Lampi sulla storia
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Lampi sulla storia

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Lampi sulla storia

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È nell'intreccio serrato dei rami che compongono l'albero della storia che possono esplodere le scintille tra passato e presente. Scintille che nascono dall'uso troppo rigido di categorie attuali applicate a fatti, eventi e personaggi di ieri; fiamme che rischiano di divampare quando il nostro sguardo non è scevro da pregiudizi e libero da tesi già confezionate; incendi che si propagano tra le sterpaglie del campo storico se l'analisi non supera il limite delle eccessive semplificazioni. La comprensione del presente passa da qui, dalla capacità di andare a ricercare cosa si nasconde dietro le apparenze, dalla volontà di andare oltre, e correggere, le forzature e le deformazioni del racconto storico, dall'essere in grado di riconoscere i capovolgimenti con cui il passato ci viene spesso presentato. Soffermandosi su figure centrali come Robespierre, Gramsci, De Gaulle, passando dai drammatici giorni del luglio '43 che videro la caduta del Duce alla nascita dello Stato di Israele, dal processo a Socrate fino ai rapporti tra il papato e Lutero, Paolo Mieli ci propone in queste pagine un viaggio avvincente e rigoroso nella storia antica e recente, italiana e internazionale. Per sfatare falsi miti e incongruenze di giudizio alla luce di documenti inediti e proporre visioni spesso alternative a quelle ufficiali. Con la forte consapevolezza che le fiamme che ogni giorno divampano tra le fitte stoppie della storia devono essere domate, che i focolai accesi, spesso colpevolmente, non si estingueranno se non mettendo in campo tutto il rispetto per il passato e per la sua complessità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858694817
Argomento
Storia
II

FORZATURE E DEFORMAZIONI

Gli errori di Federico II nel suo ruolo di padre

Il rapporto col passato vive anche di momenti di rinnovato interesse per periodi e personaggi storici. Un fenomeno che abbiamo visto all’opera a partire dai primi anni Duemila nei confronti di Federico II. In questa linea si inserisce il testo monumentale di Wolfgang Stürner Federico II e l’apogeo dell’impero, all’interno del quale merita un’attenzione particolare l’introduzione di Ortensio Zecchino, dove si analizza come diverse correnti storiografiche nonché diversi regimi hanno tentato di far propria la figura del sovrano vissuto tra il 1194 e il 1250 che segnò di sé la sua epoca e quelle successive. Ma l’imponente libro di Stürner è uno strumento indispensabile per fare luce su importanti questioni connesse all’esperienza fridericiana e ad alcune sue vicende esistenziali, prima tra tutte il conflitto che lo oppose al figlio Enrico destinato a diventare il suo erede e che invece segnò drammaticamente la loro vita per risolversi, infine, in tragedia.
In passato Enrico è stato quasi sempre trattato dagli storici alla stregua di uno stolto e spesso la denigrazione a suo danno appariva motivata più dalla necessità di cantare le lodi del padre che da suoi peccati di comportamento. Come vedremo ci sono studiosi che attualmente rivalutano Enrico re di Germania e quasi sposano, per così dire, le ragioni che lo indussero allo scontro con l’imperatore Federico. Non è il caso dell’opera di Stürner, che però anche su questa vicenda appare più approfondita, dotta e sottile delle innumerevoli che l’hanno preceduta.
