L’accordatore eseguì alcune scale ascendenti, apprezzando la resistenza dei tasti d’avorio. Il capo, con un principio di calvizie, era chino sulla tastiera; gli occhi erano chiusi nell’ascolto. Dentro la sala dei concerti, vicino a Piazza del mercato vecchio, a Varsavia, le note salivano verso il soffitto scuro per poi dissolversi come nuvole di fumo.
Soddisfatto del lavoro svolto, l’uomo ripose le strisce di feltro e la chiave nella custodia di velluto, poi si concesse qualche istante per suonare. Eine kleine Nachtmusik di Mozart, un brano esuberante che tanto gli piaceva.
Proprio sul finale, il suono secco di due mani che applaudivano echeggiò alle sue spalle e l’accordatore si voltò. A circa sei metri di distanza c’era un uomo che annuiva sorridendo. Tarchiato, con una zazzera di capelli castani su un viso largo. Slavo del Sud, pensò l’accordatore. Era stato in Jugoslavia tanti anni prima.
«Bello. Oh, bellissimo! Parla inglese?» domandò lo sconosciuto con un forte accento.
«Sì.»
«È un musicista del teatro? Non può non esserlo, visto il suo talento.»
«No. Io accordo solamente i pianoforti, ma un professionista deve sapersi destreggiare con la tastiera. Posso aiutarla, signore? La sala è chiusa.»
«Eppure… Una simile passione per la musica. Si sente, sa? Ha mai sognato di esibirsi?»
All’accordatore non interessava molto parlare di sé, ma avrebbe potuto discutere di musica per una serata intera. Oltre a essere forse il migliore di Varsavia, se non della Polonia centrale, nella sua professione, era un appassionato collezionista di partiture originali e, se avesse avuto i mezzi, avrebbe raccolto volentieri anche strumenti antichi. Una volta aveva suonato una polacca di Chopin sulla tastiera usata dallo stesso compositore: quello era stato uno dei momenti più alti della sua intera esistenza.
«Un tempo sì» rispose, «ma solo in gioventù.» Accennò allo sconosciuto delle sue peregrinazioni per l’Europa Orientale al seguito dell’Orchestra giovanile di Varsavia, in cui era secondo violoncello.
Poi fissò lo slavo che, a sua volta, osservava il piano. «Come dicevo, la sala è chiusa. Ma forse lei cercava qualcuno?»
«Sì, infatti.» L’uomo gli si avvicinò, abbassò gli occhi. «Ah, un Bösendorfer. Uno dei grandi contributi della Germania alla cultura.»
«Oh, sì» convenne l’accordatore, sfiorando i caratteri gotici del nome sul legno laccato. «È la perfezione, davvero. Vuole provarlo? Suona?»
«Non come lei. Non oserei toccare un solo tasto, dopo aver sentito la sua esecuzione.»
«Troppo gentile. Cerca qualcuno, diceva… Anna, intende? La studentessa di corno francese? Era qui fino a un attimo fa, ma ora credo che se ne sia andata; non è rimasto nessun altro, a parte la donna delle pulizie. Posso riferire un messaggio, però. A qualunque membro dell’orchestra o all’amministrazione, se vuole.»
Lo sconosciuto si fece ancora più vicino e sfiorò un tasto: avorio autentico, dato che il piano era stato fabbricato prima del divieto. «Lei, signore» replicò. «È per lei che sono venuto.»
«Per me? Ci conosciamo?»
«L’ho vista oggi.»
«Sì? Dove? Non ricordo.»
«Stava pranzando al ristorante panoramico di quel palazzo enorme. Quello elegante, il più alto di Varsavia… Come si chiama?»
L’altro rise. «Il più alto del Paese. Il Palazzo della cultura e della scienza, un regalo dei sovietici che, secondo molti, ce lo avrebbero lasciato in cambio della libertà. Sì, ho pranzato lì, ma… noi due ci conosciamo?»
