La vita quotidiana degli eserciti di Alessandro Magno
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La vita quotidiana degli eserciti di Alessandro Magno

  1. 480 pagine
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La vita quotidiana degli eserciti di Alessandro Magno

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Pella, 334 a.C. All'inizio della primavera lo stato maggiore macedone, la falange e la cavalleria scelta lasciano la capitale e si riuniscono all'esercito panellenico per marciare su vette vertiginose, scalare massicci popolati da bestie feroci e vincere battaglie campali. I soldati che partecipano alla spedizione verso l'Impero persiano - ai confini del mondo allora conosciuto - vengono spinti ai limiti della resistenza umana ma sono spronati da Alessandro, comandante sempre in prima linea pronto a condividere e sopportare con loro ogni sofferenza. Paul Faure ce ne racconta la vita quotidiana, regolata da un'organizzazione minuziosa e sapiente, intessuta di marce, combattimenti, avventure, ma anche pause per risuolare i calzari, sistemare le uniformi, scrivere lettere a casa e giocare a dadi o a dama. E tra i protagonisti di questa straordinaria e complessa macchina militare troviamo anche carpentieri, indovini, scienziati e concubine: personaggi umili che con il loro sudore, le loro sofferenze e il loro sangue hanno scritto la leggendaria storia di Alessandro il Grande, e dato vita al suo Impero universale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858694992
Argomento
History
Categoria
World History
IV

L’esercito in marcia

Attraverso la trama ordinaria dei giorni e i semplici atti dell’esistenza, eccoci giunti al cuore, nella profondità di campo della storia. La vita quotidiana della spedizione non è semplicemente intessuta di marce, di combattimenti, di pause e di avventure durante il percorso. Tutto ciò ha assunto importanza o rilievo solo con il passar del tempo e con la distanza, anche con il confronto con altre anabasi, cavalcate o grandi crociate, su quegli stessi territori asiatici.
Insieme con altri, ho ripercorso la maggior parte del viaggio, ricalcando i passi dei conquistatori: non ho trovato niente di più bello di quel che un uomo era in grado di affrontare con un po’ di giovinezza e di energia. Si dirà: perché mai tante corse? Non c’è che da riprendere innanzitutto gli itinerari che i bematisti o misuratori di passi dell’esercito hanno accuratamente tracciato e misurato.

La sfilata del 336

Tutto comincia e si conclude con una specie di marcia straordinaria, la sfilata. La Macedonia in armi e in tuniche corte accompagna il giovane principe in «dolman» ricamato, che si reca a compiere l’atto di incinerazione della salma di Filippo II e dei suoi averi personali, in cima al gigantesco rogo di 14 metri di altezza, erettogli da migliaia di uomini in sette mesi a Ege, nella bassa valle dell’Aliakmone. Quando il carro coperto che riporta da Pella il corpo imbalsamato del re attraversa all’altezza di Vergina il corso del fiume, la folla si dispone ordinatamente: dietro la famiglia reale, le prefiche e i servi incaricati di recare le offerte vengono i vari squadroni nazionali dai cavalli riccamente bardati, i corazzieri e i lancieri dagli elmi fluttuanti, poi la temibile falange irta di picche, quindi gli hypaspistai a piedi con i loro piccoli scudi rotondi, poi ancora il corpo degli ausiliari con i loro macchinari su ruote, infine la folla cangiante dei civili, notabili in testa.
Il corteo si distende per oltre sette chilometri. Passa in silenzio per ore dinanzi al grandioso tymbos di Palatiza, dove entrerà Alessandro, proclamato re, la sera. Terrà saldo fra le braccia il pesante cofanetto d’oro stellato che racchiude le ceneri del padre e il suo diadema. Forse sarà egli stesso a depositare intorno al sarcofago la corazza di ferro, gli scudi dall’emblema d’avorio, la faretra scolpita in argento dorato, le punte cesellate delle sarisse e dei giavellotti, le gambiere diseguali tra loro del sovrano claudicante.
Affiderà ad altri il compito di depositare nell’anticamera della tomba, più tardi, le spoglie coronate di una delle sette mogli del padre, morta (giustiziata?) all’età di ventitré anni.
Manolis Andronikos avrà la «fortuna» (sono parole sue) di riesumare tutto questo nell’ottobre del 1977, con le pitture, gli avori, i brandelli dei cofanetti e la stoffa di porpora ricamata d’oro, ancora palpitante di vita.
I giochi funebri, con corse e gare musicali, si terranno a Dione, ai piedi dell’Olimpo, che attira nel 335 avanti Cristo un’altra sfilata, un altro corteo al quale questa volta verranno invitati gli alleati greci. Viene in mente la parata, militare e civile a un tempo, dell’alay ottomano, erede dell’allayi o cambio della guardia fra i Bizantini, simbolo della mobilitazione e dell’unità dell’Impero nella guerra contro gli infedeli: «Verdi come le terrazze dei giardini, violette come le sfere celesti, bianche, gialle e rosse come i petali delle rose e il disco dell’alba, le bandiere, nella loro varietà, imprimevano all’aria il colore della schiena del camaleonte», avrebbe scritto nel 1717 Lady Mary Montagu. Mettete elmi e manti fluttuanti al posto di «bandiere» e avrete una pallida idea delle grandi parate balcaniche di duemila anni prima.