Enrico, nato nel 1211, trascorse i primi cinque anni di vita con la madre, Costanza d’Aragona, alla corte di Palermo. In seguito, su disposizione del padre, si recò con Costanza in Germania (1216) e lì, allorché Federico ottenne da papa Onorio III la corona imperiale a Roma (1220), crebbe in assenza dei genitori. Incoronato re ad Aquisgrana (ma sotto la tutela di un reggente) a undici anni, a quattordici fu costretto a sposare Margherita d’Austria che era molto più anziana di lui. Quando nel 1231 Enrico manifestò l’intenzione di divorziare dalla moglie per sposare Agnese di Boemia, Federico si oppose. Il problema di fondo, ha scritto Hubert Houben nel suo Federico II. Imperatore, uomo, mito, era di natura politica: Federico voleva che il figlio governasse attenendosi scrupolosamente ai suoi ordini; Enrico dovette però considerare il divieto di separarsi da Margherita come lesivo del suo rango regale, una sorta di limitazione della sua autorità. E fu scontro. Che si concluse con la deposizione di Enrico, la sua lunga prigionia, il suo ammalarsi di lebbra e infine il suicidio (1242). Alla morte del figlio, Federico lo fece seppellire con tutti gli onori nel duomo di Cosenza e nella lettera (scritta dal capo della sua cancelleria Pier della Vigna) con la quale esortava il clero del Regno di Sicilia a pregare per il defunto si soffermò con queste parole sul conflitto che li aveva divisi: «Anche se non siamo stati piegati dalla superbia di un re vivo, siamo commossi dalla morte di questo nostro figlio; non siamo i primi e non saremo gli ultimi a sopportare i danni delle trasgressioni dei figli e ciò nonostante a piangere dopo i loro funerali […]. Né l’acerba sofferenza generata dalla trasgressione è per i genitori una medicina efficace contro il dolore: la natura, pungendoli, li fa dolere per la morte dei figli, anche se essi li hanno offesi con la loro irriverenza, che si oppone alle leggi della natura stessa».
Stürner – come si diceva – dedica grande attenzione al dissidio tra Federico e suo figlio Enrico mettendolo in relazione, almeno per quel che riguarda la fase iniziale, alla rivolta di Messina che esplose nell’agosto del 1232 e che costrinse l’imperatore a rimanere in Sicilia dall’aprile del 1233 al febbraio del 1234. La sommossa di Messina – che si era poi estesa a Siracusa e a Nicosia – era stata provocata dalla durezza, o meglio dal rigore di Riccardo di Montenegro, rappresentante di Federico in quella regione. Era stato del resto lo stesso Federico a disporre il divieto alle città di eleggere propri funzionari e giudici, a decidere per un consistente aumento degli oneri fiscali e a stabilire il mancato rinnovo dell’esenzione della dogana per il porto di Messina. Come reazione ebbe una sommossa di cui Riccardo di Montenegro fu solo un bersaglio apparente. E per aver ragione dell’insurrezione l’imperatore si vide costretto a promettere un perdono generale; poi però, una volta che ebbe domato la rivolta, non tenne fede alla parola: fece arrestare i capi di quei moti, ne impiccò o mise al rogo la gran parte, imprigionò o bandì dalla città i loro seguaci e fece distruggere completamente alcune colonie che si erano distinte nei tumulti. Perdonò, invece, e promosse di rango Riccardo di Montenegro.
Scottato da quell’esperienza, Federico affrontò la questione del figlio con particolare durezza. Enrico era stato assai leale, alla fine degli anni Venti, nei confronti del padre, scomunicato da Gregorio IX nonostante avesse ottenuto – al termine di un negoziato con il sultano d’Egitto – la restituzione di Gerusalemme ai cristiani. Enrico si era scontrato con tutti coloro che si andavano alleando con papa Gregorio (in primis Ludovico di Baviera) in cospirazioni che sembrava avessero come fine la destituzione dell’imperatore. Ma il padre non gliene fu affatto grato. Anzi. secondo Stürner l’imperatore prese spunto dal complesso rapporto tra il figlio e i principi tedeschi per rendere pubblica la sua contrapposizione a Enrico. La dieta di Worms del gennaio 1231 «aveva costretto Enrico a revocare le concessioni fatte in un primo tempo alle città sulla Mosa ma anche a ratificare il ruolo di predominio dei principi che governavano le città». I cittadini non potevano concludere patti o alleanze tra loro contro la volontà dei principi e il re non avrebbe potuto approvare tali alleanze. La successiva dieta che si tenne di nuovo a Worms, alla presenza del sovrano, dalla fine di aprile all’inizio di maggio dello stesso anno, «si spinse più in là. Richiamando l’accordo che Federico aveva stretto con i principi ecclesiastici nel 1220, i principi imperiali ottennero la ratifica della loro posizione di domini terrae attraverso un privilegio reale. Il re rinunciava espressamente a fondare città, a costruire castelli o nuove strade, istituire mercati o zecche nei loro territori senza il loro consenso». Oltre a ciò, il re «concedeva ai principi l’esercizio indisturbato della giurisdizione e dei diritti feudali e si impegnava a tenere a freno le tendenze espansionistiche delle città sul suolo regio, cui quelli guardavano, come sempre, con preoccupazione». Il re proibiva altresì «alle città di occupare i suburbi e di appropriarsi di beni, di accogliere i servi della gleba fuggiti dai loro signori, di estendere la loro giurisdizione e il diritto di scorta nei territori limitrofi e di compiere atti amministrativi a spese dei principi». Questo documento metteva in luce la forte posizione che i principi tedeschi avevano acquisito rispetto al re. A differenza del 1220, inoltre, «i principi imperiali, laici ed ecclesiastici, rappresentarono i loro interessi in maniera compatta, come un unico ceto, e il re – ciò che può risultare importante nel giudizio su Enrico – non ricevette nulla in cambio della propria compiacenza, del suo ufficiale riconoscimento dell’evolversi degli eventi a loro favore».
