Il carillon e il citofono
Avete presente il suono di un carillon?
Ecco, al neonato il carillon piace. Va matto per il carillon. Col suono del carillon dorme. Con la stessa melodia si sveglia dolcemente.
Il carillon, per i bambini, è come la sigaretta per gli adulti che fumano.
Hai fame? Fumi una sigaretta.
Non hai fame? Una sigaretta.
Hai sonno? Due boccate a una sigaretta.
Vuoi dormire? Che cosa c’è di meglio di qualche tiro alla tua bionda preferita prima di chiudere gli occhi?
Il carillon funziona allo stesso modo. Buono per qualsiasi momento, a qualsiasi ora del giorno. Basta che nel raggio d’azione di una mamma, di un papà, di una nonna o di una tata agisca indisturbato un neonato da placare, o da placcare, ed ecco che scatta il ricorso al carillon. Nove volte su dieci, prima che il meccanismo finisca di suonare il suo carico di note magiche, il bambino dorme.
Man mano che il neonato cresce, però, la sua percezione del carillon è destinata a cambiare. Un bambino di quattro anni lo guarda come se fosse un oggetto ormai fuori moda. E se lo aziona, ora che è in grado di farlo da solo, il suo sguardo assume quel misto di sorpresa e stupore di chi vorrebbe chiedere al genitore: «Ma come potevo essere così scemo da farmi bastare questo suono insulso per prendere sonno?».
Più passa il tempo, più quella melodia ti disgusta fino a crearti una vera e propria repulsione.
Come la sigaretta per chi ha smesso.
A meno che non serva per addormentare un neonato, e a quel punto vale la storia di cui sopra, con l’ex bambino diventato ormai adulto il carillon ha l’effetto di una valanga carica di tristezza.
Lo stesso suono che aveva la forza di farti smettere di piangere, adesso ha la capacità di farti scoppiare in lacrime.
Ogni volta che qualcuno per lavorare è costretto a bussare alla mia porta c’è un carillon che inizia a suonare nella mia testa.
Il campanello squilla, lui s’avvicina, io lo guardo, carillon.
Sarà per colpa di una generazione di genitori che ci ha educati a considerare ostile chiunque suonava al citofono senza avere un invito – ed è lo stesso schema che ci ha portato ingiustamente ad archiviare i Testimoni di Geova come dei rompiscatole perdigiorno, come se il loro modo tutto sommato gentile di fare proselitismo non fosse degno dell’aura religiosa di chi aveva diffuso la propria fede a suon di guerre, sangue, morti e maledizioni di ogni tipo –, sta di fatto che, oggi, chiunque bussa alla mia porta per bisogno mi fa scattare un immediato sentimento di pena.
Come se quel lavoro quotidiano di passare di condominio in condominio, di casa in casa, di citofono in citofono, di porta in porta, che per le ragioni di cui sopra prevede l’ipotesi di essere considerati rompiscatole che invadono lo spazio altrui, fosse capace di generare inconsapevolmente un sentimento di commiserazione. O, quantomeno, questo è quanto succede a me.
E così, dimentichi delle innumerevoli stagioni della lotta politica che avevano visto in prima fila i nostri genitori, per un variopinto bouquet di cause vinte o perse che andavano dal verde pubblico alla guerra in Vietnam, l’unico moto di solidarietà di cui siamo capaci, oggi, è la pena. Dove una volta c’era la lotta «di tutti e per tutti», oggi c’è l’effetto carillon. Dove una volta c’era l’indignazione attiva, adesso c’è la commiserazione passiva.
Il trentenne fattorino di Deliveroo che mi consegna la pizza che ho appena ordinato col telefonino e che mi appare sfiancato da una lunga salita in bicicletta? Carillon. Il forsennato addetto alla logistica di una delle cooperative legate alle consegne di Amazon, che applica alla T-shirt che abbiamo visto in offerta sul sito il codice a barre grazie al quale arriverà in meno di ventiquattr’ore a casa nostra, e che abbiamo imparato a conoscere attraverso i servizi di un talk show? Carillon. E che dire della giovane ragazza che su Instagram si presenta come fashion blogger o wedding planner, ma che per sbarcare il lunario tenta di vendere aspirapolvere Folletto o robot da cucina, inducendo sua mamma a convincere le amiche a mettersi una mano sul cuore e una sul portafoglio, «ché comunque un Bimby in cucina costerà pure mille euro ma ti risolve mille problemi»? Anche lei, carillon.
C’è un motivo, e in fondo uno solo, che innesca nella mente di tanti – a cominciare dalla mia – quel latente e apparentemente inspiegabile effetto carillon azionato dalla presenza di un fattorino.