La sfilata del 334

Dall’alto dell’immensa acropoli di Anfipoli – 5 chilometri di circonferenza, 130 metri di altitudine – di cui l’Intendenza archeologica greca stava portando alla luce i bastioni, rievocavo un’altra sfilata. Il fiume che avvolge la città in una delle sue anse – da cui il suo nome di «città circondata» – era navigabile un tempo per 17 chilometri. Dal porto di Eione, sulla foce, vicino all’attuale collinetta del profeta Elia, i convogli della Lega Ellenica, carichi di truppe, di cavalli, di macchine da guerra, risalivano la stanca corrente dello Strimone a furia di remi e di vele.
La concentrazione dei contingenti macedoni, peoni, traci è stata prevista non dal lato paludoso del mare, ma verso il Nord della città, nella piana sedimentaria, fra le colline che si susseguono ai piedi del massiccio del Pangeo.
Di lì passava anche il percorso di terra che conduceva da Pella, a ovest, fino ai Dardanelli, a est.
I vari corpi dell’esercito sono stati convocati da Parmenione per i primi giorni della primavera del 334. Arrivano uno dopo l’altro, a seconda dello stato del mare e delle nevi dei Balcani. Nell’ordine di arrivo, con gli indigeni edoni in testa, si mettono in cammino, chi a cavallo chi a piedi, chi in carro coperto, inquadrati dai rispettivi capifila e serrafila, controllati dagli intendenti macedoni, riforniti di viveri, a ogni tappa, dai regoli traci, dei quali il capo della spedizione si è assicurato da due anni l’appoggio. Tutti sono abituati a marciare. Sono stati addestrati a farlo, specie coloro che la campagna del 335 ha condotto per oltre 400 chilometri fino al Danubio, e riportato per oltre 700 chilometri fino a Tebe di Beozia. E lo sono soprattutto gli Agriani della zona dell’attuale Sofia, incomparabili ausiliari che portano con sé le loro capre e le loro pecore, come un tempo sulle spaventose pendici del massiccio della Vitosa. Con il capo coperto, stivali ai piedi, camminano.
È assai probabile che cantino, visto che anticamente ogni atto ricorrente della vita in terra e in mare era accompagnato da una musica di flauto, di oboe o di cembali. In ogni caso, lunghi tubi dall’estremità allargata li chiamano a radunarsi, a mettersi in marcia, a fermarsi. Dietro di loro, il carico e i corpi annessi avanzano senza mai perderli di vista.
L’insieme della prima colonna, in tutto seimila uomini e seicento veicoli, visto che le partenze sono state scaglionate in circa otto giorni, si estende per gli 8 chilometri che separano la pianura di Anfipoli dall’attuale villaggio di Rodolivos. Arriano ci informa (Anabasi, I, 11, 5) che il re alla testa delle truppe si è recato in venti giorni pieni dalla riva dello Strimone fino a Sesto, nei Dardanelli. Tra i due punti ci sono 406 chilometri.
Naturalmente era a cavallo, e in un paese amico. Ma se lo hanno seguito le truppe a piedi, queste hanno percorso 20 chilometri al giorno: tappe considerevoli, se si tiene conto che gli eserciti del periodo napoleonico, come quelli antichi, non superavano più o meno i 15 chilometri di media quotidiana.

