«Signorina.»
È la signora Rosa. Un nome così delicato. E quell’aria da nonna, con il fisico rotondetto e morbido, l’aureola di capelli bianchi. Era stato questo a ingannarmi, a illudermi che sarebbe stata comprensiva. Invece è dura come la pietra. Appena chiudo la porta compare sulla scala e come al solito mi guarda di traverso. Perché? Perché è quasi settembre. Un altro mese è passato. Solo contanti, aveva detto, quando aveva accettato di affittarmi l’appartamento luminoso, benché fosse caro, molto caro. Solo contanti. Sull’unghia.
«Signorina» gracchia. Un appellativo adatto a una donna molto più giovane di me, a una ragazzina, e io avrei una gran voglia di sorprenderla, di dirle che stavo giusto cercando lei per pagare l’affitto, ma mi mancano le parole. Così bofonchio: «Sì, sì, mi scusi, un momento», e corro al bancomat all’angolo a fare i conti con i miei risparmi agli sgoccioli. Ho soldi a sufficienza ancora per settembre, e poi sarà finita. Non avrò più un centesimo. Ma quando torno nell’atrio del vecchio edificio di pietra e le consegno le banconote, di colpo mi sento libera.
Poi comincio a camminare. Cammino ogni giorno, aggirandomi per lo scheletro di Firenze, insinuandomi come un’ombra invisibile tra la calca dei passanti. Oggi proseguo finché il sudore mi brucia la pelle, e le gambe cominciano a tremare. Finché l’odore di fognatura che l’afa sprigiona da ogni fessura mi dà la nausea. Finché mi gira la testa, il pensiero rallenta e io raggiungo la mia destinazione: l’argine dell’Arno quasi all’ombra del Ponte Vecchio. Mi appoggio al parapetto, avverto il calore che sale dalla pietra e la calca di turisti che preme alle mie spalle per scattare una foto al ponte, tutti intenti a registrare in memoria la stessa identica immagine.
La sede della Canottieri si trova proprio sotto di me, dietro una piccola darsena che sporge sul fiume, la rampa di lancio delle barche che persino con questo caldo solcano la corrente pigra dell’Arno. Da giorni mi fermo qui a guardare i ragazzi italiani che vengono ad allenarsi. C’è qualcosa di rasserenante nei loro gesti, nel silenzio solenne con cui si caricano le barche in spalla, come i portatori del feretro a un funerale, e le mettono in acqua.
Oggi però è diverso. Perché, per la prima volta, sulla darsena vedo sbucare una donna, con una canoa in spalla, i remi appoggiati al fianco. È sola e perfettamente a suo agio. La osservo mentre cala la sua imbarcazione in acqua, infila un remo e poi l’altro negli scalmi di metallo, a forma di U. Infine raddrizza la schiena e scorre lo sguardo sull’Arno – è stata mattiniera, e per il momento non si vedono altri vogatori – e si cala con cautela nel guscio. Con una mano si spinge via dal molo e il fiume la accoglie, attirandola a sé con delicatezza; poi lei aggiusta la presa sull’impugnatura dei remi e comincia a vogare, dirigendosi al ponte successivo con movimenti decisi e aggraziati. È entrata in una dimensione a parte, un altro mondo rispetto alla città, con la sua calca di corpi, i suoi suoni e i suoi odori. Resto a guardarla finché sparisce alla vista, una figurina solitaria, in pace con l’universo.
Mi giro verso il portone verniciato di verde, incassato nell’edificio sull’altro lato della via, lo stesso che guardo ogni mattina, con la targa SOCIETÀ CANOTTIERI FIRENZE seminascosta dietro l’assortimento di cinture di cuoio che pendono dall’espositore di una bancarella come grosse liane scure. A destra c’è il lungo porticato della Galleria degli Uffizi, a sinistra il portone verde.
Oggi sarà diverso. Inspiro a fondo e comincio a farmi largo tra la folla per attraversare la strada. Ma prima che riesca a raggiungerlo, il portone si spalanca, lasciando passare una folata d’aria più fresca insieme a un gruppo di adolescenti che sgomita per superarmi con un coro di permesso, scusi, permesso. Un uomo chiude la fila. Un tizio alto con i capelli scuri pettinati all’indietro.