Nel 1232 l’imperatore convocò in modo assai brusco suo figlio ad Aquileia (non si vedevano da dodici anni, da quando Enrico ne aveva nove) dove riconobbe in maniera formale e piena le sue decisioni e la sua dignità regale, ma ribadì anche l’assoluto predominio della propria posizione «obbligando Enrico a una drastica, rigorosa e perfino umiliante sottomissione al suo potere imperiale». Il re rientrò in Germania molto scosso e ferito nell’orgoglio e il padre da quel momento non si fidò più di lui. E fu la rivolta di Messina, con la feroce repressione che ne seguì. In quell’occasione papa Gregorio IX, scrive Stürner, «non solo sospettò che Federico avesse messo al rogo i suoi avversari, facendoli passare per eretici, ma biasimò anche le dure misure imperiali contro l’insurrezione siciliana, definendole senza troppe perifrasi crudeli e ingiuste, e accusò inoltre Federico di aver spinto alla ribellione i sudditi con la sua politica di oppressione invece di conquistarli con l’amore, come si conveniva a un regnante cristiano: sembrava quasi che volesse negare al sovrano temporale il diritto di usare la forza».
E il dispetto dell’imperatore fu assai grande allorché nell’agosto del 1233 Enrico, accompagnato a sorpresa dal vescovo di Strasburgo ma anche dall’arcivescovo Sigfrido di Magonza e dal vescovo Ermanno di Würzburg, per oscuri motivi mosse con un grande esercito contro Ottone figlio di Ludovico e nuovo duca di Baviera, infliggendogli una pesante sconfitta. Dispetto che si trasformò in collera quando nel dicembre del 1234 Enrico strinse un accordo con Milano e le città della Lega: «Agli occhi dell’imperatore», scrive Stürner, «quell’accordo dovette apparire un crimine assurdo e orrendo che dimostrava con assoluta chiarezza i propositi di alto tradimento di suo figlio, miranti alla rovina dell’impero». Nel 1235 Federico scatenò la guerra contro Enrico e, nonostante quest’ultimo avesse inviato ambasciatori per chiedergli perdono e annunciare la sua sottomissione, non si fermò finché non lo ebbe sconfitto e imprigionato, con le conseguenze di cui si è detto all’inizio.