Marce in Asia Minore

Evidentemente, tutto cambiava a seconda che ci si spostasse per vie carrozzabili, ben tenute, ben fornite di cambi, o che invece la pista serpeggiasse fra le gole dei monti, a seconda che si marciasse su terreno secco o inzuppato, fra popoli amici o nemici. Gli esploratori, le avanguardie, le retroguardie, gli addetti ai rifornimenti o alle provviste erano pronti a provvedere alle munizioni o alla sussistenza.
Due eccellenti strade persiane consentivano di raggiungere il cuore dell’Impero. Una di queste collegava Sardi, in Asia Minore, con Susa, in Elam, al termine di un percorso di 2500 chilometri. Essa evitava attraverso il Nord i deserti dell’Anatolia e della Siria. Pista carovaniera, questa «Via regia» era dotata di soste, di punti con acqua, di oasi e caravanserragli. Gli elementi dell’esercito di Dario, però, la tenevano sotto stretta sorveglianza. L’altra strada, la cosiddetta «Strada del Sud», più logora, congiungeva Mileto, sul Mare Egeo, con l’Eufrate, passando per la Siria settentrionale, quasi in linea diretta, tranne due curve per aggirare il massiccio del Tauro, alle Porte cilicie e issiche sul golfo di Alessandretta.
Ora, se l’esercito greco passa per Sardi dopo la battaglia del Granico per impossessarsi di viveri e d’oro, in seguito ignora entrambi gli itinerari. La metà degli effettivi circa si distribuisce nelle capitali dei satrapi del Nord dell’Asia Minore; l’altra metà riprende la sua marcia accelerata per liberare dal tributo le città greche delle coste del Mediterraneo orientale. Viene momentaneamente arrestata dalla resistenza di Mileto, di Alicarnasso e di alcune cittadelle della Licia e della Panfilia. La traversata dei massicci innevati della Pisidia alla fine dell’inverno del 334-333 non ci viene descritta, ma dovevano essere sparite comunque l’allegria della partenza e la gioia di liberare le città amiche. I carri del convoglio valicavano colli a 2000 metri di altitudine attraverso piste molto dure, mentre gli uomini spingevano sulle piattaforme e si inarcavano sui raggi delle ruote.
«Abbandonando Faseli [città greca tra gli attuali villaggi di Kener e di Tekirova sulla costa orientale della Licia], Alessandro spedisce parte del suo esercito attraverso i passi montani in direzione di Perge, nella Panfilia occidentale e in posizione dominante sul Golfo di Antalya [Adalia], di cui soldati traci gli hanno liberato il cammino, senza di che l’avvicinamento sarebbe stato arduo e lento. Quanto a lui, egli guida i suoi uomini lungo il mare, seguendo la costa [fino ad Antalya]. Ora, là c’è una pista percorribile solo con la tramontana. Quando soffiano invece gli altani, il passaggio lungo la costa diventa impraticabile. I venti del Sud si erano appena calmati, ed ecco presentarsi un bel vento del Nord. Il re e il suo seguito vi scorsero un intervento divino. In ogni caso il tragitto ne risultò facilitato e accelerato.» Questa testimonianza di testimoni oculari, ripresa da Arriano (Anabasi, I, 26, 1-2), si può leggere altrove più o meno deformata dalla leggenda o dalla critica malevola degli autori di commedia: gli Ateniesi non credevano minimamente nei miracoli! Per parte nostra, ne consideriamo valido un unico dato: e cioè che ogni tanto l’esercito avanzava ai piedi di scogliere scoscese, in riva al mare, e che gli capitava di essere inzuppato dalle onde e dagli spruzzi.
Dopo Gordio, l’immensa colonna ha bisogno di due mesi per raggiungere Tarso, agli inizi del mese di luglio del 333: aveva così l’occasione di costeggiare un nuovo mare, al centro di una steppa arida, il Lago Salato. Si tratta dei 90 chilometri dell’attuale Tuz Gö’ü, a otto giorni di cammino a sud di Ankara, e guai a chi, uomo o cavalcatura, ha indugiato troppo a lungo sulla frangia di un bianco abbagliante che va a morire al bordo del cammino. Il sale e la soda consumano la suola o lo zoccolo e fa un male d’inferno appoggiarsi sui piedi sanguinanti.
Alle Porte della Cilicia e della Siria, marce, contromarce, soste e dietrofront, prima di potere affrontare, nel novembre del 333, sulle rive del Pinaro, le forze composite dell’esercito persiano. I Greci trascorrono circa un anno nell’assedio di Tiro e di Gaza in Fenicia, cioè avanzano verso sud soltanto di 600 chilometri. Poi, bruscamente, balzano in Egitto e in sei giorni la cavalleria supera i 200 chilometri che separano Gaza dal ramo pelusiaco del Nilo (Arriano, Anabasi, III, 1, 1).