«Un po’ di attenzione, ragazzi!» grida, mentre loro se la filano, schiamazzando per la strada. «Scusi, eh» mi dice, appoggiando una mano al muro. Il sorriso cordiale gli fa strizzare gli occhi e tendere la pelle sugli zigomi. Un sorriso talmente enorme da farmi sentire accerchiata.
«Posso aiutarla?» chiede.
Io scruto il buio alle sue spalle, con la faccia ancora accaldata dalla passeggiata, l’abito incollato alla pelle dal sudore.
«Prego, mi dica» insiste lui.
Dirgli cosa? «Questa è la Canottieri Firenze?» Le parole suonano strane nella mia bocca, l’italiano semi-masticato.
«Sì, esatto.» Annuisce, e con un cenno mi invita a entrare. «Cercava qualcuno?»
«Vorrei...» Spalanco le braccia come un’idiota, per indicare l’ambiente circostante, e di colpo sento l’odore del mio corpo. Un odore aspro e pungente, come da una ferita infetta – è così da mesi, e non so se è il mio olfatto a essere cambiato o la mia pelle. «... iscrivermi, se possibile» riesco a dire, infine, stringendo le braccia ai fianchi.
«Certo!» risponde lui, con una risata, e apre del tutto il portone. «Deve parlare con Stefano.»
«Grazie» farfuglio, superandolo in fretta per entrare nell’atrio buio.
«Di niente. Arrivederla, signorina, arrivederla.» Sento ancora la sua risata quando il portone si richiude con un tonfo, escludendo d’un tratto l’afa, la luce, l’uomo beffardo.
Infilo una serie di gradini, procedendo a tentoni finché gli occhi si adattano alla penombra, superando le luci al neon di un ufficio fino a un’altra porta. Questo posto è deserto. Farei meglio ad andarmene. Ma poi ripenso alla donna sull’acqua, e infine colgo un suono smorzato, intermittente, che indica una presenza umana. Stefano: mi aggrappo a quel nome, supero la porta e scendo un’altra rampa di scalini. Mi sto avventurando in una grotta, un cunicolo sempre più profondo finché trovo un ingresso, con l’architrave di pietra talmente bassa che devo chinarmi per passare, e avverto nell’aria un misto di caffè e sudore. Viene da un baretto pieno di tavolini, illuminato da grandi finestre sul fondo. Un vecchio con una mezza muta aderente e senza maniche alza la testa dal giornale e aggrotta la fronte come uno gnomo ostile. Temo quasi che mi metta alla prova con un indovinello, invece scuote le pagine del giornale e riprende a leggere.
Dietro il bancone, un uomo con i baffi bianchi riempie un bicchiere di succo color rosa acceso, poi mi guarda. «Buongiorno» dice. «Americana?» Infila un cucchiaio nel bicchiere e si indica il petto. «Manuele.»
«Hannah.» È un sollievo. Niente indovinelli, nessun tranello. «Stefano c’è?»
«Anna» ripete lui, e il mio nome perde la «h» aspirata. «Anna di...?» Alza le sopracciglia in un’espressione interrogativa.
«Di Boston.»
«Piacere, Anna di Boston. Lui è Nico.» Indica il vecchio con un cenno della testa, e quello sospira e a passi strascicati si avvicina al bancone.
«’Sera» borbotta, e beve un sorso di succo.
Manuele mi strizza l’occhio, poi grida: «Stefano!», e un terzo uomo si staglia contro la luce della vetrata. È alto e abbronzato, e ha la bocca stretta in una linea severa. Manuele gli dice qualcosa ma parla troppo in fretta perché riesca a seguirlo. Capisco solo «Anna di Boston» e a quel punto mi inserisco.
«Hannah» lo correggo. «Vorrei iscrivermi. Il signore al portone ha detto...»
«Sì, certo.» Il sorriso di Stefano è ancora teso, la fronte accigliata. «Sai vogare?»
«No.»
«Mai provato?»
Esito. Immagino già cosa pensa di me, l’impressione comunicata dai vuoti e dalle rientranze del mio fisico. Ma ormai sono arrivata fin qui, perciò proseguo. «No, mai. Però vorrei imparare.»