Quel fattorino non ha nessuno che lo protegge. Non ha la certezza del dopodomani e nemmeno quella dell’indomani, non ha un sindacato dietro, non un partito, non un’organizzazione.
Ha una sola certezza, e deve bastargli. Sa che nel momento esatto in cui sta consegnando la pizza o il sushi, sta lavorando.
Dell’istante successivo, non sa nulla. Nemmeno se quel lavoro continuerà a esistere. Dei rider, fino a pochi mesi fa, si sapeva poco. E quel poco che si sapeva ruotava attorno all’equivoco di considerare «la categoria» alla stregua di una «non categoria» o, peggio, di una categoria fittizia.
L’equivoco era fondato essenzialmente sulla considerazione che centinaia di rider, soprattutto i più giovani, avevano fatto la scelta di consegnare pizze a domicilio per mettersi in tasca qualche spicciolo in più con cui pagarsi uno smartphone nuovo, l’iPad di ultima generazione, una vacanza. Un lavoretto per arrotondare, insomma. L’abbaglio, colpevole o meno che fosse, è stato considerarli in blocco come quelli del «lavoretto», non del lavoro.
Sui chilometri in bicicletta macinati a trasportare pizza e sushi, invece, viaggiano migliaia di italiani (e non solo) che sui servizi resi ai colossi della gig economy hanno poggiato un pezzo del proprio futuro. Di tutto il loro futuro, non solo quello che finisce con l’acquisto del nuovo iPhone.
Un’ora sola
La generazione dei Rassegnati si alimenta grazie a un esercito indefinito di fattorini a ore. E l’ora, una sola, quella piccola montagna fatta di sessanta mattoncini a forma di minuto messi uno sopra l’altro, è l’unità di misura minima per entrare nelle statistiche con le stellette del «lavoratore».
L’oscillazione dei numeri sugli occupati dipende in fondo da questo – e a dimostrarcelo è l’elevato tasso di rissosità dei politici che si scatena ogniqualvolta vengono rese pubbliche le statistiche sul mondo del lavoro: ciascuno forza le cifre a difesa della propria parte, come se la matematica fosse diventata l’esatto contrario di quello che ci insegnavano alle elementari, e cioè un’opinione.
Tu, in una settimana, hai lavorato anche solo un’ora?
Hai consegnato anche solo due pizze, portando a casa nemmeno dieci euro lordi?
Bene, sei un lavoratore.
Sei la gioia del politico che sta al governo, e che grazie a te può rivendicare la bontà delle leggi emanate e delle strategie perseguite.
E sei però anche la gioia del politico che sta all’opposizione, che grazie alla tua sofferenza può contestare le ricette difese dal politico che sta al governo.
Sei la delizia del ministero del Lavoro, visto che col tuo misero «più uno» aggiunto in calce alle cifre sugli occupati potrà rivendicare un dato che senza di te sarebbe stato meno positivo, foss’anche di una sola unità.
E sei anche il dolce babà del sindacato, che se la prende con la controparte perché ha conteggiato la tua misera ora di lavoro insieme ai dati di chi ha un contratto a tempo indeterminato.
L’effetto che scaturisce la pubblicazione di ogni bollettino Istat sul numero degli occupati, da qualche anno a questa parte, è che i governi e le opposizioni di turno lo appallottolano e iniziano a lanciarselo come se fosse una pallina da tennis su una superficie veloce. Lo spediscono nel campo dell’avversario, che a sua volta lo rispedisce nel campo altrui. «Cresce il numero dei lavoratori, avevamo ragione noi» urla il governo. «Ma crolla il numero delle ore lavorate» risponde l’opposizione. «Siamo tornati ai livelli di occupazione pre-crisi» s’esalta il governo. «Ma sono tutti contratti precari» ribatte l’opposizione. La partita a tennis dura giorni, i tifosi sugli spalti esaltano l’una o l’altra squadra, alla fine non vince nessuno. E si va avanti così, di bollettino Istat in bollettino Istat.
La questione di fondo, stavolta, sta in cima. Essere considerati lavoratori anche solo per un’ora è come essere censiti tra i ricchi anche se in tasca hai solo un euro. Per un lavoratore di un’ora ascritto allo stesso ranking in cui militano gli assunti a tempo indeterminato o i pensionati, in definitiva, il brivido provato è lo stesso che proverebbe un lavavetri al pensiero di trovarsi nella stessa categoria di Diego Della Valle.
Solo che il secondo caso viene considerato un’autentica presa per i fondelli.
Il primo, chissà perché, no.