Il visitatore smise di sorridere. Il suo sguardo si spostò dal pianoforte al volto dell’uomo che socchiudeva gli occhi, sforzandosi di rammentare.
Come il fortissimo della Sinfonia n. 94, la cosiddetta «sinfonia della sorpresa», di Haydn, la paura assalì d’improvviso l’accordatore. Raccolse i suoi strumenti di lavoro e si alzò in fretta, poi s’immobilizzò. «Oh» esclamò, senza fiato. Alle spalle dello sconosciuto, sul pavimento accanto alla grande porta che immetteva nella sala, giacevano due corpi: Anna, la cornista, e, dietro di lei, la donna delle pulizie. Due ombre circondavano le figure senza vita: una proiettata dalla luce dell’ingresso, l’altra, una pozza di sangue.
Lo slavo, non molto più alto, ma assai più robusto dell’accordatore, lo afferrò per le spalle. «Signore» mormorò, sospingendolo sullo sgabello e facendolo girare verso la tastiera.
«Che cosa vuole?» Un filo di voce, gli occhi velati di lacrime.
«Sssh.»
Tremando di paura, l’accordatore si sforzava di pensare. Che idiota!, si disse. Avrei dovuto scappare quando ha nominato l’origine tedesca del Bösendorfer: chiunque abbia un minimo di competenza sa che è prodotto in Austria.
Quando lo fermarono all’aeroporto Giovanni Paolo II di Cracovia, fu certo che l’infrazione avesse a che vedere con il contenuto della valigetta.
Era mattina presto, e ancor più presto si era svegliato al Pod Różą («Sotto la rosa»), il suo albergo preferito in Polonia, sia per l’originale mix di leziosità antica e praticità moderna, sia per il fatto che ci aveva soggiornato Franz Liszt. Mezzo addormentato, senza nemmeno un tè o un caffè nello stomaco, fu sottratto al suo torpore da due uomini in uniforme che incombevano su di lui.
«Il signor Harold Middleton?»
Alzò gli occhi. «Sì, sono io.» E subito intuì cosa doveva essere successo. Al controllo del bagaglio a mano, gli agenti di sicurezza dell’aeroporto avevano visto l’interno della sua valigetta e si erano di sicuro allarmati, ma, per prudenza, avevano preferito non dire niente, lasciarlo passare, per poi chiedere rinforzi: i due omoni dall’aria poco amichevole che ora si ritrovava davanti.
Dei circa venti passeggeri presenti nella sala d’attesa ad aspettare la navetta per il volo Lufthansa diretto a Parigi, alcuni, i più giovani, si voltarono a guardarlo; i vecchi, temprati dal regime sovietico, non osarono levare gli occhi. L’uomo più vicino a lui, a due poltroncine di distanza, alzò involontariamente lo sguardo e un’ambigua preoccupazione gli balenò sul viso, quasi temesse di essere scambiato per un suo compagno di viaggio. Poi, accorgendosi che nessuno aveva intenzione di interrogarlo, tornò al suo giornale, sollevato.
«Voglia seguirci, cortesemente.» Con la massima educazione, l’imponente addetto accennò al controllo di sicurezza. «Da questa parte, sì, prego.»
«Senta, so di che si tratta. C’è un equivoco…» Harold Middleton modulò la sua voce con pazienza, disponibilità e rispetto: il tono che bisogna avere con la polizia locale di un Paese straniero, quello che si usa ai passaggi di frontiera. Accennò alla valigetta. «Posso mostrarvi alcuni documenti, che…»
Il secondo agente gliela afferrò senza proferire parola.
L’altro disse: «Prego, venga». Cortese, ma inflessibile. Il giovane dalla mascella squadrata, che pareva incapace di sorridere, resse fermamente il suo sguardo: non c’era possibilità di replica. I polacchi, ricordò Middleton, erano stati i più determinati nella resistenza ai nazisti.