Stefano resta zitto, e infine dice: «Va bene. Imparerai. Andiamo». Con un cenno mi indica di seguirlo ed esce alla luce del sole. Sopra di noi si innalza il Ponte Vecchio, una bestia a tre ventri i cui archi catturano i riflessi dell’acqua che scorre tra i piloni come un’ombra vorticosa. I turisti si sporgono dallo stesso parapetto su cui mi trovavo io pochi minuti fa, ma adesso quel mondo è lontano. È come se la città si fosse aperta per accogliermi e ora la guardassi dall’interno.
«Oh» mormoro, sottovoce.
«Bello, eh?»
Cerco con lo sguardo la donna di prima ma il fiume è vuoto, e non vedo nessuno sulla sponda erbosa o sui lunghi gradini di mattoni che scendono fino all’Arno.
«Oggi è tranquillo, la gente è ancora in vacanza» dice Stefano. «Ma domani torneranno tutti.» Poi, in un misto di inglese e italiano, mi spiega che in origine la struttura fungeva da scuderia per i cavalli dei Medici. A mano a mano che racconta, il suo sorriso diventa meno teso. È il presidente della Società Canottieri, come suo padre prima di lui.
«Ehi, Stefano» lo saluta in tono allegro un ragazzo, superandoci per raggiungere il molo.
«Anche lui è americano» dice Stefano. «Studente.» Mi riaccompagna all’interno e mi mostra gli spogliatoi, la sala pesi, poi mi fa strada in un lungo corridoio buio, fiancheggiato dalle barche appese ai muri. Sul fondo un uomo anziano sta chino su una canoa, rovesciata come un corpo su un lettino, e ne lucida con cura la chiglia di legno.
«Ciao, Correggio» gli dice Stefano, poi mi accompagna in uno stanzone pieno di vogatori meccanici allineati. Accostata a una parete c’è una vasca, sollevata rispetto al pavimento, con quattro seggiolini mobili in bilico lungo il bordo. «Per allenarsi quand’è brutto tempo» dice lui. «Questa è una stanza speciale. Sai perché?» Io scorro lo sguardo sui vogatori fermi, sull’acqua immobile della vasca che proietta giochi di luce sulle pareti, finché Stefano indica il soffitto e fa un sorrisetto scaltro. «Gli Uffizi» dice, svelando il segreto. «Ci sei stata?»
«Certo» rispondo, e sorrido. È un sorriso vero, il primo da giorni, forse da settimane. Ci troviamo proprio sotto il museo. Immagino la folla che si aggira nelle sale sopra di noi, e rivedo me stessa, confusa ai turisti mentre le visitavo. Basta un mese, un giorno, un unico pomeriggio, e puoi diventare un’altra, morire e rinascere.
Così quando Stefano precisa la quota associativa e domanda: «Okay?» io annuisco. Ho appena il necessario a campare, questo mese, eppure annuisco.
«Perfetto» rispondo.
«D’accordo, allora. Domani torna la mia segretaria. Per l’iscrizione puoi rivolgerti a lei. Poi cominci qui, in questa sala. Per impratichirti, e imparare. Una settimana, magari due. E poi, il fiume!»
«Così poco?»
«Sì, certo. Perché no?»
«Già, perché no?» gli faccio eco io, stringendo la mano calda che mi ha teso.
Prima di andarmene passeggio avanti e indietro nel corridoio di barche. Sono sistemate al contrario su sostegni di metallo, con la linea di pescaggio rivolta verso l’alto, e stipate in serie, dal pavimento al soffitto, in ordine di grandezza: dalla più lunga, per un equipaggio di otto, fino alla più piccola, da uno, sul fondo. In questa città il passato è sempre in agguato, appena dietro la superficie del presente, e spesso anche il mio risale dai fondali e di colpo torna a galla, rapido e feroce, e mi riporta un ricordo. Cammino lentamente, leggendo i nomi in stampatello bianco sulle fiancate – FORTUNATO, BOREA, PERSEFONE. Cerco le incongruenze tra i disegni sempre uguali dello stendardo bianco e rosso che garrisce su ogni...