò un urlo, terrorizzato. La faccia dell’uomo era nascosta da un passamontagna. La finestra del seminterrato. O la finestra del bagno sul retro... Non le chiudeva mai a dovere.
«No, no, per favore! Non ho detto niente! Lo giuro. Non ho visto niente, non sono una minaccia!» Il cuore gli martellava nel petto.
L’intruso diede un’occhiata al monitor del cellulare, poi si infilò l’apparecchio in tasca. Weintraub era disperato.
«La prego. Posso procurarle diamanti. Oro. Tutto quello che vuole! La prego! Ho una moglie, una figlia. Per favore.»
L’uomo si accostò un dito alle labbra, zittendolo come avrebbe fatto con un bambino.
Una delle kurizi dell’adrenalinica mattinata precedente, al negozio di Jatin Patel, era morta. Andata.
Saul Weintraub.
Addio. Possa il tuo dio ebraico accogliere la tua anima. O farti bruciare all’inferno. O mandarti dove che sia.
Vladimir Rostov non era vecchio abbastanza da aver vissuto in prima persona gli anni dell’Unione Sovietica, però aveva studiato la storia. E pensava che l’ateismo di Stato dell’URSS gli sarebbe andato a pennello. Non credeva in un secondo atto riservato all’anima.
Adesso, fuori una, mancava un’altra kuriza da eliminare: il ragazzo magro. Rostov aspettava con impazienza notizie dal suo nuovo, piagnucoloso amico persiano. Nashim avrebbe fatto meglio a passare il Giorno del Riposo attaccato al telefono, a contattare le sue controparti indiane nel mondo dei diamanti.
Pensò alle figlie dell’uomo, Sherazade e Gattina. Ragazze carine.
Al momento, Vladimir Rostov stava «facendo rifornimento». Aveva trovato una sistemazione a Brighton Beach, l’enclave russa di Brooklyn, ma ora si trovava nella vicina Sheepshead, seduto in quello che era diventato uno dei suoi ristoranti preferiti al mondo. Il famoso Roll N Roaster, al contempo punto di riferimento a Brooklyn e piacevole localino di quartiere. La prima volta che aveva sentito quel termine – «localino» – usato da qualcuno, non ne aveva compreso appieno il significato. D’altra parte l’inglese non era certo la sua lingua madre. Così aveva cercato la parola, scoprendo che calzava alla perfezione: un localino era un posto in cui ci si sentiva a casa. E lì poteva mangiare magnifici panini al roastbeef – con il formaggio, il fo...