Marce in Africa

Gli acquartieramenti invernali, i fasti di Menfi, l’inoperosità preoccupano lo stato maggiore: Alessandro porta con sé, nel gennaio del 331, dai cinque ai diecimila uomini per fondare Alessandria d’Egitto, tra Faro e Rhakotis, poco sopra la foce canopica del Nilo, e tiene con sé solo un piccolo seguito di baldi cavalieri e di mearisti per raggiungere, via Mersa Matruh, lungo la costa, l’oasi e l’oracolo del dio Ammone, l’attuale Siva, in pieno deserto, dopo 580 chilometri di cammino.
Il periplo, con ritorno attraverso la depressione di Qattara, è durato soltanto due mesi, ma quanti movimenti, quante paure e imboscate! Il racconto migliore, a nostro avviso, resta quello che Quinto Curzio Rufo, secondo Diodoro, ha attinto da Clitarco: «Il primo giorno e quello successivo, la fatica sembrò sopportabile; ciononostante, benché non si fossero ancora raggiunte le immense solitudini desertiche, il terreno era già sterile e privo di vita. Non appena sfuggirono ai loro occhi le pianure nascoste dallo spessore sabbioso, ricercavano con lo sguardo la terra, quasi fossero entrati in un mare profondo. Dinanzi a loro, non un albero, non una traccia di coltivazione. Anche l’acqua, che i dromedari avevano portato dentro gli otri, cominciava a mancare, e non ve n’era né nel terreno arido né nella sabbia infuocata. Inoltre, il sole aveva bruciato tutto, le fauci disseccate erano in fuoco» (IV, 7, 10-13). Dopo quattro giorni e quattro notti, mentre gli uomini stavano cadendo in preda allo scoraggiamento, una provvidenziale pioggia cadde sulla truppa. Ognuno attinse da una buca del terreno o dai teli delle tende la riserva per ricostituire la propria provvista. «Alcuni, che stavano morendo di sete ed erano fuori di sé, spalancavano la bocca per afferrare la pioggia» (IV, 7, 14).
Trascorsero altri quattro giorni di traversata tra i vortici di sabbia. Il volo di corvi e la presenza di due serpenti delle oasi consentirono alle guide di ritrovare la pista. I marciatori sparsi si raggrupparono. «Ma la cosa più meravigliosa, stando a Callistene, è che [i corvi] richiamavano con i loro gridi gli uomini dispersi durante la notte, e il loro gracchiare li riportava sulla strada giusta» (Plutarco, Vita, 27, 4). Sembrava poi addirittura che i serpenti parlassero... Del ritorno, in linea diretta da Siva a Menfi, secondo Tolomeo I, futuro re d’Egitto, sappiamo soltanto che per percorrere 550 chilometri in tre settimane era necessario procedere di notte e ripararsi dal simun sotto le tende di giorno. L’impresa non stava tanto nell’avere fatto parlare il dio, quanto nell’essere riusciti là dove Cambise aveva invece perduto, si diceva, qualcosa come cinquantamila uomini.