Insieme attraversarono a ritroso il piccolo aeroporto semideserto: gli agenti, più alti, accanto all’americano, più basso e dall’aspetto anonimo. A cinquantasei anni d’età, Harold Middleton si portava addosso qualche chilo in più dell’anno prima (che, a sua volta, aveva visto un incremento rispetto al precedente), ma, strano a dirsi, la stazza – con la complicità dei folti capelli neri – lo faceva sembrare più giovane: solo cinque anni addietro, alla cerimonia di laurea della figlia, lei lo aveva presentato ai compagni di corso come suo fratello e tutti se l’erano bevuta. Padre e figlia, in seguito, ne avevano riso spesso.
Pensando a lei, sperò con tutto se stesso di non perdere il volo e la coincidenza con Washington: quella sera avrebbe dovuto cenare con Charlotte e suo marito al Tysons Corner. Non li aveva più rivisti dall’annuncio della gravidanza. Ma, mentre guardava oltre la linea di sicurezza i tre uomini impassibili che lo attendevano, lo colse la disperata sensazione che la cena sarebbe stata rimandata. Si chiese fino a quando.
Raggiunsero il gruppo: altri due agenti in uniforme e un tizio di mezza età con uno spiegazzato completo scuro sotto uno spiegazzato, scuro impermeabile.
«Signor Middleton, sono il viceispettore Stanieski, polizia di Stato, voivodato della Piccola Polonia.» Non apparve alcun distintivo.
Gli addetti alla sorveglianza circondarono l’americano come se, con il suo metro e settantacinque o poco più, potesse tentare una fuga a colpi di karate.
«Passaporto, prego.»
Lui porse il libretto malconcio. Stanieski lo scorse rapidamente, lanciando un’occhiata alla fotografia, poi all’uomo che aveva di fronte. La gente aveva spesso difficoltà a «vedere» Harold Middleton, a ricordarne i tratti. Una volta un amico di sua figlia aveva detto che sarebbe stato un’ottima spia: le migliori erano sempre tipi piuttosto anonimi, aveva spiegato. Middleton sapeva che era proprio così, ma si era chiesto come lo sapesse il ragazzo.
«Non ho molto tempo, prima del volo.»
«Non prenderà quel volo, signor Middleton. Deve venire con noi a Varsavia.»
Varsavia? Era a due ore da lì.
«Ma è pazzesco! Perché?»
Nessuna risposta.
Ritentò. «È per il manoscritto, vero?» Accennò con la testa alla valigetta. «Posso spiegare: c’è sopra il nome di Chopin, sì, ma sono convinto che sia un falso. Non è di valore, non è un tesoro nazionale. Mi hanno chiesto di portarlo negli Stati Uniti per terminare l’analisi. Potete chiamare il dottor…»
Il viceispettore scosse il capo. «Manoscritto? No, signor Middleton. Non è per un manoscritto. È per un omicidio.»
«Omicidio?»
L’uomo esitò. «Ho usato questo termine per farle comprendere la gravità della situazione. Ora, però, è meglio che io non aggiunga altro e le consiglio vivamente di fare lo stesso.»
«Il mio bagaglio…»
«Il suo bagaglio è già in auto. Ora…» Un cenno alle porte d’ingresso. «Andiamo.»
«Prego, entri, signor Middleton. Sieda. Lì va bene, sì… Sono Jozef Padlo, primo viceispettore della polizia di Stato polacca.» Questa volta fu esibito un distintivo, ma Middleton ebbe l’impressione che il tizio magro, circa della sua stessa età e molto più alto di lui, glielo mostrasse solo perché, probabilmente, l’americano se lo aspettava, non perché fosse una prassi consolidata delle forze dell’ordine locali.
«Che significa tutto questo, ispettore? Il suo uomo ha parlato di omicidio e poi non ha voluto aggiungere altro.»
«Oh, gliel’ha detto?» Padlo fece una smorfia. «Cracovia! Non ci danno ascolto. Un po’ più che a Pozna–, ma non molto comunque.»
I due uomini si trovavano in un ufficio dalle pareti bianco sporco, accanto a una finestra affacciata sul grigio cielo primaverile. C’erano libri, stampate,...