Stürner a questo punto si misura con i lavori su Federico II di due importanti storici tra loro contrapposti: Christian Hillen e Theo Broekmann. Concorda con Hillen il quale ha sostenuto che «i principi imperiali, al pari dei nobili tedeschi, ebbero contatti molto più intensi con il padre che dimorava nella lontana Italia che con il giovane re, furono sostenuti da Federico e contribuirono a plasmare la sua idea sugli avvenimenti tedeschi, mentre attuavano i suoi propositi. E che Enrico non riuscì, evidentemente, a creare un’analoga rete di rapporti personali incentrata su di sé: e così alla fine non ebbe più appoggi tra le personalità di rango, come pure tra i rappresentanti della ministerialità». Dissente invece da Broekmann che ha approfondito il conflitto tra padre e figlio sostenendo che «Federico sarebbe stato influenzato dal modo di risolvere le divergenze vigente in Sicilia, fondato sul rigor iustitiae, sull’autorità e la spietata durezza, mentre Enrico, agendo in conformità con il sistema di valori vigente a nord delle Alpi, avrebbe combattuto in difesa del suo onore e del suo prestigio di re; dalla sua sottomissione egli si sarebbe quindi atteso, fino alla fine, non solo di ricevere il perdono imperiale, ma anche, grazie a questo, il proprio honor regio». Di fatto Broekmann accusa Federico di non aver saputo dar prova di misericordia. Un imperatore duro, spietato, contro un re tedesco mite. Ma Stürner gli contesta che «Federico biasima sempre, senza eccezione, la durezza del diritto romano che egli intendeva alleviare con la mitezza e la misericordia delle proprie costituzioni». Naturalmente, prosegue, «nella prassi politica lo svevo dimostrò di saper punire in maniera estremamente crudele; ma si trattò quasi sempre di casi di aperta e palese infrazione della legge o di alto tradimento come la rivolta dei Saraceni in Sicilia o la congiura del 1246. D’altra parte fin da giovane Federico mostrò di saper perdonare le ribellioni, una volta sconfitte, richiamandosi alla propria misericordia e pietà, e promulgò il corpus di Melfi […] soltanto dopo un’accurata consultazione con i rappresentanti del regno». Né «gli erano estranee le usanze nordiche, e quando giunse in Germania praticò per lungo tempo, con convinzione e successo, le forme di sovranità consuete in quei luoghi (perciò biasimate ancora da qualche storico dei nostri giorni) come dovette sperimentare anche suo figlio». Da quest’ultimo «lo separava forse soprattutto la divergenza di fondo circa il ruolo dei principi imperiali; e questa divergenza spiega il rifiuto di Enrico di recarsi alla fine del 1231 alla grande dieta organizzata dal padre a Ravenna, come pure la sua alleanza, certamente sfortunata, con i tradizionali antagonisti dei sostenitori più fedeli dell’imperatore, nonché il patto da lui stretto infine con Milano, l’acerrima nemica di Federico». Tutte decisioni, queste, che «portarono al duro contrasto tra padre e figlio, fino a renderlo insanabile; sicuramente Enrico maturò la profonda convinzione di essere stato costretto alla lite con il padre dalla volontà di tutelare la propria dignità e orgoglio regio. Ma di certo Federico poteva rivendicare lo stesso, con altrettanta convinzione, forte anche delle concezioni vive nell’impero e insistere inoltre sul suo superiore rango, come pure – fatto per lui decisivo – sull’obbedienza che il diritto divino e naturale prescriveva al figlio nei confronti del padre».
Stürner, pur inserendosi nel solco degli storici tradizionali tutti impegnati a sostenere le ragioni di Federico, attenua – ed è la prima volta – il giudizio sui torti di Enrico. Imputa a quest’ultimo una «percezione troppo ottimistica dei propri spazi di azione» e gli muove l’accusa «politica» di non aver tranquillizzato – con la mutevolezza delle sue prese di posizione – la borghesia cittadina ma soprattutto, nella collaborazione che ebbe con i principi dell’impero, di aver parteggiato per coloro che era evidente prima o poi sarebbero entrati in conflitto con la causa sveva, mettendosi in urto con quelli che erano destinati a restare fedeli alla sua famiglia. Ma il libro contiene rilievi anche per il padre. «Da parte sua» sostiene Stürner «Federico non facilitò certo le cose, pretendendo dal figlio, senza avere con lui rapporti o vincoli personali, la sottomissione al comandamento che ingiungeva l’obbedienza al padre, ossia un atto tanto infantile quanto formale: per risvegliare nel figlio il senso di un simile dovere e al contempo conquistarlo alla propria concezione politica, avrebbe dovuto offrirgli un’attenzione paterna continua, con parole e consigli personali. Se il figlio fallì per le sue debolezze caratteriali e per un’errata percezione delle possibilità di manovra della dignità regale tedesca, il padre mancò nel compito di trasmettere al figlio questa percezione.» Siamo solo agli inizi della revisione di quel rapporto tra padre e figlio, ma il riequilibrio di giudizio c’è ed è di sostanza.