L’inseguimento di Dario

Solo cavalieri e cammellieri equipaggiati alla leggera potevano mantenere medie di quel genere, 28 chilometri al giorno, e così a lungo. Con tutti i suoi pedoni e il suo pesante convoglio, l’esercito che avrebbe per la terza volta affrontato le truppe di Dario procedeva nel doppio del tempo. L’esercito aveva lasciato l’Egitto all’inizio della primavera del 331, in ogni caso prima del 7 aprile, per superare l’Eufrate su due ponti di barche, intorno al 1° agosto, a Jarabulus, l’antica Tapsaco, nel Nord della Siria, non senza fermarsi qualche giorno a Tiro, a Damasco e ad Aleppo. Ancora steppa o deserto e, nonostante i deboli avvallamenti del terreno e gli abbondanti punti d’acqua e caravanserragli da Karkemish fino al Tigri, la colonna in ordine di marcia ha dovuto impiegare almeno quarantatré giorni per superare i 440 chilometri che la separavano dal fiume. Poco più di 10 chilometri al giorno.
È vero che chi ha visto, nel mese di agosto, i tell morti della zona di Harran, l’antica Carre, in Assiria, dove Crasso perse le sue legioni, le capanne di fango secco, a forma di alveare sotto le quali ancora oggi si nascondono gli abitanti, chiunque sia stato vittima dei mille miraggi dei palmizi, all’orizzonte, chiunque abbia provato l’angoscia di sentirsi innalzare accanto colonne di sabbia fino in cima a un cielo da fornace, si renderà conto di come la grande spedizione non potesse avanzare se non per poche ore all’alba e al cader della sera, in pieno paese nemico.
Parte dell’esercito ha forzato, a guado, il passaggio del fiume, in un’eclissi di luna nella notte dal 20 al 21 settembre del 331, mentre tutta la truppa con i suoi carichi ha dovuto proseguire per 40 chilometri prima di schierare le file per ingaggiare la grande battaglia di Gaugamela. Di là a Babilonia, attraverso la Via regia e senza incontrare ostacoli, 400 chilometri in trentaquattro giorni; da Babilonia a Susa, 370 chilometri in venti giorni; da Susa a Persepoli, sempre per una strada agevole, 590 chilometri in circa un mese; da Persepoli incendiata a Ecbatana, capitale rimasta intatta, 700 chilometri in quarantaquattro giorni. Fate il calcolo: si tratta di tappe dai 12 ai 18 chilometri al giorno. Poi il ritmo si fa più accelerato: bisogna raggiungere a ogni costo Dario in fuga, con i suoi tesori, i suoi carri, le sue concubine e i suoi mercenari, prima che vada a incitare alla sollevazione i satrapi del Nord dell’Iran e a ricostruirsi un esercito.
La cavalleria macedone e la fanteria leggera, a marce forzate, affrettano il passo fra il 9 e il 20 giugno, o meglio corrono per 310 chilometri, tra Ecbatana e Rhagai, a due leghe da Teheran, in ragione di 28 chilometri al giorno. Arriano ci riferisce come poi i più baldi alleati debbano occupare rapidamente le Porte caspie (le gole di Sialek e di Sardar), procurarsi foraggio in tutta fretta prima della traversata del deserto, avanzando quindi alla fantastica velocità di 300 chilometri in sei giorni, fino a un po’ a ovest di Damghan, in Partia, dove «scoprono il cadavere del re di Persia assassinato» (Anabasi, III, 20-21). L’inseguimento ha raggiunto il parossismo in una marcia ininterrotta di 70 chilometri in diciotto ore (30 giugno-1° luglio 330). In più di un caso i fanti armati più alla leggera, che avevano con sé solo le proprie armi e viveri per due giorni, furono costretti a montare a cavallo.

Le campagne dal 330 al 323

La campagna fra i Mardi e gli Ircani delle rive del Caspio fu piuttosto una passeggiata militare, per circa un mese: fiori, frutta, cereali, greggi, fanciulle che rallentavano la marcia dei conquistatori, quando, all’improvviso, vennero a sapere che sulle loro retrovie Besso stava sollevando l’Aria, la Drangiana e la Battriana, praticamente tutto l’attuale Afghanistan.
Sarebbe noioso calcolare, come i bematisti della spedizione, tutti i passi e le singole tappe. Vanno sottolineati due soli elementi. Il primo è che, malgrado le grandi altezze e malgrado la comparsa dell’inverno, le truppe continuavano ad avanzare. Da Herat a Frada, vicino all’attuale Farah, e di là a Kandahar e a Ghazni, ai confini con il Paropamiso, quel monte «così alto che l’uccello Sena non riesce a varcarlo», si contano 1010 chilometri, a un’altitudine media di 2000 metri.
L’esercito che arriva a Ortospana, vicino a Kabul, nel dicembre del 330 era talmente spossato, sfinito dal freddo e dalla fame che si dovette fondare con gli invalidi un’Alessandria cosiddetta del Caucaso, nel cuore dell’inverno 330-329, 70 chilometri a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana degli eserciti di Alessandro Magno
  4. Cronologia degli avvenimenti
  5. Prologo. Sul dio o sull’uomo?
  6. I. Il grande esercito
  7. II. La truppa e i suoi quadri
  8. III. La truppa e il re
  9. IV. L’esercito in marcia
  10. V. La conquista delle città
  11. VI. La fondazione delle città
  12. VII. La marina da guerra
  13. Conclusione. L’ellenismo trionfante
  14. Bibliografia generale
  15. Bibliografia complementare
  16. Ringraziamenti
  17. Copyright