La qualità del tempo
A trasformare i nati negli anni Settanta in una generazione di Rassegnati contribuisce senz’altro la qualità del lavoro. Non solo la quantità. Le cifre impresse nell’annuario Istat del 2018 relative ai cambiamenti del mercato occupazionale nel decennio che va 2007 al 2017, fanno tremare.
L’Istituto nazionale di statistica certifica che, negli ultimi dieci anni, si sono persi quattrocentomila occupati (–392.000 è il dato esatto) «in professioni qualificate e tecniche». Mentre le «mansioni non qualificate» sono cresciute di poco meno di mezzo milione di unità (+437.000 per la precisione). Crollano gli occupati nell’industria (–7,3 per cento), nelle costruzioni (–27,5 per cento), nel commercio (–4,8 per cento), persino nelle amministrazioni pubbliche e nella difesa (–12,1 per cento).
Per vedere dei robusti segni più, scorrendo l’annuario dell’Istat, il nostro ditino dovrebbe fermarsi all’altezza degli occupati nei «servizi alle famiglie», che pesano nel 2017 molto più del doppio rispetto a dieci anni prima (+84,4 per cento, lo score sembra quello di un titolo della new economy a cavallo tra i due millenni); dei lavoratori nel settore «alberghi e ristorazione» (+25,1 per cento); di quelli addetti ai servizi di «sanità e assistenza sociale» (+14,1 per cento); e di chi viene catalogato tra coloro che svolgono professioni «esecutive nel commercio e nei servizi» (+13,9 per cento).
Quest’ultima dicitura sembra bellissima e allettante, anche a pronunciarla con tono sacro e fermo, magari al primo appuntamento con una ragazza o un ragazzo che ti piace. «Di che ti occupi?» «Sono un esecutivo nel commercio e nei servizi.» Di più, le si potrebbe persino conferire una connotazione anglofona, di quelle che catalizzano l’attenzione, provando a elevare con un semplice suono la percezione che l’altro ha di te. «Sono un executive nel commercio e nei servizi.»
Ma chi si nasconde, dietro la corazza di executive?
Ho capito di più sulle condizioni del nuovo lavoro e dei Rassegnati da un episodio vissuto più o meno in prima persona due anni fa che dalle pagine di decine di libri e articoli sul tema.
Una mattina di novembre, mentre stavo facendo colazione, la chat familiare di WhatsApp – mamma, papà, i miei due fratelli, io – s’illumina di un messaggio di mia madre. Siamo in cinque, abitiamo lontani l’uno dall’altro, per cui è consuetudine pressoché quotidiana scambiarsi il più comodo dei «buongiorno» con qualche parola rivolta all’angusta comunità familiare.
Nel messaggio di mia mamma, quella mattina, non v’era traccia di affetto personale.
Anzi, per toni e contenuti non sembrava scritto da mia madre, di cui tra l’altro conosco bene, diciamo così, la prosa. Si componeva di due elementi. Un’immagine e poche righe di testo.
La foto, che in realtà ricordava il fermo immagine di una telecamera di sicurezza, di quelli che finiscono in tv a Chi l’ha visto? o in programmi di cronaca nera – accompagnati da scritte in sovraimpressione tipo «L’ultima volta che Roberto Verdi è stato visto vivo», «Marco Rossi prima della rapina in cui ha ucciso sei persone» –, ritraeva un uomo fermo davanti a un portone. Jeans, camicia, giacca. E, appuntato sulla giacca, quello che aveva tutta l’aria di essere un tesserino di riconoscimento.
Il testo dava conto di quella che, ormai, pareva diventata un’autentica caccia all’uomo. «Questa persona si aggira spacciandosi per un operatore Enel, NON È VERO, si tratta di un truffatore, diffondiamo questo messaggio.»
Ed era quello che aveva fatto mia mamma. L’aveva diffuso, il messaggio. E anche la foto. A tutta la rubrica del suo cellulare, via WhatsApp.
E così, in meno di dieci minuti – di «diffondi» in «diffondi», di «inoltra» in «inoltra» – una comunità indefinita, chiamata alle armi con un semplice clic, come a voler transennare l’area in cui il pericolosissimo individuo in jeans col tesserino agiva indisturbato, ha provocato l’intervento dei carabinieri.
Ciascuno, rispetto a quel «truffatore», che tutti immaginavano intento a raggirare vecchiette indifese citofonando di casa in casa, si è sentito Clint Eastwood. Senza la Colt, però. Era sufficiente l’applicazione sul cellulare e un semplice «inoltra a tutti i contatti» per colpire il bersa...