Dante Alighieri e il digiuno del conte Ugolino

Nel XXXIII canto dell’Inferno Dante Alighieri fu spietato con la città di Pisa fino ad augurarsi che l’Arno la inondasse e tutti i cittadini morissero annegati. Ma, poche terzine dopo, lo fu altrettanto con Genova e soprattutto con i Genovesi, spingendosi ad auspicare che fossero «del mondo spersi». A suo modo, l’autore della Divina Commedia fu dunque equidistante in merito al conflitto che aveva contrapposto Genova e Pisa nel Duecento, secolo in cui, quasi per intero, la posta in gioco tra le due città di mare era stata l’egemonia nelle acque del Tirreno. Precedentemente, a dire il vero, Genova e Pisa si erano sostenute l’un l’altra nella difesa dagli assalti saraceni che avevano conosciuto l’apice con la devastazione del porto genovese (934-935), quando – come riferisce Liutprando di Cremona – i nordafricani piombarono a più riprese sulla città, uccidendo quasi tutti gli uomini dopo aver saccheggiato le chiese. Pisa fu poi aggredita dai predoni «mori», ma in modo meno violento, nel 1005 e nel 1011. Verso la fine dell’XI secolo i corsari arabi si fecero meno aggressivi e tra le due città iniziò l’era della breve pace e della lunga competizione. Competizione ogni anno più accesa, fino allo scontro finale che è oggetto dell’interessantissimo libro di Antonio Musarra 1284. La battaglia della Meloria.
Si parla della battaglia navale che l’autore ribadisce essere «la più grande del Medioevo» tra due di quelle che il Risorgimento ci avrebbe poi «malamente abituato» a definire repubbliche marinare laddove «di repubblicano – per come intesero i maggiori – avevan in fin dei conti poco». Battaglia che, diciamolo subito, si concluse con una clamorosa vittoria dei genovesi e che «fu avvertita come decisiva per l’ascesa di Genova e la decadenza di Pisa». Lo scontro tra le due città, scrive Musarra, non fu «affatto una faida di campanile, così come, talvolta, si trova etichettato». Si inserisce invece in quello che potrebbe essere definito «il secolo degli Italiani». Quantomeno, afferma lo storico, «il secolo in cui gli Italiani – termine qui utilizzato per praticità, sia chiaro – mostrarono un dinamismo tale da ritrovarsi a predicare in terre assai lontane e a commerciare su tutti i mercati di una certa rilevanza: dal Mar Nero alle Fiandre, dall’Africa settentrionale alla penisola iberica, dalle foci del Danubio all’Asia, dalla Provenza alle coste dalmate, greche, anatoliche, siro-palestinesi ed egiziane».
Il Duecento è il secolo della «rivoluzione commerciale» provocata da un clamoroso balzo nella modernità dell’economia di scambio e di mercato. Volendo fornire un «esempio inusuale», Musarra chiama a testimone delle proprie tesi san Francesco con la sua «condanna dell’accumulo improduttivo e la conseguente spinta all’investimento, mezzo per accrescere il bene comune (altro che disputa sulla povertà!)». Dopodiché «la crescita di volume degli scambi incise profondamente sulle relazioni tra i principali protagonisti – potremmo dire, i centri propulsori – della cosiddetta “rivoluzione commerciale”, configurando, sovente, situazioni di conflitto». Quanto ai contendenti di cui si parla in questo libro, «il Tirreno diventava progressivamente troppo angusto per contenere gli uni e gli altri». Le basi dell’antagonismo tra pisani e genovesi erano rintracciabili nel tentativo di accaparrarsi il monopolio delle rotte e degli scali lungo la direttrice che da Genova recava alla Sicilia e ai porti del Maghreb, e che, inevitabilmente, attraversava le acque della Corsica e della Sardegna, sulle quali entrambe le città avevano messo mano ricavandovi parte del proprio sostentamento». Ma sulla questione pesarono altri fattori, «dall’instabilità interna ai rivolgimenti del quadro politico peninsulare ed europeo, al puro e semplice desiderio di preservare l’honor civitatis». Il commercio, l’annona, l’entrata daziaria erano voci importanti, ma si mescolarono a una situazione internazionale – «utilizzo volentieri un altro anacronismo» precisa Antonio Musarra – «in veloce mutamento, capace di incidere profondamente sugli assetti di entrambe le città».
I rapporti tra Genova e Pisa iniziarono a essere tesi nel mar Tirreno proprio a causa della Corsica, isola irrequieta in cui il papato possedeva un cospicuo patrimonio fondiario. Tra il 1077 e il 1078 papa Gregorio VII aveva incaricato il vescovo di Pisa, Landolfo, grande sostenitore della riforma gregoriana, di «domare» la Corsica. Papa Urbano II nel 1092 aveva premiato gli sforzi compiuti dai pisani nell’impresa voluta dal suo predecessore, elevando la loro città a sede arcivescovile e concedendo al presule i poteri metropolitani sulle diocesi corse. Concessione rinnovata senza problemi fino al 1120 allorché Genova, da tempo ingelosita del primato concesso alla città rivale, mise in mare una flotta per muovere all’assalto del Porto Pisano. L’operazione si concluse con un insuccesso, ma ebbe l’effetto di inorgoglire eccessivamente i pisani, al punto di indurre il loro arcivescovo a entrare in conflitto con papa Callisto II. Poi, ai tempi del successore di Callisto, Onorio II, i rapporti tra Pisa e il papa si ristabilirono. Nel frattempo, però, i genovesi avevano moltiplicato gli attacchi, piccoli e grandi: nel 1129 avrebbero inseguito i pisani sino a Messina, il cui borgo fu saccheggiato per aver dato riparo agli odiati rivali.
Nel 1133, in occasione dello scisma che sconvolse la Cristianità occidentale, Pisa e Genova si ritrovarono dalla stessa parte, schierate a sostegno di papa Innocenzo II in opposizione all’antipapa Anacleto II. Ma Innocenzo, che ne aveva bisogno in funzione antinormanna (oltreché per staccarla dalla diocesi milanese a lui ostile), elevò Genova ad arcidiocesi e le affidò la «cura» di tre vescovati corsi, sottoponendo di fatto al controllo ligure metà dell’isola. Ormai tra le due città marinare lo scontro era aperto e definitivo. Nel giugno del 1162 il quartiere genovese di Costantinopoli fu assalito dai pisani; i genovesi reagirono attaccando nuovamente Porto Pisano e depredando le navi di Pisa che incrociavano al largo della Corsica e della Sardegna.
Fu poi nel Duecento che le due città giocarono tra loro una complessa partita tra guelfi e ghibellini. Ai tempi di Federico di Svevia, i Genovesi appoggiarono l’imperatore (con una politica che però Musarra definisce «ondivaga»). Il ghibellinismo genovese fu piuttosto «d’etichetta». La città che soffriva dell’isolamento causatole dall’Appennino non ebbe mai l’opportunità che aveva avuto Pisa di districarsi tra l’agro – «paludoso quanto si vuole ma, comunque, ampio» – e il mare. La struttura urbana genovese, così come la diffusione al proprio interno di un’economia incentrata sulla proprietà navale e sull’investimento, spingeva verso l’immagazzinamento di modeste quantità di merci, che, dunque, sostavano nel porto per il breve tempo del pagamento dei diritti di dogana. Piuttosto «erano i capitali a fare gola». E in ciò Genova ebbe una grande spinta verso la modernità. Il resto lo fece quello che Musarra – riprendendo una definizione di Arthur Conolly a descrivere il conflitto tra Russia e Gran Bretagna per il controllo nell’Ottocento di alcune regioni dell’Asia Centrale – battezza «Great Game mediterraneo». Un «grande gioco» condotto tra Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Creta, lo stretto di Messina e quello di Bonifacio, Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia, le coste del Maghreb, quelle iberiche fino alle colonne d’Ercole.
E siamo alla Meloria, al 6 agosto 1284. Il conflitto aveva avuto inizio attraverso anni di «azioni solo apparentemente estemporanee», mirate in realtà a «ritardare e ostacolare i piani bellici dell’avversario». Pareva, annota Musarra, «che le flotte delle due città andassero cercandosi a vicenda, senza mai trovarsi l’una di fronte all’altra, premettendo le ragioni della guerra di corsa, del blocco del vettovagliamento, delle comunicazioni e del trasporto di truppe armate allo scontro vero e proprio». Il primo scontro, in maggio, tra le due flotte avvenne in Sardegna,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. Il grande incendio
  4. I. DIETRO LE APPARENZE
  5. II. FORZATURE E DEFORMAZIONI
  6. III. LA STORIA CAPOVOLTA
  7. Conclusione. Il metodo per domare le fiamme
  8. Bibliografia
  9. Copyright